Famiglie in ansia e società alla prova di fronte a ciò che cambia nelle nuove generazioni
Azione Cattolica diocesana, L’Atrio dei Gentili, Editrice Esperienze, Agesci, Cif, Istituto Salesiano, Ufficio diocesano per la famiglia, Uciim, Comune di Fossano e Consorzio “Monviso Solidale” propongono quattro incontri sul tema “Alla ricerca dell’…ombelico del mondo” (Famiglie in ansia e società alla prova di fronte a ciò che cambia nelle nuove generazioni).
L’iniziativa è rivolta in particolare a genitori, educatori, docenti… ma ovviamente anche ai giovani
Addentrarsi nel mondo giovanile è, oggi più che mai, un cammino verso l’inedito. Nella complessità di questa fine secolo, i giovani sono le antenne più sensibili per interpretare i grandi cambiamenti. In parte li anticipano, in parte ne sono condizionati. La sensazione di chi, da genitore, da educatore, da docente… ha a che fare quotidianamente con le nuove generazioni è quella di incappare in profondo disagio, che è il riflesso di un disagio meno circoscrivibile che viene dai giovani stessi alle prese con un domani che è ancora tutto da scoprire e che riserva più di una incognita. Sempre più spesso non si trovano più lunghezze d’onda su cui sintonizzarsi. C’è qualcosa che sfugge e mette affanno. il giovanilismo non è mai servito un granché, tanto meno oggi. La classica domanda di papa e mamma e soprattutto (“Che fare?”) diventa spesso drammatica ed angosciante.
Saperne di più non è solo legittima curiosità. In gioco ci sono le storie di ragazzi e giovani che stanno cercando se stessi, mandando segnali non sempre decifrabili, spesso provocatori, talora sconcertanti, sovente amalgamati nelle mode (indotte da chi?). Forse si sta facendo più acuto un problema cruciale, quello della comunicazione tra le generazioni (ma non solo). C’è una trasversalità che non consente a nessuno di chiamarsi fuori: i ragazzi ed i giovani sono lì a interpellare tutti, senza scampo. Il bisogno di rintracciare linguaggi veri e coinvolgenti per varcare certe soglie di silenzio, di chiusura, di esclusione… è vitale per chi ha a cuore il senso della vita e delle cose nelle generazioni che stanno crescendo.
Ecco la ragione che ha spinto ad allargare al massimo il coinvolgimento, in Fossano, di tutte quelle realtà che con il mondo giovanile interagiscono e patiscono nei suoi confronti qualche grossa difficoltà. Lo sforzo di mettersi insieme ha dato i suoi frutti, incontrando attese comuni. Cosi accanto all’Azione Cattolica, a L’Atrio dei Gentili ed all’Editrice Esperienze, si sono affiancati il Comune di Fossano, l’Agesci, l’Uciim, i Salesiani, il Consorzio “Monviso Solidale”, il Cif, l’Ufficio diocesano per la pastorale familiare. L’intento, per questo primo passo, è quello di cercare il massimo di contributi, il più possibile qualificati, per fissare le coordinate di quanto sta cambiando nel mondo giovanile. In particolare ci si è indirizzati agli adulti: genitori, educatori ed insegnanti. Ovviamente questo è un avvio che potrà avere nel seguito coinvolgimento diretto dei giovani. Strada facendo si vedrà… verso dove.
Programma degli incontri
Registrazioni
Paolo Crepet: “Captare i segnali di un mondo giovanile che ha un’altra anima”
L’Atrio dei Gentili, in collaborazione con “Effetto Notte”, con il patrocinio del Comune di Fossano, presenta:
HOMO VIATOR: Amare insieme l’andare e la meta
Corso di cinema a cura di Pier Mario Mignone
Informazioni
Pier Mario Mignone, albese, critico cinematografico, esplorerà il tema del viaggio, inteso soprattutto in senso interiore, come metafora del cammino esistenziale (per una introduzione al tema consultare l’ipertesto “Sei parole per il Giubileo” alla voce “Pellegrinaggio”).
Il corso è gratuito e aperto a tutti. Per partecipare al corso è necessario iscriversi (max. 60 persone) presso le librerie fossanesi “Le Nuvole” (Via Cavour, 23) e “Novità Cattoliche” (Via Dante, 7).
Programma
Prima serata: Il viaggio e l’altrove, ricerca e condizione dell’essere
Seconda serata: recensione de “Il settimo sigillo”
IL SETTIMO SIGILLO /Det sjunde inseglet/ scritto e diretto da Ingmar Bergman, dal proprio dramma Pittura su legno; fot.: Gunnar Fischer; mus.: E.Nordgren; mont.:L.Wallén; interpreti: Max Von Sydow (il cavaliere Antonius Block), Gunnar Bjornstrand (Jons lo scudiero), Bengt Ekerot (la Morte), Nils Poppe (Jof il saltimbanco), Bibi Anderson (Mia, la moglie di Jof); produz.: Svensk Filmindustri, Svezia, 1956; prima proiez.:16.2.57; dur.: 93′
La presenza del cinema nordico in Europa era quasi nulla negli anni’50, circoscritta a pochi nomi da leggenda sin dal muto, poi trapiantati ad Hollywood, come Mauritz Stiller, Greta Garbo e Victor Sjöström. C’era soprattutto la figura di Carl Theodor Dreyer, il grande maestro danese, autore di alcuni tra i massimi capolavori del cinema, come La passione diGiovanna d’Arco (1928), Dies Irae (1943) e Ordet (1955). Quest’ultimo precede di poco la realizzazione di Il settimo sigillo: l’accostamento non è casuale perchè molti hanno visto in Ingmar Bergman il continuatore dell’opera di Dreyer, almeno in quel consistente numero di film del regista di Upsala più drammaticamente caratterizzati da tematiche religiose. Queste non esauriscono certamente gli interessi del prestigioso e prolifico regista svedese, spesso e volentieri attratto dai problemi della coppia, dell’amore, della donna o di analisi critiche della società (da Un’estate d’amore a Scene da un matrimonio, quasi agli estremi della sua carriera, passando per i problemi della famiglia, come in Sussurri e grida (1973) e Fanny e Alexander (1983) per citare i più noti. I temi religiosi tuttavia, imbevuti di pessimismo protestante cui era assuefatto dalla quotidiana pratica del padre, ministro del culto, sono quelli che lo resero più noto. Il settimo sigillo (1956) apre questa serie di film angosciati da una ricerca che non sembra giungere ad una risposta, anzi pare concludersi nel “lutto del cielo” e nel silenzio di Dio (Luci d’inverno, 1962, e Il silenzio, 1963).
