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Cristianesimo e modernità (I)

Gruppo del venerdì
Novembre 2003

Premessa alla lettura e al commento dell’intervista a Elmar Salmann: “Mistica, l’inaudito cristianesimo. Orizzonti della ragione e pro-vocazione del mistico”, in: M. CACCIARI – R. PANNIKAR – E. SALMANN – A. VERGOTE, Il centro è il confine. Interviste su cristianesimo e modernità, (a cura di G. RUGGERI), Servitium ed., Gorle (BG), 2002, 55-69.

 

Per questo piccolo testo di Salmann è necessario fare una premessa di linguaggio tecnico che, a mio parere, è molto interessante ed anche molto centrale nel dibattito attuale. Uno dei problemi della modernità, del rapporto tra cristianesimo e modernità stessa, è il rapporto tra mistica e filosofia. Tutte quelle coppie comunemente usate nel linguaggio comune, come “tra il dire e il fare”, “tra fede ed opere”, diventano fondamentali per ragionare su Dio. Conoscere, comunicare, sono importanti se associate ad un’esperienza personale di Dio. A noi questa contrapposizione sembra coeva agli esseri umani, ma è invece uno dei grandi problemi della modernità perché prima non c’era.

Tra il 1200 ed il 1500 si genera la dissociazione tra due pezzi (tecnicamente intuizione-raziocinio, esperienza-pensiero) di cui noi siamo, se non proprio alla fine,  ad un buon punto di distanza e di difficoltà a tenere insieme le cose. Tutto questo, nel caso della fede, è una questione molto grossa perché, da una parte è vero che l’esperienza di Dio (tecnicamente chiamata mistica) è decisiva (non si può fare un’esperienza di fede se non si ha quello che si chiama un rapporto  personale con Dio) ma, dall’altra parte, questa cosa è quanto di più etereo, di più difficile da definire esista al mondo. Nell’attuale situazione culturale noi abbiamo, mediamente, l’idea che l’esperienza di Dio sarebbe facile, non perché accade sempre, ma perché è una cosa concreta, reale: c’è o non c’è. Se non c’è non la puoi capire, ma se c’è la capisci in quanto è, appunto, vera, reale; la teologia, invece, sarebbe una cosa difficile che richiede cultura, esperti. Questa, rispetto al cristianesimo, è la cosa più assurda che si possa pensare, anche se noi l’abbiamo proprio stampata dentro. Ma è vero esattamente il contrario nel senso che la teologia ha un aspetto raziocinante e, tanto quanto, se uno si mette d’impegno e studia, prima o poi, con tanti libri e tanti anni, arriva a capire come funziona, anche se, magari, non è detto che sia convinto. L’esperienza di Dio, invece, è la più difficile del mondo, da fare e da spiegare.

Allora, noi, nella modernità, che operazione abbiamo fatto? Abbiamo detto: ”L’esperienza di Dio, siccome secondo noi sarebbe quella facile, è un fatto privato. Se uno non la vive, non la vive, se la vive la vive e non la sa spiegare, quindi ognuno, bene o male, ha la sua esperienza di Dio. La teologia è un fatto pubblico e, come tutti i fatti pubblici del mondo moderno, (la medicina, l’ingegneria…) con un sapere comunicabile, è riservata a degli specialisti che fanno questo di mestiere e sanno”. Il risultato qual è? Da una parte è che i saperi sono diventati specialistici e sempre più autoreferenziali per cui chiunque dall’interno del mondo di un sapere cerca di spiegare ad un altro non sempre riesce, e fin che si tratta della fisica nucleare non è che tutti i giorni serve capire, ma già se si tratta di medicina a tutti noi farebbe piacere, quando andiamo dal medico, capire quanto ci dice nel dare le sue valutazioni. Dall’altra parte, oltre che autoreferenziali, i saperi diventano apparentemente astratti, tranne in caso di utilità molto concreta come appunto la medicina. Il piccolo problema è che le fedi non stanno da quella parte li, bensì dalla parte degli amori e sugli amori, tutti, a dodici anni, hanno la domanda come si fa, cosa si dice, con la sensazione che se si fa in un modo funziona, se in un altro no. Poi, un po’ alla volta, scoprono che non è così perché non c’è un come si fa, ma c’è un abitare quella situazione in cui l’esperienza che tu fai nutre i tuoi pensieri ed i tuoi pensieri nutrono l’esperienza. Non è, e non può diventare, un sapere specialistico.

