Credo la Chiesa: Cattolica
Gruppo del venerdì
Marzo 1998
Dobbiamo ancora occuparci delle ultime due note, la chiesa cattolica e apostolica, che, secondo me, sono le più interessanti e presentano problemi non da poco. “Una e santa”, in una lettura di tipo moralistico, come quella che facciamo di solito nel cristianesimo, sono quelle più problematiche, mentre le altre due, “cattolica e apostolica”, sembrano più tecniche, quasi più interne. Su “una e santa” ci scandalizziamo, per la chiesa divisa, la chiesa peccatrice, ma in realtà, secondo me, se si esce da una lettura moralistica, si capisce abbastanza bene che cosa vuol dire che la chiesa è una anche se divisa o che è santa anche se peccatrice; si capisce invece molto meno bene cosa vuol dire che la chiesa è cattolica e apostolica.
La prima cosa che credo sia scontata, ma che vale la pena ripetere è che cattolicesimo è diverso da cattolicità. Cattolicesimo è il nome di una confessionalizzazione, come protestantesimo, ortodossia, ecc.; cattolicità è invece un attributo di tutte le chiese. Anche la chiesa ortodossa o quella evangelica si pensano cattoliche. Normalmente lo spieghiamo come universale, ma non è il significato esatto. Cattolico viene da due parole greche che vogliono dire: “secondo il tutto, secondo la totalità, conforme la totalità”, cioè ordinato alla totalità, che non vuol dire in sè universale. Sarebbe come dire che gli esseri umani sono ordinati alla socialità, ma non necessariamente sono sociali; cioè sono nati per stare con gli altri, per avere comunicazioni, ma possono pure campare da soli su un’isola deserta o vivere come eremiti. Non per questo è meno vero che hanno un’ordinazione per cui, anche quando vivono come eremiti, hanno dentro di loro la relazione agli altri del passato, del futuro, del desiderio, dell’attesa, della mancanza, come una forma del loro essere.
Allora cattolica vuol dire ordinata alla totalità, cioè conformata all’universalità e quindi non necessariamente vuol dire universale. Qui c’è già un tema abbastanza importante che è quello dell’espansione della chiesa, del cattolicesimo il quale ha pensato che la realizzazione della cattolicità fosse la sua espansione geografica.
All’inizio, in una prima fase, cattolico, cioè ordinato alla totalità, viene usato in contrapposizione a “particolare”. Ireneo dice che dove si mostra il vescovo, lì c’è la chiesa locale, come dove c’è Cristo c’è la chiesa cattolica, cioè il vescovo, con la celebrazione eucaristica, e le persone concrete che stanno intorno, è l’esperienza particolare della chiesa ordinata alla totalità che sta raccolta intorno a Cristo, di cui dunque non si fa esperienza storica concreta. Questo è il senso originario della parola; quindi la chiesa cattolica non deve “esistere concretamente”, nel senso che laddove esiste, laddove si vede, è particolare, se no, se esiste la chiesa cattolica, cioè radunata intorno a Cristo è la parusia e Cristo è già tornato.
In una seconda fase, invece, si comincia ad usare cattolico come contrapposto a “eretico”. Prima del mille, prima dello scisma con l’oriente, quando la chiesa cristiana è ancora formalmente una, ancora tutta unita, si contrappone cattolico alle sette scismatiche o eretiche, per dire la grande chiesa, la chiesa madre generatrice di tutte le chiese in confronto alle chiese che si sono staccate da questo ramo centrale, per definirle in qualche modo e non dare solo un nome agli eretici (Nestoriani, Ariani, non calcedonesi, ecc.); si dà dunque il nome di cattolica alla chiesa madre.
La terza fase è quella dell’espansione, dove cattolico viene detto in termini di appartenenza. Allora la chiesa è cattolica quando è universale e questo significa che tutti devono far parte di questa chiesa e da qui tutte le varie esperienze che possiamo citare, con varie polemiche su battesimi forzati ecc.