Il film segue un percorso teologico-filosofico in forma di ballata medievale, che Bergman ricavò innanzitutto da un suo testo per il teatro, Pittura su legno, riferito alle raffigurazioni medievali della morte per pestilenza, la Danza Macabra, a cui il film dedica la bella sequenza del pittore di chiesa, ma molte altre connotazioni contribuiscono all’atmosfera evocatrice di quest’opera unica : musicali, come i Carmina Burana di Carl Orff e il canto medievale del Dies irae, o pittoriche, come il quadro di Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo, o quello di Picasso con un ragazzo, due acrobati e due buffoni. La suggestione maggiore tuttavia è dall’Apocalisse, cap. 8,1-10, il momento finale, definitivo della Rivelazione e del terribile redde rationem, apice conclusivo e tremendo della Storia e di ogni vicenda umana .
Nell’Europa della metà del XIV secolo, devastata dalla peste e pervasa da un’ossessiva atmosfera apocalittica e religiosamente persecutoria (i flagellanti, il rogo della strega, il fanatismo dei predicatori) il cavaliere Antonius Block con il suo scudiero Jons, di ritorno dalle crociate, stanco e disilluso, ingaggia una partita a scacchi con la Morte nell’ultimo tentativo di prender tempo e trovare una risposta alle domande che lo tormentano: il senso dell’esistenza, il terrore del vuoto e dell’ignoto, la realtà ineliminabile di un Dio che non si rivela, ma che continua ad essere uno struggente richiamo nel profondo di noi stessi. “Perchè aver fede nella fede degli altri?”. Lo atterrisce l’idea che la vita sia un vuoto senza fine e che morire significhi cadere in un nulla senza speranza, ma neanche accetta di fare come coloro che vivono senza domande e che sull’orlo dell’abisso ritagliano nella loro paura un’immagine a cui dare il nome di Dio.
A Block, Bergman accosta il personaggio complementare di Jons, lo scudiero, laico inesorabile e voce della ragione inquieta, quasi l’altro aspetto di se stesso (come i due viandanti di La via lattea di Buñuel, uno ateo, l’altro credente). Jons non accetta la problematica di una ricerca che sembra senza sbocco, scettico sdegnato che, in fine, di fronte alla morte e all’oscurità in cui si è avvolti, accetta il silenzio, ma si ribella. L’intensissima inquadratura in cui tutti si dichiarano nel momento finale, ci rivela invece un cavaliere che prega il Dio che in qualche luogo deve certamente esistere, rivelazione di “una fede che, secondo la parola di S.Agostino, continua a cercare poichè ha già trovato” (Ayfre).
Se Jons non è dunque l’alternativa a Block, con cui semmai è l’espressione di un’unica personalità bifronte, Bergman, che non nega nè afferma, ma si interroga, sembra additare la via della salvezza nella fede immaginifica, visionaria, ma semplice e spontanea del giocoliere e della sua famiglia, gli unici sopravvissuti, grazie al gesto cosciente di Block sulla scacchiera per distrarre la Morte. Lo spettatore trova così tre vie ben tracciate sul problema religioso più importante e che riassumono gli atteggiamenti essenziali dell’uomo di fronte al mistero di Dio. Non solo, ma il film gli presenta motivi di attualizzazione a temi senza tempo: il terrore della peste era negli anni ’50 quello dell’atomica, ora resta quello delle guerre che ci circondano, dei virus letali dalla distruttività inaudita a cui non c’è scampo, la sensazione di una civiltà che sembra precipitosamente declinare.
La fotografia in un bianco e nero a forti contrasti introduce con suggestione profonda quei momenti estremi delle attese ultime, evoca la visione dolente di un medioevo cupo e da tregenda millenaristica. Gli attori, di magistrale bravura, sono un tramite perfetto tra le cadenze della ballata antica e le inquietudini contemporanee, sui cui volti l’inquadratura ricerca i caratteri comuni di una umanità in un cammino allegorico come in una “moralità” medioevale, là dove il divino e l’umano sembravano esistere sullo stesso piano del quotidiano.
Pier Mario Mignone
(da Parlare il cinema, a cura di E. Girlanda, P. M. Mignone, V. Ranzato, ed. Ave, Roma, 1997)
Bibliografìa minima Tino Ranieri, INGMAR BERGMAN, Castoro Cinema, Nuova Italia, 1974 Alfonso Moscato, INGMAR BERGMAN, ediz. Paoline, 1981 Amédée Ayfre, CONTRIBUTI AD UNA TEOLOGIA DELL’IMMAGINE, ediz. Paoline, 1966
Terza serata: recensione de “La via lattea”
LA VIA LATTEA (La vile Lactée) regia: Luis Buñuel; sogg., scenegg. e dial6ghi: Luis Buñuel e Jean-Claude Carrière; fot. (Eastmancolor, panoramico): Christian Matras; scenogr.: Pierre Guffroy; mont.: Louisette Hautecoeur; interpreti: Paul Frankeur, Laurent Terzieff; Alain Cuny, Edith Scob, Bemard Verley, François Maistre, Pierre Clementi, Michel Piccoli, Delphine Seyring; produz.: Greenwich Films Prod./Fraia Film, Fr./It., 1969; dur.: 100′
Dal dubbio lacerante di Nazarin alla finale chiarificazione di La voie lactée (1968): la coerenza dell’artista
Buñuel è veramente esemplare. Il soggetto ricorda quei viaggi meravigliosi e fantastici, e aggiungiamo picareschi, dell’alto e basso medioevo che hanno alimentato una lunga e ricca letteratura in passato: due pellegrini vagabondi, Pierre e Jean, vanno lungo la “via lattea” che porta a Santiago de Compostela, in Galizia. Uno strano personaggio (che, accompagnandosi poi con un “figlio” nano da cui si libera una colomba, osservano Gallera e Rollino, rimanda ad una inquietante e misteriosa Trinità, tutta buñueliana e goyesca) comanda loro di aver figli di prostituzione e di chiamarli “Tu non sei più il mio popolo» e “Non più misericordia”. La situazione è ripresa dal profeta Osea (1,2-8) ed è rivolta al popolo di Dio che ha tradito la sua missione e viene da Dio stesso disconosciuto.
Il viaggio geografico dei due picari passa così attraverso una serie di episodi in posti e tempi diversi dalle origini del Cristianesimo (e la stessa persona fisica di Cristo compare con insistenza) che documentano le eresie della storia della Chiesa dalla sua istituzionalizzazione.
