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Credo la Chiesa (I)

Riprendendo le conversazioni sul Credo…

Gruppo del venerdì
Ottobre 1997

–> Vedere in parallelo lo Schema di lavoro

Il discorso sulla Chiesa si fonda direttamente sulla questione del Filioque. Ricordiamo le due idee-chiave di Chiesa: se lo Spirito procede dal Padre ne discende, nell’impianto di riflessione orientale, una Chiesa che sta tutta dalla parte della storia e che quindi è implicata anche nelle strutture, nelle vicende concrete, mentre, paradossalmente, nella visione cattolica del Filioque , la Chiesa si pone comunque analogicamente al Figlio, quindi ha una parte storica ed una parte no.

Dico “paradossalmente” nel senso che noi, vivendo da latini nella Chiesa cattolica romana, abbiamo la sensazione di una Chiesa molto compromessa nelle cose della storia, il che è anche vero, ma di per sè ha una sua struttura, anche in questo suo modo di compromettersi, molto diversa perché consente quella che noi chiamiamo la laicità ecclesiale, cioè l’idea che la Chiesa è mescolata alla storia, ma con una sua autonomia. La storia e la Chiesa sono comunque due cose un po’ diverse, con grandi punti di contatto, ma di volta in volta, si definisce qual’è la funzione dell’una rispetto all’altra (la Chiesa deve “battezzare” la storia oppure deve imparare dalla storia). Ma sono due soggetti molto chiari, due realtà che hanno in qualche modo pari dignità di soggetto con determinati periodi in cui si è detto, ad esempio, che l’una era il soggetto cattivo e l’altra il buono.

Detto ciò, questo riconosce comunque che sono due soggetti.

Nell’idea orientale c’è invece nella storia un unico soggetto che è la Chiesa. La storia è un puro contenitore, non ha soggettività, per cui non c’è il concetto di laicità che non è stato mai sviluppato. Non c’è un luogo fuori dalla Chiesa dove sia possibile misurare comunque il proprio cristianesimo in autonomia. Noi, nelle nostre categorie, la chiameremmo una Chiesa più clericale, anche se questa non sarebbe la definizione corretta.

Per esempio, l’idea che il sacerdozio in oriente non sia celibatario, anzi presso alcune chiese se uno vuol diventare vescovo deve essere sposato in quanto ciò sarebbe segno di maturità, di equilibrio, di stabilità umana, di una struttura di vita compiuta, quest’idea, che a noi pare molto progressista, positiva, moderna, in realtà è uno dei fattori che gioca nella clericalizzazione della Chiesa in un modo fortissimo perché funziona facendo in modo che tutto sia riassunto nel sacerdozio, anche lo stesso matrimonio. Quindi qualsiasi esperienza umana, l’amore umano, la politica, l’economia, viene riassunta nel sacerdozio e va tutto governato direttamente dal ministero del sacerdozio.

Dopo lo schema qui c’è un’altra pagina, tratta dal libro Sono un teologo felice di E. Schillebeeckx. E’ una specie di autobiografia, scritta sotto forma di conversazione con un giornalista, con una parte su temi teologici; il resto è la storia personale degli anni a cavallo del concilio e l’esperienza personale dell’autore.

Ho messo questo pezzo perché mi sembra che dica bene il versante su cui ci troviamo. Se abbiamo letto in questi giorni i commenti dei giornali sull’incontro del Papa con i giovani a Parigi e sul Congresso Eucaristico abbiamo certamente notato che era molto visibile una grande confusione, esattamente su questi termini: modernità, rievangelizzazione, primo e secondo millennio; invece mi pare che Schillebeeckx, con cui si può essere o no d’accordo, non fa confusione ed usa i termini per bene.

Dice: c’è una cosa che si chiama modernità, che si può far partire da Cusano, Cartesio, Pascal ed altri, o si potrebbe far partire da Galileo o da altri, c’è una cosa, un movimento in occidente che per convenzione si chiama modernità, o postmodernità oggi, che ha in sè le sue ambiguità, non è una cosa bella, pulita, linda.

