Credo la Chiesa: Apostolica
Gruppo del venerdì
Aprile 1998
Questa è una delle questioni piuttosto dibattute perché, ovviamente, la caratteristica dell’apostolicità è legata al problema del ministero, ai vescovi, ed è uno dei punti di discussione grande.
La questione comincia molto presto, perché comincia con la questione del significato che si dà al termine “credo la chiesa apostolica”, perché apostolico e apostolo, nel Nuovo Testamento, hanno un’ampia gamma di significati, vicini, non completamente diversi, ma con sfumature diverse e quindi, a seconda che si sottolinei l’una o l’altra, cambiano le conseguenze che poi si traggono. Fin dall’inizio del II secolo si è dibattuto su questo tema, perché solo Luca usa apostolico nel senso in cui la chiesa cattolica romana lo usa oggi, vale a dire apostolico uguale a ” i dodici apostoli, uguale alla successione apostolica, uguale ai vescovi ecc. Tutti gli altri evangelisti usano apostolico in senso molto più ampio e non identificano automaticamente apostolo con i dodici.
In tutto il primo secolo apostolo vuol dire semplicemente colui che fonda una chiesa, è un titolo molto generale, non è connesso al senso che noi oggi diamo di “ordinazione sacerdotale giuridicamente stabilita”. La discussione su questo, cioè se apostolo, e dunque apostolico detto della chiesa, vada usato in senso stretto o in senso largo, inizia subito praticamente, perché se va usato in senso largo la chiesa è apostolica, cioè la chiesa nella sua totalità, nei battezzati, è una chiesa che si espande, che è missionaria, che coinvolge altri in questa buona notizia; se si usa in senso stretto, la chiesa è apostolica nel senso esattamente contrario, cioè la chiesa è qualificata dal fatto di essere radunata intorno ad un apostolo o ad un suo successore.
Quindi o in senso largo, che ha per soggetti tutti i credenti, è globalmente apostolica cioè missionaria, come diremmo oggi, oppure, al contrario, si ha chiesa solo là dove i credenti si radunano intorno a un apostolo. Tutto questo si è complicato variamente nei diversi secoli della storia
Tra il X ed il XII secolo, nel mondo latino è prevalsa l’idea più stretta e si è sviluppato, ad esempio, il commercio delle reliquie; infatti, era talmente stretta, materializzata, quest’idea che, per costruire una chiesa, bisognava costruirla su una reliquia di un apostolo.(questa lettura materiale era congrua alla lettura di quel tempo in cui tutta la cultura si esprimeva con una simbologia molto visiva, molto concreta per questo all’esterno ci sono i capitelli con demoni, mostri, simboli del peccato poi all’interno i finestroni su cui appaiono i simboli del lavoro, della terra, della produzione delle attività secolari che sono ai margini.
Noi oggi abbiamo in testa molto chiaramente e sappiamo distinguere se uno è o non è vescovo; prima del X secolo c’erano una serie di dati che definivano un vescovo ed erano molti (scambio di lettere sinodali, ricezione di un anello da un altro vescovo, ecc.) per questo, come in tutte le cose della chiesa, ma anche della società, c’era un’organizzazione abbastanza elastica.
Nella fase della materializzazione la discussione comincia a farsi molto pesante e la questione si radicalizza molto (se tu non stai sulla cattedra di un apostolo non sei un vescovo) e piglia la configurazione che abbiamo ancora oggi, anche giuridicamente, con la questione luterana. Questo è uno dei punti su cui Lutero insiste, perché la sua esigenza di tornare alle origini, anche a fronte della corruzione che rileva nei vescovi, è quella della diffusione del sacerdozio e dell’apostolicità, caratteristica di tutti i battezzati. Su questo, il concilio di Trento s’irrigidisce molto e dà una strutturazione giuridica che è poi quella che abbiamo anche oggi in cui, anche come laici, abbiamo un ruolo molto stabilito, molto stretto.
La chiesa cattolica latina si struttura in senso stretto. La chiesa è apostolica nel senso che è costruita intorno alla comunione con i successori degli apostoli e gli apostoli sono i dodici più Paolo, cioè i testimoni oculari della risurrezione.
Già qui c’è tutta una polemica della teologia femminista la quale sostiene che le prime testimoni oculari della risurrezione sono le donne. Esse però non sono tra i dodici.