La via lattea si prospetta quindi come una parabola surrealista sull’umanità cristiana colta nello sviluppo della sua storia religiosa ed esemplificata nella sua tipologia fondamentale, l’ateo (Pierre) e il credente (Jean) che in un certo senso coesistono in Buñuel stesso. Non è tuttavia una storia della Chiesa, ma piuttosto delle sue aberrazioni e delle eresie. Pierre e Jean costituiscono il pùnto di riferimento e di misura tra l’istituzione religiosa (la Chiesa con i suoi dogmi e le sue eresie) e la persona del Cristo storico; e, drammaticamente, costituiscono anche l’elemento coesivo e significante di fatti e persone diverse, apparentemente senza collegamento.
Buñuel passa con estrema libertà nel tempo e nello spazio: la tecnica non è certo arbitraria: il viaggio dei due picari è la visualizzazione del peso delle varie esperienze della nostra cultura secolare così come coesistono nella nostra coscienza e nella quale, in quanto comune patrimonio ereditario, siamo in varia misura coinvolti, sui banchi della scuola come nella vita concreta. Con questo film Buñuel abbandona inoltre i termini del dramma, propri di tanti film precedenti e recupera il tono da “scherzo”, tipico del suo humour nero e della sfrenata libertà fantastica del surrealismo. Affiorano o si completano molte risposte ai dilemmi precedenti, innanzituttoa quelli centrali di Nazarin e Viridiana, nella parabola dello scaltro amministratore, parabola raramente citata, spesso mutilata, scarsamente compresa: « I figli di questo mondo sono, nell’agire con i loro simili, più scaltri dei figli della luce » (Luca, 16,1-8). La citazione buñueliana è ben precisa e intenzionale, ed è diretta a sottolineare la necessità del recupero delle dimensioni storica e dialettica assenti nella “folle” purezza del prete Nazarin e nell’ingenuità disarmata e sconfitta della novizia Viridiana, onde il loro fallimento operativo.
Ma, soprattutto, nella Via lattea va vista la finale riconciliazione tra l’originaria aspirazione eversiva e liberatoria del Bunuel surrealista ed anarchico (Un chien andalou) e il cattolicesimo gesuitico, rigoroso e inquisitoriale della sua prima educazione spagnola. La saldatura paradossalmente passa per una scissione netta (ed evidente già in Nazarin) tra clericalismo e vangelo, tra Chiesa e Cristo, tra istituzione temporale e purezza originaria. Il Nuovo Testamento è per Bufiuel il punto di partenza – il Cristo in cammino – di un nuovo umanesimo, di Cristo virile, energico, deciso, senza traccia di cupe persecuzioni, “terrestre” (si rade, mangia e beve, racconta parabole con la baldanza e l’attrazione mimica di un istrione), proteso in avanti attraverso la storia, ed oltre essa. L’istituzione religiosa è invece in Buñuel l’invasione, la costrizione e la violenza alla coscienza umana (il curato, parlando della Madonna, cerca di forzare la “camera” privata della coscienza tramite l’irrealtà del miracolismo agiografico che nasconde la spada sotto la tonaca, alla Venta del lopo: l’accanimento è particolare contro l’amore perché “pericolosa” liberazione delle forze di tutta la personalità). A questa oppressione, perpetrata sin dalla tenera età dal sistema clericale-politico (le ragazzine all’Istituto Lamartine recitano un formulano di colpe su cui si invoca l’anatema, burocrazia dello sterminio) il surrealista Buñuel reagisce per via onirica con l’ateo Pierre che, assistendo alla recita del Lamartine, con uno scatto di humour nero inscena fantasticamente la fucilazione del papa (gli spari surrealisticamente sono intesi extra-conscientia dal suo vicino: lo humour ridimensiona l’evidente provocazione blasfema della rivoluzione anarchica).>
Tuttavia l’attacco a fondo al clericalismo questa volta viene fatto in maggior misura in direzione della sua distorta spiritualità, e di un certo tipo di raziocinio teologico la cui « mortifera pratica » si è rivelata violentemente negatoria degli autonomi valori creativi della persona, fossilizzando nella sua artificiosa codificazione burocratica lo slancio naturale della fede delle origini.
Buñuel porta qui a conclusione il suo discorso sul fariseismo metastorico di EI angel exterminador e della carità di Viridiana. La sovrastruttura del dogmatismo ha fatto presto dimenticare la dimensione umana, il formalismo ha rimpiazzato la sostanza più autentica. La grande «auto» della Chiesa che all’inizio dà un passaggio ai due viandanti, osserva Montanaro, li lascia poi per strada per la loro non-osservanza formale delle norme religiose (citazione casuale del nome di Dio). Più i personaggi parlano di teologia, più rifiutano la carità (come il curato e il gendarme nella trattoria dell’Ile-de-France e soprattutto il dotto maitre nel lussuoso ristorante): i due termini sembrano escludersi a vicenda.
Di fronte alla negazione « ortodossa » della carità, Buñuel ha se non proprio una simpatia, comunque non un disprezzo da crociato per le eresie, viste come tentativi irrazionali, sia pur sbagliati, di rivolta anarchica contro un ordine costruttivo, asfittico e intimamente contraddittorio: «riconosce che l’altro ha sempre qualcosa da insegnarci poiché ha sempre qualcosa da rimproverarci». La rassegna delle eresie, significativa per Buñuel, dopo rarefatte e oziose discussioni sulla transustanziazione, gli Albigesi e i Patéliers, rappresenta l’orgia liturgica dei Priscilliani (sesso e misticismo), la dissolutezza atea di De Sade (mai dimenticato da Bunuel nello scherzo sull’eros e le più remote manifestazioni), i drammi di condannati e giudici dell’Inquisizione (l’argomento è più spagnolo che mai) e la rivolta anarchica (e surrealista con la fucilazione del Papa), i Giansenisti convulsionari che si fanno crocifiggere (cristianesimo persecutorio e « imitativo »), la casistica dottrinale gesuitica, affilatissima come una lama nel duello con il Giansenista (prima educazione del giovane Bunuel), il fanatismo antitrinitario e l’irriverenza verso la morte nell’episodio del disseppellimento del vescovo eretico: « La catena dei delitti stringe vittime e carnefici: esplodono le eresie, che al sorgere sembrano conservare qualcosa del generoso moto di liberazione dai vincoli del potere, ma poi subito accettano di combattere ad armi pari con esso opponendo alla mostruosa ratio degli ortodossi una propria ratio altrettanto demenziale e crudele ».