E aggiunge: ho tenuto un corso su Marx che è prodotto della modernità da una parte, e insieme critico della soggettività che è il nucleo della modernità, dall’altra. Il movimento della modernità, fenomeno tipico dell’occidente, non è nè un feticcio, nè un dato organico, perché ha comunque dentro di sè una serie di contraddizioni, di questioni, ma non si può dire che non esiste, perché sono seicento anni dell’occidente.

Di fronte a questo fatto l’ipotesi ecclesiale percorsa in questo momento è, secondo Schillebeeckx, quella del ritorno al primo millennio, alla cristianità precritica della campagna, a un modo di pensare la cristianità e di interpretare tutto il secondo millennio come una decadenza, pensando in qualche modo che le rotture, prima con l’Oriente, poi all’interno dell’Occidente con la Riforma, hanno generato come un frutto cattivo di un errore, un peccato che genera una storia di peccati, dunque una degenerazione, che è stata la modernità.

Rotta l’unità, si è sempre più decaduti e la questione è dunque recuperare il cristianesimo del primo millennio, ma recuperarlo, come dice benissimo Schillebeeckx, non semplicemente tornando indietro.

Tornare indietro è un progetto che potrebbe essere un modello di Chiesa su cui pensare, ma significherebbe assumere tutta quella Chiesa del primo millennio e, per esempio, la teologia del ministero che era una teologia molto diversa da quella odierna per via delle questioni giuridiche (ad esempio non era previsto il celibato obbligatorio), ma non solo per questo, ma proprio come modello di Chiesa, di cui le questioni giuridiche erano poi l’effetto, era tutto un altro modo di pensare.

Per esempio, il cristianesimo non era sostanzialmente territoriale; oggi saremmo praticamente incapaci di pensare un cristianesimo non territoriale, cioè non organizzato per diocesi, parrocchie, confini geografici, nazioni. Il cristianesimo del primo millennio era tutto personale, uno era cristiano per la relazione a coloro che lo avevano generato alla fede, che poi lui stesse a Palermo o a Trento non faceva differenza, era legato al vescovo che l’aveva battezzato o ai monasteri, che anche oggi non hanno una struttura di potere territoriale. L’idea è quella della generazione alla fede, non ancora della paternità che è successiva, quando c’è una maschilizzazione del linguaggio teologico. Prima, si usa il termine “generazione alla fede” che di per sè è un linguaggio femminile, perché chi genera è la donna e sarebbe quindi una “maternità nella fede”.

Invece questa specie di progetto di rievangelizzazione, avendo una grande insistenza sulle radici dell’Europa cristiana (Cirillo, Metodio, Benedetto), rievangelizzare (si confronti il famoso discorso del papa a Parigi: Francia, che cosa hai fatto del tuo battesimo) è un progetto che assume le forme della modernità, ma con un sostanziale disprezzo, nel senso che non ama, non riconosce quelle forme, ma le assume strumentalmente perché, detto brutalmente, lo stesso cristianesimo acritico della campagna è il cristianesimo acritico dei massmedia e dei grandi raduni, perché lo stesso livello di acriticità e di mancanza di potere da parte della massa e della tradizionalità che passava attraverso il fatto “mia nonna mi ha insegnato a fare il segno di croce e dunque è così”, non passa più per quei modelli che sono cambiati (è venuto meno il modello di autorità) ma è lo stesso tipo di contenuto nel modello ecclesiale, per cui i massmedia funzionano come veicolo di acriticità esattamente come il cristianesimo nella campagna.

E dunque, per esempio, questo papa ha dato un’importanza centrale ai massmedia, diventando un uomo visibile (viaggia, rilascia interviste, va in montagna, scia…) con una serie di immagini per cui ciascuno di noi, sia d’accordo oppure no, ha nella mente innumerevoli foto di Giovanni Paolo II apparse sui giornali e che associerà per tutta la vita a questo papato.

