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La redenzione (II)

Il testo di riferimento è: E. SALMANN, Contro Severino. Incanto e incubo del credere, con un contributo di A. GRILLO, Piemme, 1996, pp. 238-246; 272-281

Gruppo del venerdì
Gennaio 1997

(276 § 332): Questo numero, secondo me, è centrale per cominciare il discorso su ciò che Salmann ha detto fino a qui e su quali sono le domande che rimangono, cioè a che livello è l’esigenza di un Dio che abbiamo, ammesso che un Dio esista, e che cosa dovrebbe essere. E la sua risposta è questa.

“Solo un Dio trinitario che ha relazione in se stesso…..[….] anche il cuore dell’uomo”. Qui la frase è costruita secondo due caratteristiche di Dio e due risposte:

——> solo un Dio trinitario che è in relazione in se stesso nella stessa definizione di sè

——> e solo un Dio in grado di recepire dentro di sè il tema della frattura, della morte, del peccato, del dolore

può, da una parte essere chiamato Dio e dall’altra rispondere a quello che l’uomo pone. In questo numero quello che egli dà è una definizione del cristianesimo, cioè non è una descrizione logica a priori, ma una descrizione a posteriori, cioè sta spiegando cosí il cristianesimo e lo spiega ripercorrendo queste esigenze dell’umano rispetto al divino. Quindi quello che egli dice qui sono le cose fondamentali del cristianesimo: un Dio trinitario ed un Dio in grado di prendere la frattura su di sè. Queste due cose sembrano banali, le sappiamo, ce le hanno insegnate fin da piccoli, in realtà sono assolutamente decisive. Una delle questioni fondamentali, tanto per tornare al tema che ci accompagna ormai da alcuni anni, l’essenza del cristianesimo, è che in realtà noi ci diciamo cristiani senza quasi mai pensare a queste due cose. Facciamo una fatica incredibile a pensare, non tanto intellettualmente, ma ad agire, a concepire come forma di vita, come relazione, un Dio trinitario e un Dio che assume in sè la frattura.

Ad esempio: tutta l’attenzione di cui abbiamo a lungo parlato, che c’è sul peccato, come questione centrale del cristianesimo, tutta l’individuazione del cristianesimo come non far peccati, idea molto comune, è il rifiuto di un Dio che assume in sè la frattura e l’assunzione di un Dio, che è un Dio buono ed un Dio cattivo, ci sono due dei, allora la battaglia è tra un Dio buono ed un Dio cattivo e dunque, in me, è tra il bene ed il male. Se io sto dalla parte del Dio buono, non devo fare peccati perché altrimenti praticamente tradisco la battaglia. Tutta questa logica è conseguente al fatto di non riuscire ad accettare un Dio che assume in sè la logica della frattura. In termini molto concreti, proprio sull’esistenza, essere discepoli di un Dio che assume la frattura ha delle conseguenze incredibili. Per esempio, che non basta la correttezza perché stare al proprio posto, abitare sè, non dipende dalla propria correttezza rispetto alla legge o nemmeno al bene che io sento perché l’essere io, l’essere al mio posto, non è legato ad un “bene” morale unicamente. Il problema non è del bene perché l’essere io comprende anche il mio male, dunque è legato a qualcos’altro e scoprire cosa è questo “altro” per rispondere alla verità di questo altro cui è legato ciò che io sono, non è un’operazione semplicissima.

Un altro esempio: quando dico che il Dio cristiano è un Dio che assume in sè la logica della frattura sembra una cosa molto chiara soprattutto se applicata a Gesù, che muore in croce, dopo di ché uno campa vivendo il proprio cristianesimo sulla sua dimensione normativa per cui i cristiani si distinguono dai non cristiani in base a come si comportano o dovrebbero comportarsi e queste due cose non hanno alcun legame tra di loro perché se il Dio dei cristiani è un Dio che assume in sè la logica della frattura, dico per paradosso, come i cristiani si comportano, bene o male, ha un’importanza estremamente relativa. La questione non è il bene o il male perché ciò significa, ancora una volta, distinguere due entità: un Dio che è tutto bene, tutto luce ed un dio o un antidio, un demonio, che è tutto male .Invece il cristianesimo pensa a partire da un’altra logica. Allora ovviamente la domanda è: se il riferimento non è bene-male, qual è, in base a cosa si distinguono i cristiani se non nel comportamento?.