Il contesto è decisamente nazionale e bunueliano (e la guerra civile del ’36 lo ha confermato). I due viandanti sono gli unici che passano indenni tra tanto furore, e proprio in nome della terrestrità umanistica, addirittura antintellettuale (mangiano e bevono allegramente mentre il gesuita e il giansenista duellano con la spada e più ancora con la lingua). La vita e la concretezza è ciò che li àncora alla sana quotidiana materialità dell’esistenza; ateo e credente finiscono per perdere i loro caratteri diversificanti: ciò che li unisce – una umanità originale e libera verso valori naturali autentici – è più profondo di ciò che li potrebbe separare. L’incontro con le forze demoniache si neutralizza con il pensiero materiale dell’utilizzazione delle scarpe del morto; la stessa liberazione delle forze occulte della persona (il fulmine auspicato da Pierre o l’incidente che augura) non è tanto un fatto eccezionale, quanto un «meraviglioso» naturale anche se inspiegabile, proprio di una umanità libera e felice in cui materialità e spiritualità, naturale e soprannaturale, ragione e fantasia coesistono in una impareggiabile armonia, come nelle popolazioni primitive.
Questa umanità « terrestre » non raggiunge la sua terra promessa – Santiago – e cede di buon grado agli inviti della prostituta che realizza l’iniziale predizione, perché si è rivelata falsa la meta prefissata: pare infatti che il corpo di San Giacomo sia stato sostituito da quello dell’eretico Priscilliano; la città di Santiago è ormai deserta, senza pellegrini. Fanatismo dogmatico e furore eretico si sono scontrati e confusi: « Due orrori uguali e contrari si scontrano in un apocalittico sabba, finché diventano complementari. Allora è possibile lo scambio delle parti, e delle “verità”». Se il curato contrario ai Patéliers poi ne fa propria la tesi scoprendosi subito dopo che è pazzo, il gesuita e il giansenista, « savi », duellano con le affilate armi della loro dialettica per poi andarsene cerimoniosi a braccetto; la finale sostituzione o confusione dei resti del venerato San Giacomo con quelli dell’eretico vescovo di Avila non lascia dubbi su questa babelica degenerazione di fronte alla quale Buñuel auspica il ritorno alla chiarezza originaria. Il Cristo in cammino ridà la vista ai due ciechi ma ammonisce: « Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non son venuto a portare la pace, ma la spada. Perché son venuto a dividere il figlio dal padre; la figlia dalla madre… » (Matteo, 10, 34-39). Si ricomincia dall’inizio; ma niente è gratuito o casuale, occorre volere, bisogna operare delle scelte, maturare un impegno. Giunti ad un fosso, un cieco passa, l’altro tentenna e rimane.
Pier Mario Mignone
Articolo del settimanale “La Fedeltà” del 9 febbraio 2000
Si è concluso il corso proposto da “L’Atrio dei Gentili” UN RIUSCITO VIAGGIO SULLE ALI DELLA FINZIONE CINEMATOGRAFICA
Si è concluso mercoledì scorso il corso di cinema promosso dall’associazione culturale l’Atrio dei Gentili, in collaborazione con Effetto notte e l’assessorato alla Cultura.
Il salone della sede CAI, messo gentilmente a disposizione, è stato riempito in tutte le quattro serate da un pubblico variegato di amanti del cinema di qualità, ma non solo. Il successo dell’iniziativa è dovuto a più fattori. Il tema del viaggio – non solo quello ‘geografico’ ma anche quello ‘interiore’ – che attraversa le filmografie di tanti paesi del mondo e la scelta dei film da commentare hanno certamente incuriosito molti dei partecipanti. Un pochino, soprattutto per gli studenti, deve aver contribuito anche il fatto che l’iniziativa era gratuita.
Pier Mario Mignone
Sicuramente il motivo principale di questa partecipazione costante (70 persone per 4 mercoledì di seguito non sono poche per Fossano) è stata sicuramente la presenza di Pier Mario Mignone, che ha condotto tutto il corso con grande competenza non solo cinematografica, ma culturale in genere, aperta a 360 gradi sulle altre forme espressive. Il critico cinematografico albese è infatti riuscito a ricostruire il contesto artistico, storico, letterario, filosofico, religioso, sociale… che sta dietro al film di qualità, lasciandone intravedere i rimandi reciproci, senza dimenticare quanto di proprio il cinema ha offerto e tuttora offre alla cultura e all’immaginario collettivo.
Mignone, prendendo spunto dal titolo “Homo viator: amare insieme l’andare e la meta”, ha presentato, nella prima parte del corso, una serie di sequenze tratte da film famosi, suddivisi non solo per cinematografia – americana o europea – ma anche in rapporto al tema del viaggio, del “pellegrinaggio”: da un lato i film che raccontano del viaggio come tensione verso una meta, un punto d’arrivo, dall’altro quelli che invece narrano il viaggiare come un insieme di accadimenti e di esperienze che rappresentano lo scopo stesso del viaggio. Nella seconda parte ha commentato in modo dettagliato le principali sequenze tratte da tre film, vere pietre miliari della storia del cinema nel XX secolo: Il settimo sigillo di Bergman, La via Lattea di Buñuel e 2001 odissea nello spazio di Kubrick.
Insomma un riuscitissimo viaggio sulle ali della finzione cinematografica.
Carlo Barolo
Ringraziamenti dell’Associazione a Pier Mario Mignone
Fossano, 9 febbraio 2000
Caro Pier Mario,
ti scrivo per salutarti (via carta) non avendo potuto farlo personalmente mercoledì scorso. Ho saputo dagli altri amici presenti che e’ stato un verso successo. Colgo l’occasione per dirti i dati del questionario distribuito l’ultima sera. Tutti coloro che lo hanno restituito, circa 30 persone, sono interessati a ripetere il Corso il prossimo anno ed il 70% preferirebbe un altro corso monotematico, piuttosto di un corso di lettura filmica in generale. Questo vuol dire che la formula scelta quest’anno e’ stata valida!
Tra i commenti ricevuti al primo posto sono i complimenti rivolti a te, riportiamo testualmente: “corso tenuto sempre dalla stessa persona veramente brava”, ” possibilmente con lo stesso esperto”, “ho molto apprezzato la competenza e la modalità comunicativa del relatore, auspicherei ancora la sua presenza”, “molto valida la conduzione critica”, “eccellente la guida critica”. Ad essi ci uniamo anche noi organizzatori.