Quale modello di Chiesa viene veicolato, a prescindere da cosa può o non può cambiare nel cuore e nella vita della gente?

Rispetto all’autocomprensione il problema è che la Chiesa deve dire in qualche modo a se stessa quale modello di Chiesa sta veicolando con l’assunzione di questi mezzi che usa in modo sganciato dalla filosofia che li ha prodotti. Si può usare, ad esempio, un modello di analisi letteraria senza per questo assumerne la filosofia, ma, detto ciò, il problema è quale immagine (non solo quale singolo contenuto) trasmetto, corretto o scorretto, ma anche quale immagine dell’imparare, dello studio, del confronto, del dialogo, viene veicolato con questo metodo.E’ lo stesso problema dell’insegnante che può usare qualsiasi metodo, assumendone totalmente o in parte la filosofia pedagogica, oppure usarlo solo come strumento dentro un’altra filosofia.

Ma poi c’è sempre un punto in cui l’insegnante deve chiedersi quale immagine di adulto sta veicolando con il metodo, lo stile, i contenuti che sta trasmettendo e che adulto è. Non tanto che cosa spiega, ma quale, tra gli adulti possibili, gli alunni si fissano in testa incontrandolo, oltre ai genitori e agli altri con i quali hanno a che fare.

Questo è il problema di questa Chiesa e, secondo me, ciò non è inconsapevole in questo papa, è molto cosciente ed è l’idea di un ritorno parziale ad un progetto sostanzialmente acritico, in senso strettamente filosofico, non politico, cioè precedente alla critica di Kant, al concetto che esista la possibilità di farsi una domanda su questi principi.

Domanda: Non è forse impossibile per qualunque Chiesa accettare lo spirito della modernità perché questa è relativista e quindi secolarizzata?

Questa affermazione è totalmente gratuita nel senso che questa cosa è già successa: è il caso dell’eresia, della separazione che si crea tra il cristianesimo e l’ebraismo. L’ebraismo ha funzionato come un rifiuto della critica ai principi primi ed il cristianesimo si è staccato dall’ebraismo in quanto Cristo, con il discorso che ha fatto sulla legge, in Matteo “Vi è stato detto, ma io vi dico….”, fa un’operazione critica sui principi primi della legge.

O lo leggiamo con quelle letture un po’ ingenue, dicendo che Gesù è rivoluzionario, ma quando Gesù fa il discorso sul sabato, il suo problema non è il sabato, ma il dire che esiste una signoria superiore al sabato, cioè che quel preteso principio primo rimanda al Signore della vita, che è il Padre a cui non si giunge se non per mezzo suo, non attraverso la legge.

Allora, secondo me, la Chiesa oggi si trova nella stessa questione.

Domanda: la Chiesa, come struttura politica che è nella storia, ampiamente secolarizzata,non può farne a meno perché diversamente non può veicolare nulla se non della retorica e allora deve ritornare allo spirito iniziale, ne è costretta.

Alla Chiesa interessa principalmente l’unità e l’unità è quella antecedente al 1054. La rottura che le pesa di più è quella, non le altre che, in qualche modo, si ricongiungono.

Stiamo facendo due discorsi diversi su cui, secondo me, dobbiamo distinguere, altrimenti non ci capiamo.C’è un discorso sull’autocomprensione teologica della Chiesa, cioè sul riferimento al suo Credo, lavoro che stiamo facendo noi, e c’è un discorso di analisi storica sulla Chiesa.

Se si dici che Giovanni Paolo II in questo momento sta in un modo in cui non può far altro, come ad esempio Bertinotti in questi giorni, su questo stesso piano, più o meno posso essere d’accordo.

