Credo la Chiesa: Una
Gruppo del venerdì
Gennaio 1998
Dietro a tutta la riflessione che siamo andati facendo circa la chiesa, ci sono sicuramente delle notizie storiche che ho cercato di darvi come chiarimento dei termini, ma c’è anche certamente una mia analisi personale, rispetto a quella che, secondo me, attualmente, è la questione del modo di sentire il problema della chiesa; e questa è, a differenza delle notizie storico-interpretative, è un’opinione, il modo in cui io capisco quello che accade e su cui prendo una posizione piuttosto che un’altra.
Siccome ogni tanto mi viene il dubbio che queste mie opinioni non siano chiarissime, come premessa vorrei chiarire qual è la parte della mia opinione, in modo che tutti abbiano chiara la differenza.
La mia personale opinione è che, dal punto di vista attuale, la percezione che si ha nei confronti della chiesa, è come stretta, schiacciata, tra due posizioni estreme:
—> da una parte una posizione di accettazione più o meno totale, che non esiste più in modo così assoluto, ma comunque è un’accettazione dell’appartenenza ecclesiale come un dato per cui uno sta lì e non potrebbe stare altrove per mille motivi, dai più seri ai più psicologici, di insicurezza, e, bene o male, poi finisce sempre di trovare una giustificazione al fatto che ci sta, per far tornare i conti;
—> all’altro estremo c’è una specie di modo di pensare la chiesa, comunque in sé, come una cosa non carina e da cui difendersi. Sono passati gli anni dell’anticlericalismo durissimo, c’è una serie di dati per cui non si è più alla fine degli anni sessanta, ma, detto questo, l’apriori è che chiesa uguale istituzione, istituzione uguale dato, tutto sommato, negativo, per cui uno deve stare un passo indietro.
Ci sono questi due estremi in mezzo ai quali, in genere, le persone che tentano di essere intelligenti e critiche, rischiano di essere schiacciate e di non sentirsi a proprio agio nè da una parte nè dall’altra.
Personalmente, rispetto a queste due ipotesi, sono molto perplessa e credo che le varie discussioni che si sono succedute nel corso del tempo abbiano dimostrato l’impossibilità della domanda. Da una parte non mi va bene chi dice “la chiesa è la gente, lasciamo perdere l’istituzione, la gerarchia”, perché la chiesa non è la gente, ha anche una gerarchia, è anche un’istituzione, e, soprattutto, è intorno all’eucarestia. Si può pensare che è una brutta o una bella cosa, che si capisce o non si capisce, ma l’autocomprensione della chiesa dice che la chiesa si fa intorno all’eucarestia. E non si può essere considerati fascisti perché si difende l’istituzione o il papato. Uno può avere un senso ecclesiale e stare in qualche modo dentro, essere intelligente, e non aver venduto la testa all’ammasso.
Questa cosa era molto difficile da spiegare dieci, quindici anni fa; oggi è ancora più difficile, paradossalmente, perché in quell’ottica di idealismo generalizzato, ci si scontrava su delle cose e poi si avevano delle mediazioni standardizzate, ma erano comunque chiare le posizioni. Attualmente la mediazione non c’è più e c’è solo “io penso”. Se si prendono le dichiarazioni dei vescovi sul problema dei cobas del latte, sui curdi, su tutto quello che succede, ognuno si esprime a ruota libera, per cui si ha la sensazione che esista una struttura impazzita in cui uno dice la prima cosa che gli passa per la testa ed agisce di conseguenza. Succede di tutto e di più e l’immagine che si ha è che tutta questa faccenda sia un’opinione, che ognuno può avere il suo parere, che tutto sia uguale a tutto. Siccome siamo democratici, civili, cittadini, ogni opinione che abbiamo, compresa quella buttata totalmente per aria, ha diritto di cittadinanza.