Tra gli altri suggerimenti: – la richiesta di un proiettore migliore – la richiesta di una sbobinatura “per poter riprendere il discorso in un secondo tempo quando si rivedranno i films” – il suggerimento ad Effetto Notte di riproiettare vecchi films.
Infine compiono proposte di temi, quali: – Il viaggio all’interno del sentimento umano (Kurosawa) – Il silenzio di Dio – L’uomo nella storia – La grazia – I diritti umani – La ricerca di sé e dell’altro.
Detto questo cosa aggiungere, se non un grandissimo grazie di cuore per aver ritrovato una persona importante anche per la mia crescita (i mitici anni all’ITIS) e per l’affetto dimostrato a noi e … a Fossano.
Grazie e auguri per i molti impegni, penso proprio che ci ri-sentiremo per il prossimo anno.
Frammenti di riflessione per non far tacere le coscienze
Vi proponiamo alcune iniziative diverse intorno al tema della guerra del Kosovo: non abbiamo una tesi precisa da sostenere. Ma crediamo che vivere in pace e sicurezza sia desiderio e diritto di tutti e insieme che tutti i desideri devono fare i conti con la realtà e trovare dunque modi e percorsi per diventare veri, con la fatica di cercare dialoghi, regole comuni, accordi, personali e politici. Proponiamo quindi occasioni di riflessione e confronto e un’unica azione che mira solo a ridare spazio, ragioni e dignità alla politica, difficile arte di trovare accordi comuni e modalità per farli rispettare. E chiediamo a quelli che tra noi sono credenti di trovare almeno una voce di preghiera perché le intelligenze, le volontà e le coscienze degli uomini e delle donne sappiano cercare e trovare strade di pace”.
Proiezione del film: “Prima della pioggia”
Mercoledì 16 giugno 1999 ore 20:45 ITIS “Vallauri” Via S.Michele, 68 Fossano
Soggetto e sceneggiatura: Milcho Manchevski Regia: Milcho Manchevski Fotografia: Manuel Teran Musica: Anastasia Origine: Macedonia, Francia, Gran Bretagna, 1994 Durata: 115′
“Prima della Pioggia” è vincitore del Leone d’Oro alla 51° Mostra del cinema di Venezia ed è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero.
Milcho Manchevski ha lasciato New York e le produzioni di video per Mtv per girare nel 1995 quest’opera prima in cui racconta la situazione della sua terra d’origine, la Macedonia, mentre nella vicina Bosnia i rapporti erano ormai degenerati nel sangue.
Con grande tecnica, il film ha forse una delle migliori fotografie degli ultimi anni. I paesaggi sono di una bellezza sconvolgente, elegiaca, magica che contrasta con la crudezza degli animi. Diviso in tre episodi, rende con un artificio narrativo il cerchio del destino e gli intrecci delle storie personali, ma alla fine resterà un paradosso temporale che forse rappresenta in sé una possibilità di fuga, o forse sottolinea l’assurdità degli eventi stessi.
Parole. Kiril, un giovane monaco macedone che ha fatto voto di silenzio, salva Zamira, una ragazza albanese braccata da un gruppo di macedoni che vogliono vendicare l’assassinio di un loro familiare. I due vengono scoperti dal superiore della comunità e costretti a lasciare il convento. Kiril vorrebbe andare a Londra dove vive lo zio, un famoso fotoreporter. Ma vengono raggiunti dal nonno e dai cugini di Zamira che per fatalità uccidono la ragazza.
Volti. La scena si sposta a Londra, dove un fotoreporter macedone, Aleksander, dopo aver ricevuto il premio Pulitzer vuole tornare nel suo paese e chiede ad Anne di partire con lui. Anne va a cena con il marito, con cui è in piena crisi matrimoniale, per decidere cosa fare. Mentre di due discutono, l’elegante ristorante londinese è sconvolto dagli spari di un serbo assassino. Il bel volto del marito di Anne è devastato dalla furia omicida che non conosce più ostacoli.
Immagini. Aleksander torna in Macedonia e la trova lacerata dai conflitti tra le diverse etnie e i credi religiosi che fino al quel momento avevano vissuto in pace tra loro: le tensioni con la minoranza albanese si sono esacerbate e i suoi parenti gli parlano di riscatto da 500 anni di dominazione musulmana. Il fotoreporter cerca di riportare la pace tra i diversi gruppi, anche lui alla ricerca del suo antico amore, una donna musulmana. Ma anche lui deve cedere all’odio insensato, ucciso dal cugino mentre mette in salvo una giovane ragazza albanese, Zamira, che corre verso il convento dove si trova Kiril…
Manchevski ci avverte di una situazione che sebbene non è una guerra è già un conflitto interno a bassa intensità (la violenza tra macedoni ortodossi e albanesi musulmani ha preso la forma di faide familiari che dividono i villaggi e due delle vittime più significative nel film sono uccise dai loro stessi parenti). E turba verificare in questi giorni di guerra nei Balcani il rifiuto dei profughi kosovari da parte del governo macedone; per tutelare “equilibri demografici” interni, si dice, definizione fumosa per noi occidentali che questo film, nella sua tragicità, aiuta a capire meglio.
“Prima della pioggia” nasce dalle impressioni del ritorno a casa. Tre anni fa sono tornato in Macedonia dopo un’assenza di sei anni. Il cambiamento era sconvolgente, indefinibile, oppressivo come un cielo minaccioso e cupo, carico di nuvole prima di un temporale. Erano le esplosioni di quell’egoismo collettivo che genera il nazionalismo e che riaffiorava dai secoli passati. La guerra non si vedeva, ma era nell’aria. Non potrei raccontare la guerra nei Balcani, potrei farne solo la cronologia, perché non so spiegare com’è cominciata, e per me niente può giustificare la violenza di una guerra civile.
(Milcho Manchevski)
Tavola rotonda
Mercoledì 23 giugno 1999 ore 20:45
Interverranno:
don Ermis Segatti (teologo e storico),
il prof. Stefano Siccardi (docente di diritto presso l’Università di Torino),
don Corrado Avagnina, moderatore (direttore de “La Fedeltà” e “L’Unione Monregalese”)
Salone di Via Vescovado, 12 Fossano
Per riflettere su questa tematica:
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Notizie e commenti sulla crisi nei Balcani, dal sito de “La Repubblica”
Parlare della confessione oggi è toccare un argomento che contemporaneamente crea difficoltà ed attira.