Il Concilio Vaticano II tenta di riportare in primo piano l’idea di cattolica nel suo senso originario, cioè la chiesa cattolica nel senso del destino cattolico della chiesa, della sua possibilità di mediare la salvezza per tutti. Quindi il destino cattolico della chiesa riguarda tutte le chiese cristiane perché la salvezza di Cristo è per tutti; quindi la chiesa evangelica è cattolica quanto la chiesa romana, quanto la chiesa ortodossa, perché tutte le chiese che discendono da Cristo hanno un destino, una conformazione ad essere per tutti senza preclusione e questo è esattamente il contrario del discorso dell’appartenenza. Dire che la chiesa ha un destino cattolico significa dire che “la chiesa di Cristo, la chiesa intorno a Cristo, media la salvezza per tutti”. Questa particolare esperienza di chiesa è fedele alla mediazione della salvezza universale attraverso Cristo o no e, come chiesa particolare, è altro dalla chiesa cattolica o è conformata, ordinata alla chiesa cattolica?
L’altro aspetto abbastanza interessante è che la questione della cattolicità della chiesa è legata al suo essere la chiesa di Cristo, cioè la motivazione per cui la chiesa ha un destino, un ordinamento all’universalità è solo perché è la chiesa di Cristo, perché Cristo è il mediatore universale della salvezza. Se non è la chiesa di Cristo non fa nessuna differenza, è come appartenere al club del golf. Il dirsi credente non praticante, ad esempio, che sgancia queste due idee, la mediazione universale di Cristo e l’appartenenza alla chiesa (tutto questo non è senza motivo, ha delle motivazioni culturali, di esperienza, di modo in cui è stata presentata la chiesa) è assurdo, è come se si riconoscesse, con il negare, una soggettività alla chiesa che non ha il diritto di avere. Nel momento in cui distinguo i due aspetti, anche per rifiutare la chiesa, do alla chiesa una dignità di soggetto autonomo che non ha diritto di avere perché la chiesa esiste solo in relazione a Cristo e dunque é meno di un soggetto.
Ed è vero che questo tempo è un tempo di ecclesiolatria, di idolatria della chiesa. E’ un tempo in cui molto fortemente la chiesa, nell’esperienza concreta, rischia di essere autoreferenziale, di avere una finalizzazione a se stessa (nelle parrocchie si fanno riunioni per organizzare riunioni che servono a fissare delle riunioni che servono a preparare delle riunioni ed i gruppi servono a fare degli animatori che servono a fare dei gruppi che servono a fare degli animatori). Sembra polemico, ma tutti si agitano con infinite responsabilità, doveri, testimonianza, con grandi impegni ecclesiali ma non si sa più qual è il contenuto, se non quello di far sì che la gente vada in parrocchia, e diventa molto comune usare come criterio il successo.
Giustamente poi, come reazione a questo, nascono esperienze che hanno una loro motivazione in questa logica, neocatecumenali o altri movimenti, che finiscono per essere alternativi alla chiesa nel senso che, a torto o a ragione, con degli squilibri, almeno propongono un contenuto, sono un’esperienza in cui c’è una proposta di un contenuto qualcosa di reale che accade o che dovrebbe accadere. Questo fatto, che nasce in parte dalla struttura ecclesiale, nasce anche dal fatto che chi, dal di fuori, negli anni ’60-’70, ha molto criticato il discorso della chiesa, ha dato con ciò ad essa una qualità di soggetto assoluto che non ha diritto di avere perché il soggetto assoluto è Cristo e questo nella tradizione è molto chiaro.
Intervento: cattolico dunque è una conseguenza del fatto che è la chiesa di Cristo?
Infatti; la descrizione della natura dice di un ordinamento, non di una realtà, dice non una cosa che io devo credere per poterci entrare, ma una cosa che la chiesa deve esaminare su di sé, è un esame di coscienza per la chiesa per valutare la propria conformità a Cristo. L’idea è che se una chiesa esclude qualcuno, non è chiesa di Cristo; se non è mediatrice della salvezza per tutti deve fare un esame di coscienza. Quindi il ragionamento è esattamente il contrario.