Il problema è che questa questione, mentre è risolutiva per me, per quanto riguarda Bertinotti, nel senso che lui non ha mai preteso di sopravvivere alla morte e quindi si pone unicamente come un dato intrastorico, in cui il criterio che vale è quello dell’analisi storica, per quanto riguarda la Chiesa è diverso perché, quanto a sè, essa non si pone come totalmente intrastorica, ma si pone come intrastorica e contemporaneamente con un’anima, con uno spirito. Non si può non fare anche un’analisi teologica della faccenda che non sia solo analisi storica.

Allora, che storicamente l’analisi di Schillebeeckx sia lucidissima, chiarisca un sacco di cose, è chiaro, ma, detto questo, mi pare che, dal punto di vista teologico, la Chiesa del Signore Gesù non ha alternative, cioè deve vincere questa tentazione, deve inventarsi il modo, come ha fatto per duemila anni, come nel 1200, di fronte alla crisi della rottura, sono nati i monaci.

Nasce da un’altra parte un percorso per cui si inventa un altro modello di Chiesa che, apparentemente perdente, minoritario, assume una cosa e dà di nuovo la sua anima alla Chiesa.

Mi sembra che questo sia il quadro su cui però bisogna avere realismo, nel senso che il realismo è verificare in quale modello di Chiesa si campa in questo momento. Allora, molta gente non religiosa che si incontra è entusiasta dei giorni di Parigi, del Congresso Eucaristico, perché dice: “questo papa sta ridando legittimità al nome cattolico. Vent’anni fa, in Italia, uno a dirsi cattolico si vergognava e oggi non è più cosÏ, grazie all’operazione di marketing di Giovanni Paolo II, per cui uno può dirsi cattolico esattamente come si può dire buddista”. Ma appunto questo è il problema, perché nel momento in cui posso dirmi cattolico esattamente come posso dire sono astemio, con lo stesso livello di autodefinizione, ci siamo giocati la sostanza del cristianesimo che nella sua origine nasce dall’ebraismo non contestando la storicità, non contestando il Dio dei padri, non contestando la comune Scrittura, ma esattamente contestando l’acriticità alla legge, cioè la sterilizzazione intorno a un modello.

E dire che Gesù, Figlio di Dio, è il Messia, la grande affermazione che poi spacca il cristianesimo e l’ebraismo, non è tanto, come siamo abituati a pensare, un dato cronologico (gli ebrei aspettano ancora il Messia e noi sappiamo già che è arrivato ), non è questa la questione.

Gesù è il Messia significa la buona notizia, la salvezza predicata, che è la buona notizia di un principio critico sui principi primi, così lo chiameremmo in termini moderni, di un signoria assoluta che non sta in mano nemmeno della stessa religione.

Questa faccenda è il cuore del modello della Chiesa cristiana e per questo la Chiesa cristiano-cattolica ha sempre avuto modelli che hanno proceduto per strappi, mai per evoluzione successiva: un modello è nato, si è espanso; quando è diventato significativo in termini di potere, cioè quando è diventato vincente, è stato spezzato dal suo interno da un modello concorrente, critico.

E’ quello che viene chiamato, dai sociologi della religione, il teorema del successo. Per esempio, quando nel 1400 il modello monastico diventa dilagante e tutti assomigliano ai monaci, pregano come i monaci, vivono come i monaco, giustamente nascono i mistici come modello antagonista alla regola monastica. Allora, contro ogni regola, contro ogni scansione delle ore, contro ogni preghiera precostituita, contro le parole scritte della preghiera, cioè come principio critico rispetto ad un modello che diventava vincente e che dunque aveva perso la sua capacità di essere principio critico, nasce il sentimento mistico.

Dopo di che la mistica evolve e diventa patrimonio comune per cui si arriva alla devozione: tutti hanno visioni, vedono ostie lievitare, miracoli, tutti hanno un cristianesimo sentimentale, molto passionale, fino al 1700; è la grande devozione a causa della quale nasce il pietismo, e tutto il tema dell’intimità diventa disciplina, regola, non-sentimento, riposo in Dio, quiete, assenza di manifestazione, silenzio, come modello antagonista.