Qui si presenta l’altro referente che è il discorso su Dio come Trinità: un Dio che assume in sè la frattura è un Dio che, detto per paradosso, contiene in sè bene e male, o meglio, gli aspetti positivi, creativi, e gli aspetti mortali, dolorosi della vita. Il referente, ciò che distingue, è il fatto che è un Dio trinitario cioè un Dio in cui identità e comunicazione coincidono perfettamente, è la verità di sè e l’io agito che coincidono.

Il che, per gli esseri umani, è molto più difficile che non rispettare delle norme, perché presuppone che si sappia chi si è e si trovi progressivamente un modo di comunicare quello che si è, dunque di vivere, di organizzare la vita, di lavorare, di sistemare la propria gerarchia di valori, i propri desideri, le proprie aspettative, intorno a questa verità di sè che man mano si va scoprendo. Questo sarebbe la “conformazione trinitaria”: nella Trinità Dio Padre, identità, è uguale al Dio Figlio, comunicazione, e al Dio Spirito; non c’è distinzione tra identità ed espressione dell’identità.

Allora ciò che distingue i cristiani dagli altri è la CONGRUENZA ALLA VERITA’ DI SE STESSI, della strutturazione concreta della propria vita, delle proprie scelte, della capacità di fare storia delle proprie scelte (ad esempio: faccio una cosa, in seguito a questa cosa nella mia vita succedono altre cose che magari non avevo previsto e che dipendono dalla scelte di un altro allora devo rielaborare questa storia che si fa perché sia sempre costantemente congruente alla verità di me, almeno fino al punto in cui la conosco). Questo sarebbe il cuore del cuore del problema ed è sicuramente meno stressante, meno colpevolizzante, meno moralistico del discorso dei peccati ma non meno faticoso perché chiede una notevole elaborazione di sè.

Intervento: tutto questo è più facile da capire per l’uomo moderno. Personalmente credo di aver intuito che ciò che dall’esterno appare incoerente in realtà non lo è, perché ognuno segue una sua coerenza interiore e non si può chiamare incoerenza dal di fuori quando uno è coerente con se stesso.

Qui c’è più che la coerenza, che è solo un aspetto, perché non si segue solo se stessi, ma la verità di sè che è qualcosa che ci supera perché questo discorso, più vicino all’uomo moderno, è il primo passo, ma il problema è che qui entra un altro problema, cioè l’AUTOREFERENZIALITA’, cioè che uno gioca tutto tra sè e sè. Invece per il cristianesimo il problema è che il riferimento è alla verità di te, non a te, come invece nelle teorie orientali. La differenza tra cristianesimo e religioni orientali è esattamente questa. La verità di te è qualcosa di più grande di te, tu la ricevi continuamente dalla storia. L’altro discorso, invece, portato al suo ultimo estremo, nelle religioni orientali conduce alla teoria che tutta la realtà è illusione e quindi porta all’estraniamento, alla purificazione di sè. Se il problema è solo la mia coerenza a me stesso, tutto, il corpo, la storia, mi diventa tanto strumento quanto peso perché l’obiettivo è sempre liberarsi per alleggerire al massimo la congruenza tra me e me stesso. Questa differenza può piacere o no ma è decisiva: per il cristianesimo c’è un triangolo, non un binomio, io e la mia coerenza a me, ma invece io, la verità di me e la congruenza, non la coerenza. La verità di me è quello che una volta si spiegava dicendo “l’immagine di Dio”, il fatto che io ho in me l’immagine di Dio e che io sono di più di quanto so di essere e questo di più lo ricevo dalla storia, dagli altri, dalle cose,.dalla mia crescita nel tempo e per questo la visione del tempo per il cristianesimo non è mai negativa. Il problema qui non è moralistico, per un cristiano il problema non è mai liberarsi dal corpo e da tutto ciò che al corpo compete, ma, attraverso il corpo, ricevere in dono la verità di sè.

(276 § 333): Questa parte era già stata vista la volta precedente ma la riprendiamo.

Nell’idea trinitaria di Dio è già contenuta l’immagine di sè e questo principio di espressività, dunque Dio, può assumere la carne, la storia, senza alienarsi da se stesso.