Nello stesso Credo c’è una distinzione: credo in Dio Padre onnipotente, credo la chiesa. Vi si distingue la qualità dei soggetti. Questo esattamente come nell’uso italiano: un conto è dire “credo in te” e un conto dire “ti credo”. Quando dico “ti credo”, vuol solo dire che credo alla verità della tua affermazione, penso che non dici una bugia; quando dico “credo in te” dico un’altra cosa. Allora in Dio si crede, la chiesa viene creduta nel senso che crediamo che la chiesa non fa una falsa eucarestia, non amministra un falso battesimo. Non crediamo nella chiesa e non è mai stato richiesto neanche nei tempi più oscuri di credere nella chiesa. Non ci si affida alla chiesa, ci si affida a Dio.
In Lumen Gentium 13, circa la cattolicità, si dice una cosa che in genere non viene molto spiegata: la chiamata alla salvezza in Cristo è universale ed è universalmente per la mediazione della chiesa, ma questa chiamata universale stabilisce relazioni diverse alla chiesa. Questo significa che non necessariamente tutti noi, non essendo tutti uguali, ci mettiamo nello stesso posto rispetto a questa mediazione della chiesa, ma tutti siamo appartenenti o ordinati alla chiesa e si stabilisce una specie di graduatoria, non di merito, un elenco di possibilità che vanno dall’appartenenza cosciente, esplicita, totale, all’ordinamento più indiretto alla chiesa. Tutte queste possibilità sono in relazione alla cattolicità della chiesa.
Torniamo al tema di prima, al tentativo che Vaticano II fa di uscire dalla strettoia del tema dell’appartenenza che strangola il cristianesimo in generale ed il cattolicesimo in particolare. Tutti questi due ultimi secoli sono stati giocati, per una serie di motivi storici, sulla religione come appartenenza, come l’iscrizione ad un club, di fronte alla quale, dopo la rivoluzione francese, qualsiasi soggetto, percependosi come libero cittadino dotato di diritti civili dice “se il problema è di appartenenza allora decido se appartengo o non appartengo, mi pongo con una libera scelta di fronte a questa appartenenza”. Ma questo uccide l’impostazione del cristianesimo nel senso che sposta tutta la relazione base del cristianesimo, che non è di appartenenza, ma, nel linguaggio teologico tradizionale, si dice di ordinazione, essere ordinati a, di essere in qualche modo rivolti da quella parte. Dopodiché uno con l’essere rivolto da quella parte, esattamente come succede quando due persone si conoscono provano una sorta di fascinazione e da lì possono succedere centomila cose diverse che dipendono da centomila situazioni diverse: da come queste due persone sono, da come stanno in quel momento, dalla storia passata di ciascuno, dal grado di energie psichiche, di ferite, di dolore, di coraggio, di capacità di rischio. La stessa qualità di rapporto dà origine a miliardi di storie possibili diverse, con esiti pratici molto diversi, ma che non dicono che l’uno allora era vero amore e l’altro no; dicono la somma di una serie di fattori molto complessi che sono la nostra vita.
L’ordinamento alla chiesa è questa cosa e viene detto che, per la mediazione di Cristo, noi abbiamo questa fascinazione; poi le storie che succedono sono tante, diverse, complicate perché dipendono da chi incontri, quando l’incontri, da cosa cerchi ed anche dalle opportunità concrete per cui, magari, per anni hai dentro una domanda, ma non c’è una realtà concreta che trovi parole per questa realtà; poi, ad un certo punto, si crea un’occasione, c’è una persona o una situazione e trovi le parole che senti importanti per quella domanda.
Questa sarebbe la scala delle ordinazioni possibili per cui, rispetto alla chiesa, non è che uno ci crede o non ci crede (crede che la chiesa non mente, se è cattolico); detto ciò, tra qui e quello che succede tra lui e la chiesa, nelle varie stagioni della sua vita, i tipi di ordinazione possibile, la concretizzazione, c’è ancora la distanza infinita della fantasia della vita. Tra l’altro, Vaticano II spiega che la piena ordinazione o appartenenza alla chiesa cattolica romana non è nell’accettazione di tutte le verità tradizionali, ma è nella partecipazione all’ eucarestia che presuppone il battesimo, e nella carità. L’incorporazione non dipende dalla mia accettazione. Poi certamente la mia accettazione cosciente c’entra, così come il fatto che io sappia cosa sto cercando e capisca cosa succede; ci sono momenti in cui faccio scelte volontarie, però non è tutto lì, non è solo quel gesto.