Nel passato, quando non c’era la modernità, quindi non c’era il senso dell’autonomia moderna, il mondo ha sempre applaudito ai modelli vincenti della Chiesa; ha sempre trovato comprensibile il modello quando era assestato e incomprensibile il principio critico.

Questa è una questione stabile e ripetitiva.

Mi pare però che la modernità inserisca alcuni elementi nuovi. Se questo è un dato ripetitivo, la modernità, e torniamo alla prima pagina, inserisce un dato nuovo che non si era mai verificato prima.

Mi riferisco al secondo schema, quello in basso: lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio; in questo schema se segnassimo dove c’è scritto Chiesa dalla croce, il punto ipotetico dove inizia la modernità, quello che viene segnalato da lì in poi, è una biforcazione di questa strada della storia, cioè è una esistenza, anche visibile, di due soggetti, di una storia intraecclesiale e di una storia extraecclesiale, o atea, o laica, che non si riconosce automaticamente nella Chiesa.

Questa è la grande innovazione della modernità, che cioè diventano visibile, esterna alla struttura ecclesiale, una serie di realtà, prima la filosofia, poi la politica, poi l’economia, che reclamano una loro autonomia di fini, di strumenti, di leggi. Di questo procedimento noi siamo al fondo.

Per noi è impensabile che non sia così.

Abbiamo assistito agli ultimi colpi di coda di questa dinamica, cioè abbiamo assistito, per dirla brutalmente, alla fine della DC, nel senso che dalle prime teorie del Principe di Macchiavelli su un certo tipo di autonomia della politica, alla fine del partito dei cattolici in Italia c’è di mezzo la storia, ma noi siamo al fondo di questa storia

La cosa incomprensibile e spiazzante per molti, in questa analisi, è che oggi la Chiesa, in qualche modo, in Italia, ad esempio, non stia facendo una scelta plateale, aperta, di una o di un’altra parte; ma è molto chiaro che non la fa e non la farà, nel senso che non le interessa, che diventa soggetto politico a sè, che, semplicemente, è entrata in questo gioco delle parti e dunque funziona come una lobby guadagnando, di volta in volta, quello che le serve.

Questa è l’innovazione su cui ho fatto l’esempio della politica, ma se ne potrebbe fare uno più sottile, ma non meno importante, anzi, secondo me ben più importante, che è quello dell’economia.

Pensate ai monaci, che avevano ideato un modello di Chiesa come un’economia autarchica che aveva una dimensione totalmente di villaggio, per cui se si pensava ad una città di Dio regolata dalla campana, dai chiostri, dove lo spazio e il tempo erano organizzati secondo la logica di Dio, anche il lavoro, l’economia, il cibo, erano garantiti dentro questa logica.

Da lì l’economia, a mano a mano, con i mercanti, la nascita della borghesia, comincia, sui fatti, senza dettami filosofici, a proclamare la sua autonomia, fino ad oggi in cui noi siamo di fronte ad una Chiesa, per esempio in Italia, che gioca alcune cose della sua sostanza in cambio del denaro, cioè ha una servitù al discorso economico ormai molto forte.

Dal punto di vista dell’economia, va notato anche questo procedimento di scollamento, di autonomizzazione ed una Chiesa che fa il discorso teorico contro il capitalismo, però dopo, al di fuori di questa enunciazione di principi contro l’uno e l’altro, in cui dà sempre un colpo al cerchio ed uno alla botte, in realtà si percepisce come libera, con la possibilità di esprimere le sue opinioni solo nei sistemi capitalisti.

Questa frattura inserita dalla modernità è un primum , non era mai successo prima nella storia, e noi siamo al compimento di questo procedimento.