“E il cristianesimo fa ancora un ulteriore passo…[….] il rapporto tra Dio e l’uomo”. Quell’immagine che è all’origine in cui noi siamo stati creati si assume anche tutto il peso della storia che è storia fallimentare.

“E’ questo il sostrato comune…[…] nella sua grandezza e miseria”.

Noi allora siamo il logos del Logos. Infatti, in greco, noi siamo creati kat’aikon, secondo l’immagine e invece, quando si parla di Cristo, si dice che è aikonas, cioè l’immagine.

“Inoltre le diverse forme..[…] nel Nuovo Testamento….”: queste righine finali che paiono molto dotte, esegetiche, sono in realtà importantissime. Quando un teologo parla di messianismo delle diverse forme di speranza messianiche dice quali sono le posizioni rispetto a cosa c’è da fare nella storia: la rivoluzione, secondo la teologia della liberazione; il conservatorismo, secondo la tesi liberale, tutte le varie opzioni che le chiese cristiane hanno fatto nei rapporti della storia e dei poteri. Salmann dice le diverse forme di speranza messianica, tra di loro incompatibili, teoricamente, stanno tutte insieme, e ne fa l’elenco in modo corretto: il messianismo che si lega alla città di Sion (la base del discorso conservatore: bisogna rispettare i poteri di questa terra); quello cultico-sacerdotale (la base dell’idea della fuga dal mondo, bisogna fare i monaci, fare un’altra città, un altro luogo); davidico, regale o profetico (prestare attenzione al povero, al più debole); il motivo del ritorno nel deserto (tutte le posizioni che adesso si concretizzano nei discorsi ecologisti: il ritorno all’origine, alla semplicità, alla purezza, alla povertà); o del servo sofferente (vado, combatto, non importa se poi politicamente realizzo oppure no, con il mio martirio segno la trasformazione della storia); la teologia sapienziale e apocalittica (bisogna fare, trafficare le cose del mondo con la sapienza di questo mondo poi ci sarà una resa dei conti finale che nessuno di noi sa). TUTTI trovano il loro posto organico nel Nuovo Testamento.

Salmann dice che non c’è una soluzione sola per la storia, stanno tutte dentro la Parola di Dio e sono tutte logicamente attendibili come conseguenza di questo Logos. In sostanza nessuno può dire “Got mit uns”, nessuno può usare questa carta perché questo Logos tiene insieme l’impossibile, tiene insieme tutte le possibilità e dunque ciascuno, in questa congruenza rispetto alla verità di sè, riceve dalla storia, di volta in volta, un appello, un’urgenza, una comprensione delle cose da fare e sceglie, prova a scegliere sapendo però che nessuna di queste possibilità interpreta da sola la totalità di questo Logos, tutte sono necessarie, in qualche modo.

Possono darsi anche altre vie che qui non ci sono ancora?

Più che altre vie, perché dentro la Scrittura queste stanno, altre modalità di queste stesse vie, altri modi concreti che noi ancora non pratichiamo.

Intervento: Nella coerenza c’è un rapporto tra quello che sei e come ti esprimi, quindi se tu muti ti devi esprimere in modo diverso altrimenti non sei coerente, invece la congruità è la compatibilità della verità di te con il flusso della storia.

Infatti io uso preferibilmente “congruenza” perché il termine “coerenza”, nel nostro linguaggio, è carico di una sopravvalutazione della responsabilità personale. Si dice infatti “tu devi esprimere” usando un verbo servile ed i verbi servili ( dovere, potere, volere ) dovrebbero essere banditi dalla teologia, perché il problema non è quello. La congruità ha questo aspetto di docilità allo Spirito; è quello che io ricevo dal tempo più che quello che io so fare, quello che il tempo, articolato con la mia responsabilità, quindi rielaborato nella mia coscienza, come un piccolo computer, ma non sono io che ho le mani sulla tastiera, ma la storia che mette dentro dei dati. Nella via che a me è sembrata giusta mi piego su questa storia e percorro questa cosa e, ovviamente, quello che è irrinunciabile, l’unico dovere, è quello che in teologia morale viene chiamato “coscienza formata”. .L’unica cosa che attiene alla mia libertà è che il mio computer funzioni, che io mano a mano nutra la mia capacità di sapere di me, di sapere della storia e di saper far funzionare queste due cose insieme. Accontentarsi di un’ignoranza inferiore al proprio stato vitale è colpevole. Questo è veramente il grande peccato (se questa categoria ci interessa) ed è quello definito dai Padri “il peccato contro lo Spirito”. Quando S. Paolo dice “non spegnete dentro di voi lo Spirito”, che è la grande preoccupazione, dice che è imperdonabile solo il peccato contro lo Spirito Santo, l’interprete, che fa capire, trasmette, anima, lo Spirito di Dio che dona i carismi. Lo Spirito Santo è questo luogo di vitalità formata e interpretativa, dell’assunzione di una responsabilità il più possibile, compatibilmente al proprio stato, colta, cioè capace di coltivare, non selvaggia, non selvatica.