Nel caso della medicina è per noi facile da capire che non ha senso: ci sono cose su cui si hanno prove scientifiche indipendentemente dall’opinione della gente. Paradossalmente la chiesa, in questo momento, è molto più vicina al pensiero scientifico che a quello comune, nel senso che, non su questioni di prova sperimentale, ma funziona un po’ allo stesso modo.
Non è che uno ha un’opinione sulla chiesa cattolica, uno ha un’opinione su di sè in relazione alla chiesa cattolica (ci sono, non ci sono, mi riconosco, ho un problema); non si può avere un’opinione su cosa deve essere la chiesa cattolica, non si può decidere che cosa sia.
In questo disagio il problema è regolarmente che, se uno spiega ad esempio la tradizione, passa per l’ultimo tridentino rimasto, che difende l’infallibilità pontificia ed è veramente un conservatore e difensore dell’istituzione, ma, in altri ambienti, passa per un inguaribile sessantottardo che non ha ancora smesso di criticare le istituzioni. Tutto questo fa molto riflettere, e si è un po’ stufi dei reazionari e dei progressisti.
Sul discorso della chiesa vorrei dire che la realtà esiste: capisco che è un dato impopolare in questo periodo, ma esistono dei dati su cui ognuno è liberissimo solo di scegliere dove lui stesso si mette rispetto a questi dati, come in tutta la nostra vita. Noi abbiamo delle cose che sono la realtà della nostra vita e di fronte a queste noi siamo liberi, non di scegliere la realtà della nostra vita, ma dove ci mettiamo rispetto a quella realtà e poi raccoglieremo i frutti del luogo dove ci mettiamo.
Questa era la premessa.
L’ultima cosa che ci restava da esaminare, come dato oggettivo rispetto al discorso della chiesa, era la parte delle quattro note: una, santa, cattolica, apostolica.
Sono quattro parole che dette così non fanno problema, solo se uno non ci pensa; se ci si pensa fanno problema alla grande.
Quale sarebbe la chiesa una? Anche solo nell’ambito cristiano ci sono più chiese. Rimaniamo nell’ambito di chi fa riferimento all’Antico e Nuovo Testamento, allo stesso Gesù Cristo morto e risorto. Tutte le chiese, diverse, vanno dicendo che la chiesa è una.
Santa: anche qui, che vuol dire? Nel senso che è genericamente santa nella sua globalità per degli uomini che sono peccatori?
Apostolica, cattolica: che vogliono dire? Mi pare che queste parole sono abbastanza problematiche.
Queste quattro parole stanno nel Credo dal tempo di Costantinopoli. Il Credo si chiama niceno-costantinopolitano nel senso che il grosso viene scritto a Nicea. A Costantinopoli si aggiungono alcune cose (Nicea 351 – Costantinopoli 381). Nel nono secolo si aggiunge il filioque e dopo non si tocca più nulla. C’è dunque un primo nucleo originario, quasi subito una serie di correzioni e poi questa piccola variazione. Le quattro note della chiesa fanno parte delle variazioni dei trent’anni dopo. Tenendo conto dei ritmi di divulgazione delle notizie, che non erano quelli attuali, trent’anni vuol dire che praticamente sono arrivate alle varie chiese, è arrivato il testo di Nicea, hanno discusso un po’ e hanno rimandato a Costantinopoli le obiezioni. E’ una spiegazione ulteriore, a partire dalle obiezioni, perché si sono resi conto che il primo testo fatto, su alcuni punti, non era sufficientemente chiaro e veniva discusso.
Il tema della chiesa è uno di quelli che ha suscitato subito problemi di interpretazione perché, per esempio, di tutta la prima parte, quella su Dio Padre, l’unica aggiunta fatta a Costantinopoli è “luce da luce” perché si doveva spiegare meglio con un’immagine, la luce, che cosa voleva dire, che cioè non c’era diminuzione (accendendo una candela da un’altra candela accesa si hanno due candele accese allo stesso modo e nessuna delle due diminuisce). Sulla parte del Figlio non si è aggiunto nulla a Calcedonia, perché era molto chiara l’immagine e non creava problema.