Allora si capisce un po’ meglio che il progetto di questo papa circa la rievangelizzazione dell’Europa a partire dal primo millennio è anche l’ipotesi di recuperare questi spazi di autonomia , di riacquistare, non più con la forza, ma con l’autorità morale, una parola vincolante, che abbia un peso sull’economia, sulla politica, sulle altre cose.

E in fondo noi chiediamo la stessa cosa perché, ad esempio, quando diciamo che la Chiesa dovrebbe pronunciarsi sulla pena di morte, chiediamo che la Chiesa riprenda parola autorevole su una serie di questioni che riteniamo lasciate troppo all’autonomia.

Qui ci sarebbe da fare un ragionamento su quali alternative, su quali possibilità di rispondere a questa sfida della modernità ed alla questione posta dal ritorno al primo millennio.

Domande: 1) penso che la richiesta di autonomia da parte di analisi storiche, economiche nei confronti della Chiesa, si traduca, di fatto, in un tentativo di supremazia, nel senso che, quando si fa un’analisi sulla situazione della Chiesa, il rischio è che questa analisi sia di tipo sociologico, storico, e la si ritenga come unica possibile, creando una grossa ambiguità perché non è possibile un’analisi della Chiesa al di fuori dell’impianto teologico. Se si fa un’analisi di questo tipo occorre dire esattamente dove ci si colloca e quale è la portata dell’analisi.

2) non penso che i modelli siano indifferenti rispetto ai risultati ottenuti. Il modello condiziona fortemente il comportamento. Attualmente una delle cose assai diffuse è il fatto che ciascuno si viva con un’identità soltanto attraverso i rapporti che riesce a stabilire. Mentre un tempo uno si formava un’identità di per sè, indipendentemente dai suoi rapporti con gli altri, adesso, i giovani in particolare, danno molta importanza all’ambiente e ciò genera un’etica di tipo relativista perché, se è vero questo, a seconda dell’ambiente in cui mi trovo, è giusto che mi comporti in modo diverso.

Questo forse deriva da tutta una rivoluzione che ha spostato l’attenzione nell’analisi scientifica dagli elementi all’interazione tra gli elementi, dall’individuo all’interazione con gli altri.

Non è vero che si possa usare qualsiasi metodo per far passare qualsiasi cosa; non è vero, ad esempio, che la Chiesa possa usare tutti i massmedia e veicolare qualsiasi cosa perché, se sceglie di usare la televisione, veicola anche una parte che appartiene alla televisione e non può far diversamente.

Ho visto il concerto di Bologna come esperienza antropologica e alla fine, ciò che il papa ha detto, “Gesù Cristo è l’unico che meritava l’applauso”, mi ha fatto molto pensare. Forse è venuto anche a lui il dubbio che ci fosse una certa confusione in tutta la faccenda.

Sul fatto che il modello prenda la mano, in una specie di delirio, per cui viene da pensare che noi lo governeremo sempre e poi ci si rende conto, invece che, almeno in una parte, è il modello che governa noi, non c’è dubbio ed io spero che si arrivi ad un’esasperazione per cui l’autocoscienza possa diventare plateale.

La questione da dibattere è proprio l’alternativa, perché la Chiesa cancella sè e l’eucaristia se non trova un’alternativa, non in un giorno, ma attraverso una progettazione.

Ma c’è modo e modo di pensare il progetto culturale che la Chiesa italiana ha assunto come idea per la rievangelizzazione dell’Europa. Si può assumerlo come missione alla città, con presidi di insegnanti e studenti cattolici che fanno una serie di iniziative aperte a tutti. E questo è un modello, un’ipotesi. Offrire l’occasione di un convegno, un dibattito, è di per sè buona cosa; ma il modello è che la Chiesa compie la sua missione nella misura in cui va in questi luoghi della modernità (come nel ‘500 andava verso l’America Latina ) e spiega agli altri come va il mondo.