Da questo punto di vista la media dei credenti o di chi si definisce credente, su questo tema è indietro e si preoccupa più di una serie di questioni morali medio basse che non della propria capacità culturale di elaborazione del rapporto tra sè e la storia che è il contenitore dell’incarnazione, tutto ciò che incomincia dal momento della creazione, tutto ciò che Dio non è. Dio non crea solo il tempo e le cose (acqua, giorno, notte, animali e per ultimo l’uomo); Dio crea la storia, uno spazio, un tempo, un tempo visitato, coltivato. La storia è il tempo che passa, ciò che accade, ciò che mi raggiunge, ciò che esiste ed io non lo saprò mai, ciò che c’è dentro e fuori di me. E lo spazio della vita, dunque, l’unico problema serio dei cristiani è avere un’interiorità, un luogo interiore dove tutto questo possa essere rielaborato e, di volta in volta, possano essere assunte le responsabilità che la storia mi chiede di assumere nelle diverse stagioni della mia vita, con il maggior tasso di verità possibile. (molto le è perdonato perché molto ha amato: la questione non è dei peccati, ma di come tu ti metti di fronte alla storia che è anche la tua storia biografica ).

“Dato che il peccato ha minato…”: quello che succede è che nel momento della creazione la storia è creata così in una armonia in cui c’è una circolarità tra cielo e terra, dove la congruenza, la verità di me che io ricevo dalla storia è perfettamente automatica, cioè io non ricevo dalla storia niente che distorca, e questo è il paradiso terrestre (animali buoni, la terra che fruttifica senza fatica); di tutte le immagini delle distorsioni della benedizione, di tutto ciò che mi rende la storia matrigna, si dice non era così; la storia era ricevuta come un giardino e ricevevo la verità di me, paternità e figliolanza con il Creatore in modo immediato, senza distorsioni. E la questione è dimostrata, secondo la narrazione mitologica di Genesi, dal fatto che, quando Adamo ed Eva compiono il peccato delle origini, la loro prima reazione è la vergogna, perché comincia a non funzionare più questo reciproco rimando di immagini non distorte.

Il peccato ha minato e distorto la circolarità della benedizione tra cielo e terra (Dio parlava nella brezza della sera senza bisogno di interpretazioni), la corrispondenza tra paternità e figliolanza (ognuno aveva la sua dignità senza sentirsi ferito dalla dignità dell’altro); allora, dato che il peccato ha interrotto tutta questa congruenza della verità della storia che io ricevevo, ci voleva uno che, senza saltare tutta questa distanza, ricostituisse tutta questa circolarità di benedizione.

Di tutti i giusti dell’A.T. non si dice che muoiono, ma che si addormentano e l’uso bizantino è di celebrare la dormitio di Maria, è in questa logica perché la morte, in un rapporto corretto, è un passaggio a Dio, non è una rottura.

(278 § 335): Questa cosa secondo me è molto importante, perché attualmente la tendenza a pensare ad un Dio “gioviale” che alla fine aggiusta tutto è veramente molto forte (è un dato di psicologia sociale: si sostituisce alla figura paterna autoritaria quella materna). Questo ha delle conseguenze molto serie: per esempio, che quando ci cacciamo in vicoli incasinati della nostra esistenza, dove sperimentiamo degli iati insaldabili, situazioni che si possono chiamare a pieno titolo di peccato, e che sono situazioni di menzogna sulla verità di noi stessi, tali da creare una storia spezzata, schizofrenica in cui non sappiamo più cosa fare, normalmente la nostra reazione è di dire: sono un disgraziato, e rimanere nel compiacimento di questa cosa, non prendere provvedimenti per non ferire l’uno o l’altro, salvare tutto ma alla fine non far niente (teoria del Dio “gioviale”), oppure ci assumiamo l’altra possibilità che è quella del salvatore umano in noi, di quello che crea un’ideologia e quindi spiega chi aveva ragione e chi torto e come funzionava il tutto e come bisognava fare, per mettere poi tutti in riga.