Per la chiesa, fin dall’inizio, c’è un problema a capire qual è l’essenziale della chiesa.
Questa cosa fa parte del Credo, dunque fa parte della rivelazione, per cui è una descrizione rivelativa e non storica ed è una cosa di cui discutiamo regolarmente.
Quando uno dice “Adamo, Eva e il peccato”, ad esempio, non è una descrizione di ordine storico, ma rivelativo nel senso che ciò che ci viene detto è che l’atto creazionale di Dio sta comunque dentro/all’origine di qualsiasi processo si sia messo in atto e questo atto è in un certo modo, almeno secondo la Scrittura, con alcune caratteristiche: riconosce l’autonomia umana, ecc. La descrizione della Bibbia non è una descrizione storica, ma rivelativa. Il Credo è uguale, fa parte della Rivelazione come la Bibbia.
Quando si dice la chiesa “una, santa, cattolica, apostolica” non si sta facendo una descrizione storica, ma rivelativa, cioè si dice che la chiesa, comunque poi s’acconci nella storia, è stata voluta da Dio in un certo modo e che il fatto che nella storia possa essere più o meno conforme a questo modo in cui Dio l’ha voluta, questo fa parte del discernimento umano; dentro la storia noi avremo sempre da chiederci quanto la chiesa sia conforme alla chiesa che Dio ha voluto e come Dio l’ha voluta. E il Credo funziona da “regula”.
Esempio: quando uno vede un bambino che subisce violenza o è denutrito, se è un credente, si chiede “come è possibile che in quella sofferenza ci sia l’immagine di Dio e che cosa posso fare per restaurare in questo bambino l’immagine di Dio, quali sono le responsabilità per cui l’immagine di Dio viene violentata? Ma questo lo fai perché viene detto che al di là di come poi nella storia tu sperimenti una serie di cose, ciò che Dio ha fatto creando l’uomo è stato dargli la sua immagine e quindi tu, come credente, tutte le volte che vedi un essere umano, cerchi l’immagine di Dio, cioè usi quello come criterio della realtà e non viceversa, non usi la realtà come prova o no della creazione di Dio. La descrizione rivelativa è un criterio per interpretare la realtà, non è che la storia, l’esperienza della realtà sia una prova che la descrizione rivelativa sia vera.
Il Credo fa parte della rivelazione come la Scrittura, quindi dire “la chiesa una, santa, cattolica, apostolica” è il criterio per l’esame della realtà della chiesa, e non, se la chiesa non è una, allora non è vero niente sulla chiesa.
Questa questione, comunque, va più o meno liscia dopo Costantinopoli. Cioè “credo la chiesa” senza specificazioni non si capisce, allora si chiarisce con “una, santa, cattolica, apostolica”. Più o meno questi quattro termini hanno nell’antichità un significato comune, cioè quell’aggiunta fa dire “adesso si capisce”. Da lì in poi per un bel po’ di secoli va avanti liscia nel senso che capivano tutti qual era il criterio su cui esaminare le chiese. Nello Scisma d’Oriente del 1054 le chiese si dividono su questo, perché in Oriente la chiesa una, santa, cattolica, apostolica, vuol dire che storicamente doveva avere il padre ecumenico, non un primate, le chiese acefale, nessuna gerarchia ma tutte chiese sorelle, ecc., in Occidente no, nella chiesa c’è il primato di Pietro che deve essere visibile.
Ma nel 1054 nessuno ha avuto il problema che dividendosi in due la chiesa non era più una, perché era molto chiaro che non era descrittivo della realtà poiché la comprendevano correttamente cioè come criterio di interpretazione e non descrizione della realtà. Il fatto che nel frattempo le chiese erano diventate due non ha posto il problema sulla chiesa una perché ognuno riteneva che lui stava servendo la chiesa una, ma non perché serviva la sua, bensì perché il modo storico in cui la chiamava era rispettoso di quel criterio.