La ” pratica ” di questo sacramento è molto cambiata; se da una parte non usa più confessarsi per routine, o perché “serve per l’acquisto delle indulgenze” (ed allora si faceva ogni quindici giorni), dall’altra se ne sente il bisogno, ma non è mai il momento, non si trova il tempo, non si riesce a darsi una ragione valida per doverlo fare. Si aggiunge a questo il fatto che il confessore, oggi più di una volta, è ricercato anche per un dialogo umano e spesso uno sconosciuto “non dice niente” e in più i preti sono sempre di meno.
Cominciamo allora a chiederci cos’è questo sacramento, di cosa è il segno reale ed efficace, per capire cosa è importante vivere in esso e dunque anche “come farlo”.
Un sacramento è sempre una realtà umana, espressa in modo umano e semplice, senza riti misterici o magici, che ci porta ad un incontro con Dio. Certo occorre anche avere un significato per i segni e occorre riceverli con un atto di fede, sapendo che, come per incontrarci e salvarci Dio ha scelto la via dell’Incarnazione, così per farci ottenere la sua Grazia Egli sceglie dei segni e dei mezzi che parlano all’uomo.
Ora, nel sacramento della riconciliazione, quale è il significato? Quando la si chiamava, e la si chiama ancora, “confessione” l’impressione era, e può ancora essere, che la cosa importante sia dire i peccati e se ne è fatta perfino una mistica dell’umiltà, quasi a dire “mi umilio e sono perdonato”.
Questo è un modo per mettere al centro l’uomo e il suo operare, mentre in tutta la nostra fede è Dio che è al centro e che opera per primo.
La riconciliazione è innanzitutto un atto liturgico, anche se è celebrata al di fuori di uno spazio sacro, fra due sole persone, e senza una forma molto fissa.
In quanto tale è una celebrazione: celebrazione della gloria di Dio che si manifesta nella sua infinita misericordia. Andarsi a confessare è celebrare e, dunque, pregare e lodare Dio perché è buono, perché eterna è la sua misericordia.
D’altra parte in latino il verbo che si traduce con confessare significa anche riconoscere pubblicamente. Il Credo è una confessione della fede.
La prima cosa dunque alla quale bisogna prestare attenzione è questo riconoscimento della bontà del Signore, che celebriamo con un rito, per semplice e informale che sia. E questo rito, questa “confessione”, opera realmente in me, come ogni sacramento, una grazia che mi santifica, mi cambia, restaurando in me l’immagine di Dio.
Perché lodo il Signore? Perché nonostante quello che ho fatto, la discordanza del mio comportamento, la lontananza del mio cuore da Dio, Egli mi precede offrendomi il perdono, dicendomi che per lui è più importante la comunione con me che una rigida giustizia, che il suo stesso onore, che la necessità di riparare.
Da una parte dunque è necessario che io riconosca che sono diventato dissimile, per mia responsabilità o anche per la sola fragilità umana, perché altrimenti non si capirebbe perché ringrazio, ma dall’altra celebro un sacramento con un atto di fede dicendo: l’amore di Dio è più grande del mio peccato che sparisce come nebbia al sole se con la mia volontà lo pongo davanti al Signore, o, meglio, acconsento che Dio lo perdoni.
Posso fare questo solamente con un atto di fede circa il fatto che quando chiedo perdono Dio mi ha già perdonato, mi ha preceduto, perché altrimenti non potrei assolutamente fare un tale passo, che mi santifica e mi restaura nella intimità divina.
E’ dunque importante saper dire i propri peccati per riconoscere che Dio non ama l’ideale di uomo che non sono, ma ama proprio me con la mia fragilità, la mia cattiveria, le mie ambiguità, la mia drammatica dissomiglianza dal Creatore, ma anche dalla creatura come l’ha voluta il Creatore. A questa creatura Dio non dice “mi hai deluso”, ma “rialzati e cammina”.
Ma è ancor più importante celebrare con tutto il cuore la grandezza dell’amore divino che mi aspetta sulla porta, anzi esce dalla casa per venirmi incontro, abbracciarmi e dire “rivestitelo dell’abito di festa”.
Questo avviene prima del sacramento e allora perché dover andare da un uomo e non porre semplicemente un atto di fede e di lode nel proprio cuore?
Bisogna ricordare il perché dei sacramenti, di questi gesti umani con cui Dio tocca l’uomo, come i gesti di guarigione operati da Gesù. E così anche il perdono deve essere detto con parole umane, ascoltato e accolto da orecchie di uomo, occorrono gesti umani come l’andare, l’incontrare, il parlarsi. Se sono già perdonato, questo è da parte di Dio. Se vado a confessarmi è perché io devo dire, con gesti miei, che accolgo, acconsento al perdono.
Mi sembra però che c’è un’altra ragione molto importante per la presenza di un altro uomo in questo meraviglioso incontro fra Dio Salvatore e l’uomo peccatore: ogni gesto umano ha una profonda ripercussione su tutta l’umanità. L’unica natura che ci unisce ci rende tutti solidali. Per questo Dio incarnandosi ci ha salvati tutti. “Ogni anima che si eleva, eleva il mondo”. E così ogni anima che si abbassa, abbassa il “tasso di carità” che impregna tutti gli uomini, abbassa il mondo. Di ogni nostro gesto siamo responsabili davanti ai nostri fratelli.
Ma come essere perdonati da tutti coloro che abbiamo ferito, quando tanto spesso (pensiamo alla maldicenza) non possiamo neanche riparare materialmente il male fatto? Anche se chiedessimo perdono a tutti coloro che incontriamo non potremmo mai essere totalmente perdonati. La Chiesa si fa carico di questo dramma del peccato, e, mandata dall’Onnipotente, l’unico che può veramente riparare il male che abbiamo fatto, annuncia efficacemente il perdono, non solo di Dio, ma anche degli uomini. Il prete è mandato a portare questo annuncio. Nulla è irreparabile, e il mio essere perdonato, il ricevere la grazia della Misericordia divina, guarisce, in modo misterioso anche se non tangibile, anche le ferite che ho inflitto agli altri.
E allora cosa dire? Cosa confessare? Il mio peccato vero non lo conosco neppure io. Il vero unico peccato è non essere come Gesù, il Figlio diletto, adoratore perfetto del Padre. A volte questo “fondo di peccato” che è in me appare in un fatto evidente, allora so cosa dire; altre volte, la mia imperfezione non è dicibile se non con parole ripetitive e banali. Queste non sono da disprezzare: come per la preghiera, le parole veicolano l’indicibile. Non posso dire il mio peccato, allora dico i miei peccati. Gravi o leggeri che siano. Perché neppure io so se sono gravi o leggeri. Il mio rapporto con Dio e l’importanza della carità verso gli uomini sono tali che nessuna colpa è leggera e nello stesso tempo la mia debolezza è tale che sembra che nessuna colpa sia veramente grande. Occorre vivere con semplicità, dunque. Stando ben attenti a non cadere negli scrupoli.