Intervento: bisogna amare la chiesa, è indispensabile?
Faccio un esempio: i professori che si ricordano dopo molti anni dalla fine del liceo sono quelli che oltre ad essere stati creduti, perché non insegnavano scemenze, sono stati molto amati e molto odiati e verso i quali si sono nutrite forti passioni con cui non è stato implicato solo il cervello. E, in genere, molto amati e molto odiati non riguardano due tipi di professori diversi, in genere proprio i professori che si sono molto amati in certi momenti si sono molto odiati in altri; sono stati una realtà personale nella nostra esistenza dunque ci si è scontrati, misurati, si è fatto braccio di ferro.
La chiesa va amata in questo senso, nella misura in cui non si vive con essa solo un rapporto intellettuale, perché la chiesa (e in questo le metafore antiche sono giuste) è una casa, una madre. “Madre” mi pare una delle definizioni migliori che si possa dare di chiesa, nel senso che uno la madre non se la sceglie, normalmente uno dalla madre nasce e ci mette tutto il resto della vita a liberarsene (l’elaborazione del rapporto materno non è così banale) e, in genere, l’elaborazione da parte di un figlio del rapporto con la madre provoca nelle madri vari rimescolamenti. Ecco: la chiesa è una madre nel senso che non te la scegli, l’elaborazione del rapporto con lei è complessa, articolata e ci metti del tempo a “liberartene” per poi tornarci con varie andate e ritorni e, normalmente, dovrebbe funzionare che questa elaborazione di ogni credente dovrebbe far rigirare le viscere della chiesa mano a mano. In questo senso mi è difficile dire se si deve amare o non amare; credo che nella nostra vita non ci sia niente che, essendo importante, sia solo intellettuale e non implichi anche le nostre viscere.
Intervento: si può dunque avere con la chiesa anche un rapporto molto conflittuale, come con la madre?
Questo sì, la conflittualità non è un problema. Questo è stato un mito enorme. La conflittualità è normalmente espulsa dall’esperienza della comunità ecclesiale, se ne è terrorizzati, ma non è così. Credo che il problema peggiore, oggi, sia l’ incapacità di sperimentare una gerarchia interna delle realtà, appunto di ordinazione all’interno della chiesa, per cui, ad esempio, la cosa meno importante nelle nostre vite comunitarie è l’eucarestia che è invece la cosa centrale. La carità e l’eucarestia sono i due ordinamenti chiave. Nelle nostre comunità uno viene interpretato come uno che ama la chiesa se fa tante riunioni. Queste distorsioni sono così abitudinarie che non le cogliamo più come distorsioni drammatiche.
L’ordinazione che fa Vaticano II dice che prima ci sono i fedeli cattolici, cioè chi ha ricevuto il battesimo nella chiesa romana e, all’interno di questo, ci sono diversi livelli, non tutti sono uguali. Il primo è il livello della carità, cioè l’incorporazione piena si ha in un fedele della chiesa cattolica romana con pienezza di carità. Poi c’è il vincolo della fede comune, il secondo livello, cioè il fatto di affermare di credere nelle stesse cose, nella dottrina. Poi ci sono il vincolo dei sacramenti e quello del regime ecclesiastico, cioè l’accettazione del ministero e della comunione. Questi vincoli sono considerati totalmente appartenenti alla chiesa. Il che dice che, di per sé, l’esame di coscienza che uno ha da fare è: mi hanno battezzato da piccolo, provo a vivere nella carità, basta. Questa è la cosa fondamentale, non ce n’è un’altra. Le cose da credere sono proprio poche. Dopodiché si dice che per quelli, tutti, che non riescono a vivere in pienezza la carità, ci sono ulteriori sponde, ma che, comunque, sono a scendere e la comunione è l’ultima delle sponde cattoliche, nel senso che il conflitto, per l’appunto, non è così ad alto livello rispetto all’appartenenza.