Quindi o un’onnipotenza paralizzata o un’apparente impotenza di assunzione di responsabilità ideologica. Questo è il modo per non uscire da una situazione di menzogna su noi stessi in cui ci siamo cacciati.

Ad esempio: quando uno per fare una serie di cose in sè buone, che ritiene buone e gli fa piacere fare, s’incasina a tal punto che diventa isterico e poi succede un intoppo qualsiasi, per cui la storia non fa incastrare tutte le cose come programmate, e così alla fine tratta male l’ultimo arrivato e dice: ma io non volevo così, avevo agito in modo che tutto funzionasse bene. Questo è un piccolo esempio di menzogna su se stesso nel senso che volevo una cosa ed ho messo in atto una strategia storicamente non reggibile da me, perché non ho tenuto conto che non tutte le cose si incastrano al minuto come previsto e calcolato. Il risultato finale è che il pezzo di storia che si crea, l’esperienza che si fa è controproducente. Su questa struttura si può dire: sono proprio stupido, mi incasino, non devo, non dovrei arrabbiarmi, ma non ci riesco, è più forte di me (Dio “gioviale”) e non cambia nulla perché non si muove un passo sulla congruenza e sulla verità di sè, per rendere reale il desiderio che si ha senza incasinarsi (onnipotenza paralizzante).L’altra possibilità, quella appunto del salvatore umano, quella ideologica, che non raggiunge il nucleo, è dire: ce l’avevo messa tutta ma questo, quell’altro, tutta una serie di spiegazioni, per altro in genere reali, ma con questo sistema si danno le spiegazioni senza che, però, succeda qualcosa e la prossima volta si ripete tutto uguale da capo e la storia fa come vuole.

Questo è un esempio banale, anche perché su un fatto così dopo mezz’ora i nervi si calmano e quindi la storia delle conseguenze di questa cosa è limitata, ha dei contorni gestibili, non rovina la vita. Ovviamente se uno mette una storia di gesti di questo genere, uno poi l’altro, fino a creare delle situazioni di tensione perenne, alla fine si rovina e rovina agli altri la vita.

“Per questo ci vuole un Dio uomo”: per questo ci va Gesù Cristo che è il salvatore, il Redentore universale, perché crescere in sapienza, bontà e grazia, tutto contemporaneamente è venuto bene solo a Gesù. A tutti noi viene meglio un po’ di età, un po’ di sapienza, un po’ di grazia in modo scoordinato; cioè quando dicevo prima, la ricerca della congruenza alla verità di sè, dicevo quello che i Padri della chiesa chiamavano “la conformazione al Cristo”, in cui le due volontà sono reciprocamente obbedienti, cioè in cui, di fatto, ciò che io sono è obbediente alla storia e la storia diventa obbediente a me (“sposterete le montagne”); le due verità sono reciprocamente obbedienti ed il risultato è una vita piena, la risurrezione.(ancora sull’esempio precedente: quando succede che mi isterizzo, alla terza volta che mi succede con lo stesso meccanismo, mi fermo un attimo e rifletto sul perché divento sempre isterico in una data situazione e constato che, magari, è perché calcolo dei tempi senza tener conto dell’imprevisto possibile, allora incomincio a tenerne conto ma, magari, poi mi viene il senso di colpa perché ho dovuto depennare alcune cose che però erano importanti. Allora rifletto sul perché mi viene il senso di colpa e forse succede perché, più o meno consciamente, ho un livello di autoesigenza, cioè di richiesta correttezza su di me, molto alta ed allora mi chiedo perché, di cosa ho paura, di quale insufficienza della maestra ho paura da dover fare sempre tutti i compiti bene, anche quelli a scelta, sempre tutti. Così vado avanti e smonto questi meccanismi, anche su cose molto concrete. Le donne hanno molto il tema della correttezza, cioè dell’esecuzione completa di tutto, di una pluralità di ruoli, di attenzioni. I maschi hanno il tema dell’onnipotenza: ho pensato così, perché non è successo così?).