Oggi noi facciamo il contrario. Fino alla controversia protestante, 1400-1500, si capisce bene che la descrizione rivelativa non è la descrizione storica, per cui il fatto che nel 1054 ci si divide fa problema su tanti aspetti ma non su questo, nel senso che l’obiettivo resta quello e il fatto che, nel frattempo, si sia divisi e l’uno proceda in un modo e l’altro in un altro non è altro che l’esperienza degli insegnanti in una classe divisa in gruppi di livello per un maggior rendimento dei vari componenti; non si discute l’obiettivo in sè, si discutono gli obiettivi intermedi, le procedure, le tappe, una serie di organizzazioni, ma non l’obiettivo generale.
Nel secolo XVI, con la confessionalizzazione, il problema della chiesa viene identificato, ed è esattamente il problema di adesso, quello dell’appartenenza, cioè con la confessio , col fatto che io confesso nelle mani di qualcuno, del principe elettore o del papa di Roma. Che io confessi lo stesso contenuto diventa secondario rispetto al fatto nelle mani di chi io lo confesso. Questa questione fa nascere per la prima volta la domanda (che poi è anche la nostra, anche se un po’ variata) “ma se è così, qual è la vera chiesa?. Invece fino a quel punto non era mai nata, perché in una classe in cui si formano più gruppi con percorsi diversi non ci si chiede qual è la vera classe. Ma se si mettono i due gruppi in lotta fra di loro e si scatena un meccanismo competitivo, alla fine ci si deve chiedere qual è quello che è stato la vera classe.
A quel punto le quattro note vengono usate in modo apologetico per cui ‘noi siamo veri perché siamo più apostolici, più santi, più uniti, più cattolici di voi”.
Allora una, per dare un’immagine all’esterno compatta, apostolici, per dimostrare la discendenza dalla fondazione degli apostoli e cattolici per espandersi. Così le chiese dal 1400 al 1500 subiscono un processo di accentramento nel senso di una struttura sempre più centralizzata per essere compatta, un processo di espansione missionaria, (più ne abbiamo e più siamo cattolici e quindi più veri) e di invenzione di reliquie, santi, ecc. per ricostruire materiali connessioni con gli apostoli. Ma si comincia a storpiare la comprensione delle quattro note: “se nella storia io sono più cattolico di te allora io sono la chiesa più vera.
Oggi abbiamo lo stesso uso dell’argomento, anche se rovesciato”poiché la chiesa non è abbastanza ecumenica, quindi non abbastanza cattolica, è molto improbabile che sia la vera chiesa”. Usiamo lo stesso meccanismo: poiché ha fomentato le divisioni allora… sospetto!
Questa logica con le quattro note non c’entra niente. Ciascuno di noi può ritenere che una chiesa così poco ecumenica, così misogena, gli sta antipatica, ma questa è un’opinione, fa parte delle libere scelte. Ma, detto ciò, questo con le quattro note non c’entra niente, nè con l’autocomprensione che la chiesa ha di sè.
Inoltre c’è una questione: la domanda sulla vera chiesa sposta il problema sulla visibilità. Se è così, se quello che esiste nella realtà dimostra che noi siamo più veri, allora nella realtà si deve vedere il più possibile: vedere la cattolicità, vedere l’unità, vedere la santità. E si comincia a santificare con grandi cerimonie, con grande culto; si comincia ad espandersi con grande resa dei conti, cioè si tenta, in qualche modo, di rendere visibile la verità della chiesa attraverso l’abitazione delle sue quattro note.
Il problema resta invece lo stesso dei primi mille anni e cioè qual è l’essenziale della chiesa. Queste quattro note dicono ciò che fa una chiesa o no. E, se si, in che modo. Dicono su come la chiesa è e funziona, fuori dalla logica di confessionalità.
Inoltre queste quattro note, come tutta la Scrittura e tutta la Rivelazione, dicono comunque una cosa notevole, cioè che la differenza tra la storia e l’Eterno, tra le cose che si vedono adesso e qual è la verità delle cose nel cuore di Dio, questa differenza, nel caso del cristianesimo, non è occasionale, nè solo frutto del peccato.