Dopo i fedeli cattolici vengono gli altri cristiani, più direttamente ordinati a questa universalità e che vengono chiamate chiese sorelle (evangelici e ortodossi) però con il problema, che non è solo giuridico ed è un motivo di scontro sull’ecumenismo, che è il riconoscimento reciproco della validità del battesimo. Il battesimo ortodosso ed evangelico non sono riconosciuto pienamente validi perché non sono celebrati nella successione apostolica. Secondo la chiesa romana la successione dagli apostoli agli attuali ministri di queste chiese è interrotta, è spezzata.
Intervento: ma ciò che non è possibile agli uomini è possibile a Dio.
Ma la vera domanda è: che cosa importa che siano per forza cattolici romani? Il principio della cattolicità non è quello che tutti devono tornare da qualche parte, ma è quello che la diversità delle chiese è tutta ordinata a Cristo. Quindi il fatto di essere diversi, con diverse tradizioni battesimali e di ministero, non importa; è importante che si legittimino a vicenda, per la comunione reciproca, e l’abolizione delle scomuniche è andata in questa direzione. D’altra parte il principio su cui si è mossa la questione dell’ecumenismo è quello del Nuovo Testamento: i quattro vangeli che stanno tutti nello stesso canone testimoniano la diversità delle chiese, non la loro unità. Sono la chiesa di Luca, la chiesa di Matteo, la Chiesa di Marco, la chiesa di Giovanni e questo sta tutta nell’unico canone, cioè è ordinata all’unica rivelazione.
Poi c’è un altro livello ancora: quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo e dentro questi si riconosce un posto privilegiato agli ebrei, all’Islam come altra religione monoteista e poi a tutti gli altri, a scalare. Questa, che sembra una classificazione dei buoni e dei cattivi, è in realtà veramente una grande novità perché dice l’ordinazione di tutti: non è necessario che uno si sposti da dov’è, ognuno ha la sua storia e il luogo che uno ha e le diverse modalità entro cui la relazione può essere vissuta non negano la verità di quella relazione. Non dobbiamo più preoccuparci degli altri!
Questa ordinazione dice che l’unico problema che ognuno di noi ha è sé, non tutti quegli altri. Uno ha il problema di sapere dove è lui, di sapere cosa vuol dire vivere secondo la carità, non se i buddisti si salvano o no, perché che i buddisti si salvino è fuori discussione nel senso che sono misteriosamente ordinati a questa mediazione universale di salvezza e, comunque, resta un problema di Dio. Il problema mio è: a che punto di questa incorporazione, in quale tipo di storia, di relazione, mi trovo?
Allora le missioni cosa ci stanno a fare, cosa vuol dire “andate ed evangelizzate tutte le genti”? Questa cosa è stata molto sopravvalutata, nella logica dell’appartenenza come incorporazione di tutti; se cattolicità vuol dire espansione allora missione vuol dire che devo battezzare tutti alla chiesa cattolica romana per farli appartenere e convincerli che noi abbiamo ragione e loro hanno torto. Ma se la cattolicità non è giocata in termini di appartenenza, ma in termini di ordinazione alla totalità, allora il problema dell’evangelizzazione di tutti o della missione è quello del pronunciare la buona notizia sulle cose, sul tempo, sulle persone, cioè di diventare coloro che riconoscono la buona notizia dov’è, non coloro che la portano, ma piuttosto la incrementano, la nutrono, la allargano dando speranza, coraggio, durata, forza. E, nella presupposizione che ha la chiesa cattolica romana, chi sta nella chiesa cattolica romana ha tutti gli strumenti di mediazione, di traduzione, di norme, per facilitare questo riconoscimento, questo annuncio, questo svelamento della buona notizia e dunque ha questa possibilità di diventare interprete, ermeneuta, per gli altri delle cose, del tempo.