Ma perché ci vuole poi ancora una morte? Cioè perché non è bastato che Gesù vivesse così congruentemente e ci faceva vedere con ciò come si doveva fare?

E’ il vecchio midrash ebraico che si riferisce ad Esodo 15, capitolo successivo a quello del passaggio del mar Rosso. Allora gli israeliti intonarono il canto di vittoria. Il midrash dice che quando fu intonato questo canto, l’angelo custode degli egiziani chiamò in giudizio Dio, presso il consiglio angelico, dicendo che non era pietoso, nè giusto cantare di fronte a dei cadaveri. Quelli del popolo di Dio, i suoi figli, cantano sulla morte altrui. E Dio pensò a lungo e poi disse: “Hai ragione, non è giusto, ma finché non verrà il Messia così accadrà; se qualcuno vince, qualcuno deve perdere. Quando verrà il Messia, Egli vincerà senza che nessuno perda perché l’unica vittima sarà Lui. “Subisca la logica della morte senza soccombervi”: è questo, cioè nella logica della morte noi abbiamo l’istinto di sopravvivenza per cui, posti di fronte a questa logica, non abbiamo alternative; persino il codice di diritto canonico sancisce che la legittima difesa è garantita, che sono autorizzato a compiere del male su un altro se questo salva la mia vita perché il massimo dove noi arriviamo è questo, e ci va un Messia, un Uomo-Dio perché possa vincere, morendo e non facendo morire, perché ci sia un vincitore senza vinti.

“Ci vuole qualcuno che faccia più del dovuto”: questa é la discesa agli inferi, altrimenti che senso ha questa discesa? Gesù addirittura visita il luogo della distanza eterna da Dio. L’inferno ci è sempre stato spiegato come il luogo dove Dio non c’è, Gesù visita anche il luogo dell’assenza totale di Dio. Sulla croce dice: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” e dopo scende agli inferi, visita tutto il luogo di questa distanza possibile, fino alla peggiore situazione possibile.

(280 § 338): Quello che Salmann dice qui è che, nell’esperienza nostra, l’ingiustizia genericamente intesa, le relazioni quando non sono più che giuste, cioè quasi sempre, provocano dei cerchi proiettivi; succede che noi, per giustificarci o per giustificare o accusare, a seconda di quale ruolo giochiamo, proiettiamo ciò che è la nostra identità sulla totalità della realtà. Allora, se devo giustificare, spiego che sì, ero nervoso, però ero già molto stanco perché avevo detto, fatto; se devo incolpare un altro dico che sì, ha molte attenuanti, però poteva fare, dire, proiettando quello che io so, penso, decido. Ciò che dice qui è che questo interrompe questi cerchi proiettivi e fa l’operazione opposta, cioè suscita un potere identificatorio. L’identificazione è il contrario della proiezione. La proiezione è quando io, di fronte all’esterno, faccio un film, uso gli altri e la realtà come dei teloni su cui proietto quello che ho già dentro e quindi non vedo la gente come è realmente ma, regolarmente, la vedo attraverso le lenti di quello che io sono. L’identificazione è il meccanismo opposto in cui io ogni volta vedo talmente l’altro come è che ne capisco le ragioni, in qualche modo sono in grado di mettermi al suo posto e di capire qual è il procedimento. Quando uno riesce a fare questo ha più comprensione di cosa è successo nella mente e nel cuore dell’altro. Il passare da un meccanismo proiettivo ad uno identificatorio, in termini psichici, in una certa misura, è uno degli elementi richiesti per cui un amore diventi un matrimonio. L’innamoramento è totalmente proiettivo ma, in genere, su una struttura proiettiva non si campa insieme per quarant’anni. Il passaggio all’identificazione consente ad un rapporto di durare nel tempo perché uno identifica l’altro, gli dà, gli riconosce, un’identità ed in questo, regolarmente identifica se stesso, si identifica come persona che sta in piedi. Allora qui dice, nel rapporto tra uomo e Dio, che il gesto di Gesù, questa morte in croce, spezza i cerchi della proiezione ed ha un assoluto potere identificatorio. Dopo Cristo, ciascuno di noi è, di fronte a Dio, lui e solo lui stesso; ognuno riceve un nome nel battesimo che è segno antico per dire questa cosa, cioè noi siamo in Cristo individualizzati di fronte a Dio, visti per ciò che siamo, nè di più nè di meno e non proiettati.