Il criterio è “i dodici” e l’elenco in tutti i sinottici è molto preciso; l’eccezione su Paolo è fatta per il duplice motivo dell’apparizione del risorto e del riconoscimento da parte di Pietro. Le donne non chiedono di essere riconosciute, dunque il criterio è applicato in modo molto chiaro. La questione che resta molto forte e che lascia uno spazio reale di ragionamento è quella poi riproposta da Vaticano II, e cioè se i vescovi sono successori degli apostoli o se sono successori agli apostoli. Questo fa differenza, nel senso che se i vescovi sono successori agli apostoli significa che sono successori in una funzione, ma non in un ruolo, quindi non sono come gli apostoli ma fanno le cose che gli apostoli facevano per le chiese; se sono successori degli apostoli invece vuol dire che succedono nella funzione e anche nel ruolo ed acquistano un valore fondante. Questa può sembrare una discussione teorica, mentre in realtà è molto concreta perché, per esempio, sposta il valore del magistero, dell’insegnamento episcopale. Se sono successori agli apostoli la loro qualità magisteriale è in ogni modo inferiore a quella degli apostoli, se sono successori degli apostoli è equivalente. Sono questioni non da poco.
Vaticano II dà abbastanza un taglio nelle conseguenze, non fa un’affermazione precisa su questo, però quando afferma che i vescovi sono servi della parola dice, di fatto, che sono successori agli apostoli, sono limitati dalla testimonianza fondativa che resta di qualità diversa. Questo è un tema della distinzione.
Collegato a questo c’è anche da dire che questa questione non è così importante come sembra, secondo me, nel senso che la vera questione importante è l’assoluta sopravvalutazione, rispettando la dottrina tradizionale cattolica, del ruolo del ministero, dell’apostolicità in senso stretto che va benissimo nella misura in cui è quella insegnata dalla tradizione della chiesa, Trento compreso che, per esempio dice che nessun vescovo ha il carisma dell’infallibilità, da solo, e che nessun vescovo ha un esercizio dell’attività pastorale da solo. Nei fatti questo viene regolarmente percorso (se un vescovo esprime una sua opinione personale ed io ne esprimo un’altra, ha lo stesso peso perché l’infallibilità e l’esercizio pastorale sono da sempre, nell’insegnamento tradizionale della chiesa cattolica, carismi che spettano solo al collegio episcopale).
Su questo c’è una grandissima confusione. E’ vero che i vescovi garantiscono l’apostolicità perché sono successori agli apostoli, ma è altrettanto vero che i vescovi la garantiscono come collegio, non come singoli; come singoli la garantiscono solo nella presidenza liturgica, cioè nel fatto che la celebrazione eucaristica che compiono, non l’insegnamento catechetico, non l’omelia, ma la celebrazione in quanto consacrazione, è una celebrazione nella tradizione apostolica.
L’altra questione fondamentale è che da sempre il criterio fondamentale per dare la successione apostolica è quella che si chiama l’apostolicità di dottrina, cioè l’ortodossia dell’insegnamento, quindi, ancora una volta è stragarantista perché se un vescovo insegna diversamente dal collegio è lui che è fuori dalla tradizione (il collegio è l’insieme dei vescovi in comunione con il vescovo di Roma, non solo nel concilio formalmente convocato, ma anche nella prassi ordinaria. I pareri che i vescovi esprimono su tutto e di tutti i tipi hanno un valore spirituale se uno glielo vuole attribuire, di autorevolezza se sono autorevoli, ma non esprimono alcuna tradizione apostolica di dottrina nel senso che sono semplicemente opinioni. Vaticano II dice che i vescovi devono avere molta prudenza nel parlare perché, per il ruolo che occupano, al di là delle loro intenzioni, finiscono per esprimere un parere che può essere interpretato come parere della chiesa).
La questione è quella della cosiddetta successione sulla cattedra; non a caso la sede del vescovo si chiama cattedra e la chiesa dove celebra cattedrale; cattedra nel senso d’insegnamento, magistero. La successione si chiama sulla cattedra nel senso che è successione in continuità di dottrina; quest’elemento della continuità di dottrina è decisivo. Continuità di dottrina vuol dire che l’insegnamento, la mediazione, è garantito da quello che nella chiesa si chiama il consenso, cioè se la maggioranza, non numerica, ma la buona sostanza del collegio episcopale, e dunque delle chiese che stanno dietro ai vescovi, sono d’accordo, in comunione, con il pontefice di Roma, su un certo tipo di cose, allora queste cose hanno buona probabilità di essere nella tradizione apostolica.