L’altra ipotesi è organizzare dibattiti per il giubileo, dentro le strutture, ad esempio la scuola, perché i ragazzi abbiano gli strumenti per capire, ma non si fa in quanto cattolici, ma con i consigli di classe si lavora in una programmazione per cui si fa passare che, tra altri corsi, si fanno una serie di incontri con storici, con esponenti di altre religioni ed anche un esponente della commissione giubileo cattolica, per conoscere la storia dei giubilei e spiegare il senso di questo evento.

Certo questo non si può “targare” e poi ci vuole molto più tempo per l’organizzazione, ma in questo modo si fa un’operazione culturale dando strumenti di interpretazione di un fatto da cui non è esclusa l’interpretazione teologica e religiosa, ma che ha un suo posto, quello della propria autocomprensione dentro una struttura che è quella moderna e autonoma della scuola che viene mantenuta e rispettata in quanto tale.

Questi sono i due modi diversi di pensare.

Apparentemente non sono così diversi nel senso che il risultato è una conferenza in un’aula magna, sul giubileo, ma in cui la veicolazione è profondamente diversa perché si veicolano due modelli di Chiesa completamente diversi.

Cosa vuol dire accettare la modernità?

Non è una cosa che possiamo scegliere se tollerare o no, ma invece è un dato e basta.

D’ora in poi si troverà sempre di più nella scuola, come nella società, una serie di pluralità (mussulmani, testimoni di Geova, buddisti….) per cui non è più scontata la totalità cattolica, nemmeno anagrafica, non solo la comunanza di idee. Quale modello si può proporre in una realtà di questo genere?

Che tipo di possibilità di modelli diversi presuppone la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica”?

Bisogna capire che ci sono pluralità di modelli possibili e perché, e poi per quali motivi e con quali costi, dentro la storia, se ne sceglie uno o un altro sapendo che, dentro la storia, le cose passano e stabilendo, dal punto di vista dell’autocomprensione della fede cristiana, quali sono le cose che non passano, che devono restare solidamente centrate.

Anticipiamo la prossima lezione chiedendoci in che senso il Concilio Vaticano II ha affrontato la questione della modernità, quali punti ha lasciato aperti per cui poi si sono sviluppati alcuni modelli rispetto ad altri o in quali punti si può pensare che il Concilio Vaticano II ha lasciato aperte altre possibilità, interne, che forse non sono state percorse.

Vaticano II ha affrontato la questione modernità, in primo, luogo mettendo il dito sulla questione critica e questo, secondo me, sarebbe da riprendere, da custodire. Ha chiarito la domanda, non ce l’ha fatta a dare una totalità di risposte completa perché, in quel momento, mancava il materiale storico, ma ha messo ben in luce il punto di crisi e l’ha fatto con i suoi documenti, ma anche con i gesti che parallelamente la Chiesa nella sua ufficialità ha compiuto: il ritiro delle scomuniche con l’Oriente, l’abbraccio di Paolo VI con Atenagora, la restituzione delle reliquie di San Marco al patriarca di Costantinopoli, l’ecumenismo al centro, con il cardinale Bea, attraverso il dialogo.

Il papa attuale, apparentemente in continuità, ha riproposto l’ecumenismo al centro, realizzando il grande incontro di Assisi, in cui lui ha invitato, ma non ha più partecipato agli incontri successivi ,non organizzati dal Vaticano, ed in cui si era insieme per pregare, ma ciascuno pregava per conto suo in un luogo di culto diverso. E si capisce che la continuità rischia di essere davvero solo apparente

I gesti intorno al Concilio hanno posto in chiaro le due questioni critiche.

a) Si passa struttura confessionalistica-controversistica alla domanda sulla verità della propria identità, cioè: se si accetta il principio critico, se si accetta Kant, il principio, la sfida della modernità, non si può ragionare solo nei termini di cercare chi ha ragione o chi ha torto, ma occorre mettersi a discutere sulle cose in sè, bisogna passare dalla logica confessionalistica-controversistica alla questione su quale qualità hanno le affermazioni che io stesso faccio.