E lodare Dio perché è lui che importante e non noi; ciò che fa lui e non ciò che facciamo noi!
Sei parole, che traiamo dalla Bolla di indizione del Giubileo, per guidare la nostra riflessione verso una comprensione di questo evento ecclesiale che tenga conto della nostra condizione di laici credenti.
Si tratta infatti di un evento spirituale, in primo luogo, che dunque interpella la nostra fede nel suo incarnarsi nella condizione concreta in cui la viviamo, per noi la nostra vocazione di laicità. “Spirituale” significa infatti capace di articolare fede e vita secondo la Spirito nella quotidianità, con un anima alta e una concretezza semplice.
Si tratta poi di un evento ecclesiale, che dunque chiede di superare una dimensione puramente personale, anche se sempre la suppone.
Proviamo dunque a fare l’esercizio di declinare le parole chiave che la Bolla di indizione del Giubileo ci consegna per farle diventare strumenti spirituali e ecclesiali della nostra vita di credenti.
Registrazioni
Introduzione di Stella MorraLectio: Rm 12,1-2 e 1Gv 4,7-5,13
Il libro
“Sei parole per il Giubileo” (a cura del settore Adulti di Azione Cattolica, fondazione Apostolicam Actuositatem Ave, Roma 1999, pagine 144, lire 9.000)
Il libro declina le 6 parola chiave della “Incarnationis Mysterium” – la bolla con la quale Giovanni Paolo II ha indetto il grande Giubileo dell’anno 2000 – attraverso otto prospettive di approfondimento.
Si trovano per ciascuna parola otto contributi, utili per la lettura personale e per articolare un itinerario associativo per il gruppo del settore Adulti in parrocchia.
La riflessione antropologica introduce l’interpretazione della parola in riferimento al Giubileo (a cura della teologa fossanese Stella Morra); seguono poi alcune indicazioni per una ricerca che può diventare più ampia con il contributo e la creatività di tutti: una proposta di letture bibliche (Elisabetta Obara); un richiamo alle fonti patristiche e alcuni brevi racconti (Roberta Russo); la segnalazione di materiali e strumenti culturali in ambito musicale (Daniele Lippi), cinematografico (Pier Mario Mignone), librario (Maria Grazia Tibaldi). Conclude il volume un rimando agli itinerari formativi (“Conformi all’immagine del figlio.”Itinerari di formazione per laici adulti” (voll. I, II, III, IV), Roma 1995/98, Ave) offerti in questi anni dal settore Adulti di Aci (mons.Tino Mariani).
L’ipertesto
A partire dal contenuto del libro è stato realizzato l’ipertesto “Sei parole per il Giubileo” (praticamente un mini-sito consultabile con il consueto browser del computer).
Istruzioni:
scaricare sul computer il file GIUBILEO.ZIP contenente l’ipertesto;
scompattare il file (doppio clic);
eseguire l’ipertesto facendo doppio clic su “giubileo.htm” all’interno della cartella “giubileo”.
L’Atrio dei Gentili, l’Azione Cattolica di Fossano e l’Editrice Esperienze, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Fossano, propongono quattro appuntamenti sul tema “In attesa di una profezia d’amore”.
Nella società che va in frantumi, mentre i rapporti con le persone si stanno spesso scompaginando e mentre tra le vicende esistenziali ci si smarrisce, emerge sempre più urgente il bisogno di essere accolti, accettati, aiutati, riconciliati.
Programma
Materiali
Materiale di lavoro per l’incontro “La ferita dell’olocausto” (PDF)
Le Associazioni Culturali “L’Atrio dei Gentili” e “Musica Viva” organizzano l’incontro “Parole & Musica”, che avrà come protagonista il cantautore Massimo Bubola.
Come recita il titolo della serata, non sarà un semplice concerto, ma l’occasione di sentirsi raccontare – con le canzoni ma anche nel dialogo con un intervistatore e con il pubblico – i piccoli e grandi fatti di una vita, i desideri, i sogni, gli ideali, le delusioni, insomma tutto ciò che crea emozioni e quindi può diventare canzone.
La serata si svolgerà sabato 28 novembre 1998 alle ore 20,45 nell’Aula Magna dell’Itis “G.Vallauri”, in via S.Michele 83, a Fossano. L’ingresso è gratuito.
Scheda su Massimo Bubola
Massimo Bubola, originario della provincia di Verona, ha inciso il suo primo disco, dal titolo “Nastro Giallo”, nel 1976 ma ha raggiunto la popolarità grazie alle sue collaborazioni con Fabrizio De Andrè, di cui è stato coautore nei dischi “Rimini” e “Fabrizio De Andrè”. Sono sue canzoni come “Sally”, “Una storia sbagliata”, “don Raffaè”. Ha scritto canzoni per Milva, Cristiano De Andrè e Fiorella Mannoia, che ha portato al successo alcuni tra i pezzi più famosi di Bubola, come “Il cielo d’Irlanda”, “Camicie rosse”, “I venti del cuore”. Come produttore ha curato lavori di Cristiano De Andrè, Kaballà, The Gang, Estra.
l suo ultimo lavoro, dal titolo “Mon Tresor”, edito da alcuni mesi, conferma le sue doti di autore e musicista: 13 pezzi molto belli e dall’ispirazione varia: si va dai riferimenti a personaggi famosi (“Dino Campana”) a richiami di luoghi solo in parte ideali (“Svegliati S. Giovanni”); tuttavia il tema ricorrente nei testi è l’amore con le sue mille sfaccettature (“Addio & goodbye”, “Ma non ho te”, “Spegni la luce”), mai reso in maniera banale. C’è anche spazio per le storie come “Cuori ribelli” e “Corvi”, due canzoni di lotta, e per una preghiera “Davanti a te”.
Rassegna stampa
Articolo pubblicato su “La Fedeltà” del 2 dicembre 1998
Massimo Bubola l’uomo e l’artista
Erano più di trecento le persone che hanno assistito, sabato scorso, all’incontro con Massimo Bubola organizzato dalle associazioni “Musica Viva” e “L’Atrio dei Gentili”.
In un clima di profondo ascolto, il cantautore veronese ha raccontato il suo rapporto con la poesia e la musica, rispondendo alle domande di un intervistatore e del pubblico ed offrendo una performance di quasi tre ore, da solo sul palco con chitarre ed armonica.