Infatti, per esempio, Häring, consulente conciliare, teologo moralista, nel suo libro “Il coraggio di una svolta nella chiesa” dice una serie di cose precise, fondate ed inattaccabili perché di insegnamento tradizionale, e fa il caso dell’Humanae vitae sostenendo che se questo documento non ha un consenso del collegio ha buone probabilità di non essere un’affermazione di tradizione apostolica e bene ha fatto Paolo VI a non dargli il carattere di infallibilità, è un consiglio anche autorevole, ma di per sé non ha il consenso del collegio.
Tutto questo per dire come la questione dell’apostolicità è molto discussa.
Vaticano II riapre il tema dell’apostolicità come caratteristica di tutta la chiesa, quindi del dovere missionario, in ogni caso un altro bel tema. Che cosa vuol dire che uno in quanto credente apostolico deve fondare altre comunità, convincere altri? Vaticano II apre questa questione in termini di riconciliazione con il mondo luterano. Una possibile lettura positiva è nel ripensare al concetto di autorità. Noi oggi pensiamo che poiché uno è vescovo può presiedere l’eucarestia; se uno è un laico non lo può. Di per sé bisognerebbe fare un ragionamento contrario: poiché uno presiede l’eucarestia è un vescovo, cioè è l’eucarestia che definisce il ministero apostolico e non viceversa; non è una prerogativa, un’abilitazione.
Concettualmente il problema è che il fatto che viene dall’eucarestia, cioè dal porsi nella tradizione, nella possibilità e nel dovere di dare il cibo al popolo credente, è quello che ti definisce in una funzione che è quella del pastore, del successore agli apostoli e non viceversa. Non è che, poiché hai avuto uno scatto di carriera allora hai l’abilitazione di fare una cosa che un altro, non avendo avuto un avanzamento di carriera, non è abilitato a fare, perché l’apostolicità deve essere letta secondo il modello eucaristico: è la struttura liturgica dell’eucarestia che definisce funzioni, compiti, modalità, peso della successione agli apostoli e non viceversa, non una figura giuridica che poi ha anche, tra le altre cose, l’abilitazione a fare queste cose.
Domanda: ma allora che differenza c’è tra un presbitero ed un vescovo?
Dal punto di vista dell’apostolicità un presbitero non esiste.
Domanda: non c’è la formula che dice che il vescovo ha la pienezza del sacramento dell’ordine ma allora il presbitero è un po’ incompleto?
Rispetto all’apostolicità i vescovi sono successori degli apostoli, i presbiteri sono partecipi di questo ministero. Per ordinare un vescovo ci vogliono tre vescovi almeno e poi sono i vescovi che ordinano i presbiteri.
Intervento: ad un povero cristiano viene da pensare che l’eucarestia celebrata da un vescovo vale di più di quella celebrata da un presbitero
Originariamente celebravano solo i vescovi. Quella cosa strana che fanno i sacerdoti nella messa quando spezzano l’ostia e ne rompono un angolino che mettono nel calice, e che nella lettura devozionale dell’800 veniva spiegata come il segno della nostra partecipazione alla passione di Cristo, di per sé è l’ultimo ricordo del gesto di quel momento quando il vescovo consacrava poi spezzava ed affidava ai presbiteri o ai diaconi una parte di pane consacrato che veniva portato nelle comunità lontane dove la gente non consacrava ma dove c’era la liturgia della parola e poi la comunione al pane consacrato dal vescovo. La fratio panis è il ricordo di questa cosa e ciò avviene fino al VI secolo. I presbiteri c’erano, ma erano dei sovrintendenti, degli anziani della comunità e non c’era differenza tra un presbitero ed un diacono. Noi abbiamo in mente la struttura di chiesa che è quella in cui siamo cresciuti e che ha poco più di 150 anni, quindi è recentissima.
Intervento: con la crisi delle vocazioni cambierà nuovamente?
Non so, comunque è sicuro che questa questione del ministero, non dell’apostolicità, quindi del presbitero, del rapporto vescovo-presbitero, del collegio episcopale, è certamente la questione dei prossimi cento anni su cui si spaccherà e si trasformerà l’immagine di chiesa.
Intervento: in alcune zone di montagna dove non c’è più il prete suppliscono già le suore portando la comunione, facendo liturgia della parola e questa è una cosa diversa da quello che avveniva un tempo.
Certo e questo cambierà il volto delle chiese.
Slitterà sui laici, sui diaconi i quali non sono semplicemente quelli che non hanno ancora l’ordinazione, Vaticano II ha ristabilito i diaconi permanenti cioè quelli che diventano diaconi e fanno i diaconi; sposati, non sposati, ma non possono consacrare e confessare però i funerali, i matrimoni, i battesimi possono amministrarli.