Chiunque ha a che fare con l’educazione sa benissimo che c’è una fase relazionale dei bambini in cui tutto è giocato su giusto-sbagliato, torto-ragione, mio-tuo diritto, con appello e ricorso costante all’adulto come arbitro: “lui mi ha fatto, lui mi ha detto…” e che il salto di qualità è il primo passaggio dal narcisismo infantile all’inizio della crescita! E’ quando si comincia a capire che il problema di “io ho ragione o io ho torto” non è sufficiente per dirimere un dato di realtà, nel senso che se l’altro ti ha picchiato.e l’adulto dice che lui aveva torto, questo non toglie il male ed occorre rielaborare l’accaduto. Normalmente l’adulto, proponendo di fare la pace, sposta l’attenzione dal torto o ragione a come rielaborare il conflitto. Continuando semplicemente a mantenersi sulla questione “torto o ragione” non si cambia la realtà che è successa e soprattutto non la si rielabora.

La mentalità controversistica è quella che si occupa di stabilire chi ha torto o ragione ed è una mentalità precritica, precedente a Kant, con le sue tre grandi domande: che cosa posso conoscere, che cosa posso credere, che cosa posso sperare; con questo egli fa compiere il grande passaggio all’umanità dalla mentalità precritica, cioè cosa è giusto e cosa è sbagliato, alla questione “che cosa me ne faccio del giusto e dello sbagliato”.

Questo Ë il principio del principio critico della modernità.

Allora, Vaticano II dice: da una mentalità confessionalistica-controversistica, da Concili che si sono espressi in canoni e condanne (anatema sia chi dice…….. perché ha torto) ad una domanda sulla propria identità, Chiesa chi sei, cioè a dire “noi come rielaboriamo ciò che è accaduto, ciò che siamo, ciò che abbiamo ricevuto e che cosa vogliamo costruire”.

In questo senso è un modo di accettare la sfida dello spostamento dall’elemento all’interazione, ma è anche un modo profetico, nel senso che non è semplicemente l’accettazione di questo metodo, l’importazione dalla scienza di questo metodo, ma è, a fronte del fatto che tutti incominciano a ragionare così, affermare che bisogna sempre chiedersi chi è il soggetto che sta in una relazione e noi, per primi, come Chiesa, ci chiediamo chi siamo, perché questa è l’anima della relazione possibile, la sua direzione etica e non relativistica.

b) Perciò si passa dalla logica della condanna alla logica della gerarchia della verità.

Vaticano II comincia a provare a dire che la verità non è tutta uguale, che non c’è solo il giusto o lo sbagliato, che la verità è, quanto meno, una gerarchia per cui ci sono verità importantissime e centrali, verità importanti, verità medie, verità marginali che non cessano di essere vere, ma che la verità non è semplicemente una sostanza immutabile, extrastorica, perché la verità è incarnata storicamente.

Dunque c’è un nucleo centrale della verità, ben individuato, che è la Trinità, dunque la carità, per cui la comunione si fa intorno alla carità. Dio è amore, l’essenza è la carità, questa relazione amorosa di e in Dio è l’irrinunciabile, il radicalmente centrale. La visibilità di questo è l’eucaristia. Da lì in poi le verità sono sempre più progressivamente lontane da questo centro.

E Vaticano II dice, non nei documenti, ma nelle omelie che Paolo VI fa in una sessione, che il criterio di giudizio non è l’appartenenza, essere o no cattolici, ma la distanza o la vicinanza al centro della gerarchia della verità. Se sei distante dal punto centrale che è la carità, sei marginale, anche se appartieni e sei un bravo cattolico.

Queste due strutture, questi due cambiamenti, sono l’impostazione del problema della modernità, secondo il Concilio Vaticano II.