Ci ha raccontato piccole e grandi storie di dolore che sono entrate nelle sue canzoni, dalle guerre combattute con lo scopo di cancellare interi popoli e culture (gli indiani di Fiume St. Creek, i Bosniaci di Corvi) alle vicende personali, come la morte del fratello a 12 anni (Un doppio lungo addio) o la perdita di un amore (Niente passa invano).
Si è identificato negli eterni studenti e sognatori che hanno seguito per il mondo Giuseppe Garibaldi (Camicie rosse), ci ha fatto ripensare con ironia ad estemporanei eventi di casa nostra raccontandoci la storia di un gruppetto di texani che lo scorso anno si barricò in un capanno dichiarando guerra agli Stati Uniti e proclamando l’indipendenza del proprio stato (Cuori ribelli).
Attraverso canzoni come Davanti a te e Quello che non ho Bubola ha parlato di sé come credente, dei suoi incontri con le esperienze monastiche, della sua consuetudine con i testi biblici.
Ovviamente ampio spazio è stato dedicato alle sue canzoni più famose, quelle che solitamente vengono attribuite all’estro di De André, mentre in realtà Bubola ne è autore o almeno coautore, da Sally – scritta al Liceo durante un’ora di inglese – a Quello che non ho, da Don Raffaè a Hotel Supramonte, a Volta la carta.
Per molti, comunque, la lieta scoperta di alcune canzoni mai ascoltate che meriterebbero sicuramente altrettanto successo: Dove scendono le strade, Un angelo in meno, la bellissima Tre rose.
Insomma una serata in cui il pubblico – un certo numero di “aficionados”, ma per lo più persone che conoscevano poco o nulla del cantautore ospite – ha potuto scoprire o riscoprire un artista dalle ottime qualità vocali, capace di far “rendere” musicalmente con il solo contributo di voce, chitarra e armonica anche brani di rock puro e di coinvolgere profondamente con le proprie canzoni.
Il tono colloquiale, le battute scherzose, la disponibilità a raccontare i percorsi più o meno tortuosi della propria vita, gli ideali, le disillusioni hanno comunque permesso alla platea di apprezzare in Massimo Bubola non solo l’artista ma anche l’uomo, che si è rivelato profondo conoscitore della poesia e puntuale osservatore delle vicende storiche contemporanee.
Molto soddisfatti della serata gli organizzatori per il numero di spettatori presenti ma soprattutto perché – come ha commentato all’uscita una ragazza di Asti – una serata come questa permette di apprezzare nel protagonista qualcosa che va oltre l’esibizione, lo spettacolo, e perché apre alla riflessione su temi e aspetti della vita che non sono “di moda” o per cui si fatica a trovare le parole per comunicarli senza scadere nel banale: la bellezza, la spiritualità, l’amore, la morte.
Per chi volesse conoscere più da vicino il cantautore veronese, ricordiamo che è attivo in provincia un “Massimo Bubola fan club” a Dogliani e che il suo ultimo CD in vendita da alcuni mesi si intitola “Mon Tresor“.
Articolo pubblicato su “La Piazza Grande” del 4 dicembre 1998
Bubola. parole e musica A proposito dell’incontro con il cantautore veneto
Dino Campana e Fedor Dostoevskij. All’uno e all’altro, Massimo Bubola ha dedicato due delle sue (tante) canzoni. Le ha anche cantate, sabato scorso all’Itis, chitarra in mano, armonica a bocca e camicia bianca, in una serata che forse, ad un certo punto, è sfuggita di mano – in senso più che positivo – un po’ a tutti, a lui Massimo Bubola per primo: “Non mi era mai successa una cosa così” ha comunicato, con la sua voce forte, calda e gradevole, e quell’espressione candida, un po’ stupefatta, difficilmente rinvenibile nel volto di un qualsiasi adulto.
E sì che la proposta dell’Atrio dei Gentili e Musica viva doveva essere un qualcosa di spurio, mix di parole, musica, canzoni, racconto autobiografico: ma ad un certo punto, il pubblico, davvero numeroso, oltre che appartenente a tutte le fasce d’età, è entrato a viva forza nel concerto, subissando Bubola di richieste, quasi tutte esaudite, nonchè di domande. Massimo Bubola, dal canto suo, al gioco c’è stato: ha cantato molto, moltissimo. Per poi raccontarsi, tra un “pezzo” e l’altro: quasi un monologo interiore, quello di Massimo Bubola, un flusso di parole guidato più dalle emozioni, dalla memoria, e come tale soggetto a sfilacciamenti, battute d’arresto, ripensamenti, passaggi talvolta “arditi”, non sempre logici. Inevitabile, quando si parla di amore, morte, dolore, bene, male, bellezza (“sono un po’ socratico: per me la bellezza coincide con la bontà”), Dio, fede, pace, guerra, sogni. Chi è, in fondo, Massimo Bubola? “Sono una persona assolutamente normale. Quando mi trovo con gli amici scherzo, dico sciocchezze”. E’ uno che non sopporta la banalità, intendendo per banalità “la calunnia, il basso pettegolezzo”, che fugge le “solitudini rumorose” del giorno d’oggi, i “supplementi” (tv, cellulari), la celebrità, l’illogica secondo la quale “più vendi, piùsei bravo”. Portando sempre in cuore l’insegnamento di suo padre che, quando gli mise in mano Mallarmé per la prima volta, gli consigliò vivamente di evitare di voler capirci troppo, rischiando così di ammazzare l’essenza stessa della poesia. Fedele a ciò, Bubola canta la vita, alieno da ogni cerebralismo, riflessione estenuante o qualsivoglia interpretazione.
Tra quanto è rimasto inespresso, da parte del pubblico – soprattutto per questioni di tempo -, ci siano concesse due note personali. Al di là delle gabbianelle e gatti Zorba, forse forse bisognerebbe andarci cauti ad etichettare Luis Sepulveda come “New Age”. “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, ad esempio, non mi pare rientri troppo nel genere. E poi, siamo proprio sicuri che, in generale, quando uno non ha niente di meglio da fare compone canzoni d’amore? Viene quasi il dubbio che Bubola non abbia mai ascoltato “E ti vengo a cercare” o “La cura” di Franco Battiato: non sono proprio cose “campate” là. O, forse, molto più semplicemente, certe situazioni (il pubblico, il palco) ti portano a fare certe affermazioni un po’ tagliate con l’accetta. Tipiche, comunque, dei caratteri e delle personalità mai banali e travolgenti.