Ora queste cose, se interpretate in termini di appartenenza, vogliono dire: io ho ragione, tu hai torto e ti spiego come devi pensarla. I missionari oggi fanno tutto un certo lavoro che poi comporta anche l’annuncio dell’evangelo, il battesimo ed i sacramenti, ma è più una testimonianza, il riconoscimento e la tessitura di tutte le realtà possibili domandandosi, di fronte a quella cultura, quali sono le parole, i modi che possono essere riconosciuti, incoraggiati e fatti crescere. (vedere il materiale delle pontificie opere missionarie ” Un dono per tutti”, con il martirologio dei missionari uccisi nelle varie parti del mondo).
Intervento: questa visione dell’evangelizzazione mi sembra un po’ diversa da quella di S. Paolo che mi pare fosse più propenso a fare proseliti, a convertire.
Forse il problema è capire qual è la differenza tra far proseliti e convertire. Quando dico le cose che dicevo prima, non è che sto dicendo cose all’acqua di rose; convertire è fare in modo che le persone abbiano una svolta nella loro vita, una conversione, una possibilità di ripensare alla loro storia sotto un’altra luce, quella della buona notizia. Che al tempo di Paolo il problema di distinzione con l’ebraismo fosse così forte, così come nel ‘500 durante le polemiche con i protestanti, per cui tutto doveva essere letto in termini di schieramento, io mi metto di qua e tu di là, e che oggi questa forma culturale non sia più quella, dice una qualità diversa di conversione. Non penso, per esempio, che i discorsi che io faccio alle lectio, che non sono particolarmente manipolatori con specifiche finalità (ad esempio per far fare i sette primi venerdì del mese alla gente) non siano però discorsi che non puntano alla conversione, la quale peraltro non dipende da me.
Il problema non è mai battezzare in senso giuridico, cioè far andare la gente a messa, il problema è che il cuore delle persone cambi, che è questione ben più seria: che uno possa riprendere in mano la propria esistenza, essere toccato da questa buona notizia e pensare se la propria storia è sotto un altro punto di vista, questa è conversione. San Paolo mi sembra uno di quelli che usava tutti i mezzi, leciti, illeciti, opportuni, non opportuni, urlava, blandiva, faceva di tutto pur di toccare il cuore di qualcuno, per convertire, cioè per fare in modo che chiunque lo incontrasse avesse un altro punto di vista sulla propria e sull’altrui storia.
Intervento: negli Atti degli Apostoli c’è un atteggiamento per favorire i battesimi.
Non sto dicendo che non bisogna battezzare: sto dicendo che, mutate le condizioni culturali, o noi prendiamo sul serio l’inculturazione o non la prendiamo sul serio. Se la prendiamo sul serio il problema è: qual è il contenuto dell’operazione che fanno? Da una parte noi siamo terrorizzati dalla parola proselitismo, dall’altra abbiamo l’impressione che, negato il proselitismo, il resto è significa solo che ognuno pensa come vuole. Tutti i ragionamenti sul Credo, fino a provocare certe vostre reazioni, non sono uguali a che ognuno pensa come vuole, ma sono qualcosa di molto precisa ed anche duro. Il fatto che questa cosa non sia presentata con l’incubo di dire: dunque da domani andate tutti a messa, è un puro dato di forma culturale perché non necessariamente, oggi, il problema si pone in termini di appartenenza. Se io dico a chiunque: il problema è se vai a messa o no e se non ci vai finisci all’inferno, ho finito di parlare con quella persona, altro che evangelizzarla e non ho alcuna possibilità di farle vedere il cristianesimo come una buona notizia.
Intervento: il Credo è, dunque, più un momento di consolidamento di chi crede che non un momento di frattura con chi è contro il Credo?
Certamente, perché il Credo fa parte della Rivelazione, dunque è il punto di vista di Dio, questo lo abbiamo detto all’origine. Non è affatto una questione di frattura, non funziona mai come elemento di distinzione, non è un punto di vista tuo o mio né una descrizione fenomenologica di ciò che la chiesa è. Un’ultima cosa sulla questione della cattolicità: la chiamata alla chiesa e la chiamata alla salvezza non sono la stessa cosa, non si possono semplificare le due cose facendole uguali, nel senso che c’è comunque una distinzione e la chiamata alla salvezza è, nella sua realizzazione, più ampia della chiamata alla chiesa.