Questa differenza, che è eccedenza, è l’eccedenza del mistero, è la salvezza.
Una chiesa che fosse davvero, nella storia, una chiesa una, santa, cattolica, apostolica, nella sua totalità, senza più eccedenza rispetto all’eschaton, sarebbe un’eresia. Tutte le volte che una parte di chiesa si è pensata come chiesa dei puri ha realizzato un’eresia.
Questo è un passaggio molto delicato, ma centrale. Tutte le volte che penso che posso esaurire dentro la storia la santità della chiesa, senza eccedenza per l’eschaton, o la sua unità, senza che manchi un pezzo che io comunque non ho raggiunto, realizzo un’eresia perché questa eccedenza non è solo dovuta alla peccaminosità, (adesso la chiesa è formata da peccatori, ma poi nel regno di Dio sarà tutta santa, senza macchia). Non è questo il problema. Il problema è che il contenuto del cristianesimo dice che l’Eterno, rispetto alla storia, ha sempre un’eccedenza e questa è la salvezza, perché questo ci dice che ciascuno di noi non è condannato ad essere e a stare solo lì dov’è e che c’è sempre un’eccedenza di mistero, per cui io ho sempre una vita in più, la vita eterna, per l’appunto. Avrò sempre uno spazio in più, un mistero in più.
Questa è una lettura che ha un rischio, che è quello di pensare che uno è sempre lì che fatica e basta; in realtà non è che io ho un obiettivo in più da raggiungere, come se gli esami non finissero mai, ma quello che ho è la vita in più che ho e sarebbe la vita eterna. Del meglio che posso fare comunque sperimento il limite; c’è sempre qualcosa, comunque, per cui io non ho la totalità di me nelle mie mani.
Ciò che dice il cristianesimo è che quello che mi manca io ce l’ho in Gesù Cristo. Tutte le volte che io sperimento il mio limite ciò che sperimento è che posso avere un altro pezzo di vita, che forse adesso non vedo, ma c’è perché mi è stata data in Cristo.
Quando vado a confessarmi quello che sperimento non è che non fa niente quello che ho fatto, ma che tutte le piaghe della mia vita, che ci sono e rimangono, possono esserci senza un dolore: l’immagine del risorto in cui Tommaso mette le dita nelle piaghe. Gesù risorto, che non è guarito dalle piaghe, le ha ancora, ma Tommaso può metterci le dita dentro e Lui non urla. L’esperienza della confessione è questa: portiamo le nostre piaghe che ci sono e rimangono, perché sono una cosa seria, sono la nostra vita, esistono ma non fanno più male perché abbiamo un’altra vita e non siamo condannati a rimanere appiccicati alle nostre piaghe, perché non siamo il nostro peccato. Abbiamo peccato, ma non siamo il nostro peccato.
Questa cosa che in principio era molto chiara è valida anche per la chiesa. Le note della chiesa, se fossero perfettamente compiute nella storia, vivrebbero di idolatria per cui, a differenza di quanto si pensava ai tempi della polemica protestante, una chiesa che storicamente incarnasse la santità sarebbe o la fine dei tempi o una forma di idolatria, perché la santità di Dio è sempre eccedente rispetto alla storia e fortunatamente la chiesa ha sempre una vita in più per essere ancora più santa.
Dico la chiesa, senza la distinzione tra l’istituzione e la gente, perché quando dico la chiesa qui dico la chiesa del Signore che non è identificabile in nessuna delle chiese.