Qui c’è un problema: se questo slittamento è solo sulla linea dei ministeri, dei diaconi per cui non ci sono più preti allora ci inventiamo un’altra formula che tappi i buchi, esempio le suore, i diaconi o i laici clericalizzati che alla fine funzionano come dei parroci, ma un po’ peggio perché comunque non hanno il ruolo sociale o se invece la questione si sposta sui laici nel senso di tornare in qualche modo all’immagine appunto di episcopato molto più forte e di presbiterato molto più debole, meno funzionale, meno organizzativo e ci si ricentralizza intorno alla celebrazione eucaristica, cioè al grande momento qualificante del ministero uscendo da una mentalità giuridica.
Noi siamo di una mentalità in cui se uno è un pio cristiano deve andare a messa duemila volte e questo impone una struttura territoriale di servizio e di messe, di quantità mentre ovviamente questo cambierebbe di molto. Se l’unica trovata è che invece di far la messa si fa una paramessa senza consacrazione con un diacono, la mentalità non viene scalfita perché la gente borbotta un po’ e poi invece di andare ad una messa va ad una paramessa. Non cambia niente.
Subito dopo Vaticano II si era un po’ più imboccata questa linea dei ministeri.
Intervento: quello di andare a messa tutte le domeniche è un precetto?
Sì, però questo è molto antico; è uno dei pochissimi precetti molto antichi ed è una delle poche cose che la chiesa ha insegnato con continuità fin da subito però, per esempio, non c’è mai stato un insegnamento sulla messa quotidiana o feriale, cosa che invece, soprattutto nell’800 ed ancora oggi resiste per cui sembra che uno è più pio se va a messa più spesso; c’è una correlazione tra quantità e qualità. La chiesa ha sempre insegnato l’obbligo solo della messa domenicale, il che significa che non ha mai insegnato l’obbligo di altro.
Dopo Vaticano II c’è stata un po’ di enfasi sui ministeri, adesso, secondo me si è un po’ più calmi e penso sia una buona idea nel senso che il problema non è che se non ci sono più preti allora bisogna clericalizzare una serie di cose che uno può benissimo già fare perché è battezzato. C’è stata come una specie d’ansia di riconoscimento: se uno faceva un gruppo del Vangelo allora bisognava che qualcuno gli desse il ministero della parola. Nessuno mi deve autorizzare a niente, io sono un battezzato, se leggo la Parola e ne parlo con altri non ho bisogno di essere legittimato.
Intervento: adesso pensiamo che un vescovo è tale perché ha fatto carriera, nei primi secoli non era così?
Nei primi secoli non c’era questa idea “graduata”, c’erano funzioni diverse, diaconato, presbiterato, episcopato ed era chiaro il primato dell’episcopato, primato teologico, non primato a “scalini”, e quindi non c’era proprio il problema. Si veniva eletti vescovi per lo più dalle comunità, ma in genere c’era un senso del collegio molto più stretto. I capi di comunità si conoscevano, si vedevano, si sentivano con scambi di lettere; tutta l’antichità è strutturata con sinodi regionali che spiegano la misura in cui riuscivano a tenersi in contatto e di fatto nelle regioni diverse succedevano cose molto diverse perché c’era difficoltà a tenersi in contatto. Allora molto spesso il vescovo era mandato da un’altra comunità, l’insieme del collegio dei vescovi si preoccupava di una comunità che era senza pastore e gliene mandava uno.
Questa questione della struttura apostolica storicamente e giuridicamente è molto complessa, con tanti modelli. Il modello di episcopato così come noi oggi lo conosciamo è per alcuni aspetti antichissimo, cioè l’episcopato monarchico nel senso di uno solo, di un vescovo che presiede l’eucarestia, che ha il dovere di insegnare, questa cosa è molto antica ed ha una continuità. Invece una serie di altre cose amministrative, poteri connessi, carriere, questo no.
Allora, secondo me, quello che ha maggiore validità e gli elementi che vale la pena di tenere in forte centralità, sono quelli che se hanno diciotto, diciannove secoli di continuità nelle chiese hanno validità di per sé.
Un’altra cosa che ha una grande continuità è la questione con il vescovo di Roma. Fin da quasi subito, Roma come sede del martirio di Pietro e Paolo, diventa il centro dell’occidente e lo scambio di lettere qualificante è quello con il vescovo di Roma e questa forma particolare di privilegio, anche nella forma della successione del vescovo di Roma, è molto antica.