Storicamente la chiesa del Signore non è esaurita in nessuna delle chiese. Lumen Gentium dice: “Ecclesia Christi subsistit in ecclesia catholica romana”, cioè non la chiesa cattolica romana è la chiesa di Cristo. Siamo certi che nella chiesa cattolica romana non è assente la chiesa di Cristo. Alcuni padri hanno fatto un’obiezione dicendo che se si usava il verbo subsistit il rischio era che si interpretasse nel senso della “sostanza” e giustamente si è fatto notare che, secondo il buon latino classico, se si fosse scritto che la chiesa romana cattolica “subsistit in ecclesia Christi” si sarebbe detto che la chiesa cattolica romana era la sostanza della chiesa di Cristo. La preposizione “in” vuol dire che è permanente nella chiesa cattolica perché il soggetto è la chiesa di Cristo. Nei documenti poi è scritto che altri elementi della chiesa di Cristo sussistono nelle chiese sue sorelle (riformate e ortodosse).E si aggiunge che lo Spirito di Dio suscita dove vuole, cioè di per sè la chiesa cattolica non ha il diritto di farne l’inventario completo. Con certezza, nella chiesa cattolica romana c’è una presenza, la continuità della chiesa di Cristo, sicuramente nelle chiese cristiane sorelle riformate e ortodosse ci sono chiari elementi della chiesa di Cristo, e poi lo Spirito di Dio fa quello che gli pare.
A questo punto bisognerebbe fare una piccola carrellata sulle quattro note, una per volta, perché su questo c’è un certo livello di confusione abbastanza grande.
La prima cosa a cui si riferisce la nota “una” è l’unità interna della chiesa, quindi non l’ecumenismo, ma la coerenza interna di una chiesa. La chiesa è, esiste, perché è una unità di proposta sulla vita della gente, è al servizio di questa unità interna, cioè deve pensare a costruire se stessa in una globalità che il Concilio definisce “di fede e sacramenti”, parole e gesti di conversione e di realtà.
Quando il Concilio dice “fede e sacramenti” vuol dire “della dimensione personale interiore e di una dimensione strutturale visibile, che cambia la realtà, che costruisce cose”. Quando uno dice chiesa non può continuare a pensare alla contrapposizione degli anni sessanta di chiesa-istituzione e chiesa-gente, perché, è vero che storicamente negli anni sessanta in Italia è stato utile fare la distinzione, che ha chiarito alcune questioni, ha agito su alcune rigidità, ma di per sè questa non è una contrapposizione, non esiste. I pastori da soli non fanno la chiesa. Attualmente sono molto di più i non credenti che usano questa definizione. Quando la gente esalta il Papa, che può essere la persona più saggia del mondo, per i suoi viaggi, i suoi discorsi, non deve dimenticare che il Papa da solo non fa la chiesa e se le sue stupende cose non fanno crescere le chiese in stili di vita non succede nulla, non cambia niente; e viceversa non è che la gente da sola, in gruppetti, elabora idee intelligenti e studia la Bibbia, fa qualcosa e nel frattempo i vescovi sono sempre più autoreferenziali, le conferenze episcopali vanno per conto loro, il divario aumenta. Lasciare o addirittura incrementare il divario tra quello che viene pensato come la chiesa-istituzione e come la chiesa-gente è una follia pura perché questo sì è contrario alla chiesa di Cristo, perché questo fa della chiesa non la chiesa una, ma la chiesa due, una chiesa che frammenta le persone. E questo è contrario alla chiesa di Cristo.
Se quello che l’esperienza dei credenti fa non interagisce con la visibilità della chiesa e se la visibilità della chiesa, poco, male, confusamente, con fatica, non trova delle parole significative per l’esperienza della gente, se non è così, si lavora contro la chiesa di Cristo, anche se uno è ortodossissimo. Perché uno non lavora per l’unità interna della chiesa, che non è l’uniformità del pensare tutti uguale, far tutte le cose uguali, ma è la circolazione di fede e sacramenti, cioè di visibilità e di conversioni personali: le conversioni personali mutano la visibilità, la visibilità favorisce le conversioni personali che a loro volta crescendo interpellano la visibilità che, a sua volta, convertendosi, aumenta le conversioni personali e così via.
Oggi molta gente che, a parole, non ci tiene molto a questi discorsi, compresi certi sacerdoti che hanno un ruolo istituzionale e poi fanno i progressisti, i libertari e snobbano le strutture, i consigli pastorali, lavora contro la chiesa di Cristo perché se tu fai parte del ministero, a maggior ragione devi essere uno che tesse questa comunicazione, non che la spezza, anche se tesserla è molto più costoso. Se ti aspetti che almeno una delle due parti ti pigli bene, o diventi un progressista o diventi un conservatore. Se sei un conservatore fai carriera, se progressista non farai mai carriera, ma hai il tuo giro di gente che ti ama. Se pensi di mettere in circolazione questa riflessione, carriera non la fai e alla gente dai anche fastidio, perché sei sempre lì che dici che c’è una visibilità a cui fare riferimento.
Ma l’unità è innanzitutto l’unità all’interno, quella che si chiama in Lumen Gentium “unità di fede e sacramenti”. Lumen Gentium individua quattro aspetti dell’unità interna:
-
fede e sacramenti, quindi tradizione, conversione personale e visibilità;
-
unità sotto lo stesso governo;
-
unità nella carità;
-
e nella comunione.
Sotto lo stesso governo: è da notare che non si usa la parola autorità, non sotto la stessa autorità che è un’altra cosa, si dice che la chiesa è una, in direzione dell’unità della chiesa di Cristo, nella misura in cui ha una capacità di avere una strada comune, cioè di organizzarsi verso un percorso, di avere un governo in comune, non è un arrembaggio dei singoli. Nessuno può andarsene per i fatti suoi, nessuno si salva da solo.
“Salvarsi da solo è egoismo, sortirne da soli è egoismo, sortirne insieme è la politica” (don Milani).
Questa è l’applicazione di cosa vuol dire sotto lo stesso governo, in questo caso. Vuol dire che nella vita credente e nella chiesa di Cristo sortirne da soli non si può. Sortirne da soli dalla vita, dalla totalità della fatica di esistere, non si può, è assolutamente contrario. L’unico modo è sortirne insieme, quello che si chiama “comunione dei santi”, in una forma organizzata, comune, con dei tessuti di parole scambiate, di pensieri condivisi.
E poi la cosa interessante è che si distinguono carità e comunione, non si usa un termine solo, ma due: l’unità è nella carità, che è una questione; nella comunione c’è un’altra questione.
Nella carità vuol dir : nella sovrabbondanza di misericordia. La carità sarebbe lo sguardo che mi consente di vedere l’altro come un povero; quando io vedo me stesso, ma anche l’altro, come un povero, ne riconosco e ne accolgo i bisogni e dunque non lo tratto come uno che ha tutte le possibilità, non lo giudico perché ha diritto ad una giustificazione ed è debole.
La carità si fa a partire dalla proprie e dalle altrui debolezze.
La comunione si fa a partire dalla propria e dalla altrui forza. La comunione è lo sguardo che mette insieme, che condivide ciò che abbiamo.
La carità è lo sguardo che riconosce ciò che non abbiamo.
E’ l’unità della debolezza e della forza. Non si fa l’unità solo perché uno non ce la fa, nè si fa l’unità soltanto per dire “io adesso vi spiego cosa c’è da capire e cosa si deve fare”.
E poi c’è la questione che sta in Lumen Gentium 8, in cui si dice che la chiesa del Signore non è la chiesa ideale, non è una specie di astrazione, ma è la chiesa del Nuovo Testamento.
Come sempre nel cristianesimo, ciò che ci aspetta è ciò che ci sta alle spalle e questa è una delle cose più difficili da capire. Non è una proiezione del futuro; ciò che abbiamo davanti è ciò che ci ha fondato, è l’evento Cristo che storicamente è già lì, disponibile. La chiesa del Signore che sussiste nella chiesa cattolica romana non è tanto un ideale da raggiungere, quanto la spinta secondo cui siamo stati fondati da Cristo nel Nuovo Testamento, che da una parte ci lancia e dall’altra ci attende.