La fede sta da quella parte, solo che, negli ultimi cinquecento anni si sono proprio staccati i due pezzi e quindi la fatica di rimetterli insieme è enorme. Esattamente, peraltro, come negli amori per cui ormai ci sono psicologi, consulenti di coppia, sessuologi, tutti specialisti, ma, in realtà, la cosa più tragica è che gli adolescenti dispongono di una mole di informazioni enorme, ma raramente hanno un’educazione sentimentale nel senso più globale del termine, cioè nel senso di riconoscere i propri movimenti interiori, quelli degli altri, avere una ricaduta dei proprii movimenti interiori che non sia solo quella del bambino di tre anni: voglio, dunque ho, ma elaborare i proprii movimenti rispetto alla propria vita.

Il cristianesimo si trova esattamente in questa situazione ed in questa situazione Salmann ha creato una licenza che non è mai esistita nella storia della teologia. Dopo il Concilio sono stati creati due nuovi indirizzi di licenza per la teologia, cioè la storia della teologia e la licenza in scienze storico critiche della bibbia. Ma noi  abbiamo nella teologia la divisione in branche e specializzazioni del seicento. Assolutamente ferma (abbiamo la teologia dogmatica, quella fondamentale, ecc.). Alcuni contenuti sono cambiati ma il modo globale in cui si concepisce la teologia è fermo al seicento. Ora Salmann ha creato una licenza nuova che si chiama “Mistica e Filosofia”, pensata per andare a scavare su come, in un contesto profondamente mutato, questi due aspetti si possono tenere insieme non solo nella vita quotidiana, come accadeva prima perché le cose stavano insieme, ma anche con dei percorsi coscienti per farle stare insieme.

Il pregiudizio molto diffuso è che i pensieri siano difficili e l’esperienza sia facile, mentre nel caso del cristianesimo è esattamente il contrario; quando noi diciamo esperienza di Dio, in realtà, diciamo un paradosso perché Dio non si vede, non si incontra, mentre esperienza, soprattutto nel pensiero postottocentesco significa proprio il dato concreto: pesare, misurare. In realtà l’unica esperienza di Dio che si può fare è quella mediata, non immediata. Noi possiamo fare esperienza di Dio soltanto nel recuperarne le tracce attraverso cose: la parola di Dio, la Chiesa, i Sacramenti, la carità, le persone che incontriamo. Solo in ciò di cui facciamo storicamente esperienza, in un discernimento faticoso, a volte ambiguo e incostante, noi possiamo recuperare le tracce di Dio che risuonano nel nostro cuore. Infatti, quando si dice fare esperienza di Dio ai campi scuola, normalmente si pensa al ritiro, (deserto), e alla lettura della bibbia, come se da lì improvvisamente venisse fuori Dio, o come se, leggendo una frase del vangelo, si incontrasse direttamente Dio. E’ chiaro che la nostra è un’esperienza mediata, anche nella Scrittura che pure è la cosa più vicina alla Parola diretta di Dio che abbiamo. Dunque l’esercizio di ragione non va tenuto insieme dall’esterno perché esso è interno dell’esperienza di Dio. Noi facciamo esperienza mediata e la ragione ci serve a discernere i segni. Non c’è l’esperienza di Dio e la ragione: io con la mia testa penso, poi invece faccio esperienza di Dio, poi devo tenere insieme ed ho sempre il dramma di non riuscire a tenere insieme quello che penso autonomamente e quello di cui ho fatto esperienza. Nel cristianesimo la cosa è sempre più bella: l’esperienza di Dio è mediata perché la nostra ragione entra proprio nel luogo della mediazione per discernerne le tracce ed è esattamente questo che andrebbe ricostruito, questo rapporto con il normale. E’ chiaro che per ricostruire il rapporto come  normale bisogna:

  • avere un buon rapporto con le cose che ci mediano Dio;
  •  demolire un po’ di pregiudizi sulla Parola di Dio, sui Sacramenti, un po’ di false aspettative, di comprensione troppo giuridico rituale;
  •  avere un buon rapporto con l’esercizio di ragione nelle mediazioni, cioè un modo non razionalistico, non storicistico, di far funzionare la ragione per ricercare le tracce dentro alle esperienze che si vanno facendo.

E ciò è un po’ il nostro itinerario di questi anni: aver buttato giù qualche pregiudizio, le paure rispetto alla Bibbia, ai Sacramenti, alla storia della Chiesa e continuare a fare esercizio di far funzionare la ragione guardando queste cose e spaccandole  continuamente per poterne ricavare le tracce del passaggio di Dio, di ciò che Dio dice o fa.

Intervento

Ciò che a noi hanno insegnato, detto con parole semplici, è che la teologia erano i libri grossi, i grandi preti con la barba, che studiavano; la mistica, l’esperienza di Dio, erano le visioni, l’estasi, e la gente, più era ignorante, caprona, più aveva “l’estasi di Dio”. Allora diventa difficile demolire un castello del genere.

Questa visione caricaturalizzata è l’ultimo esito di questo problema. E’ chiaro che, distanziando esperienza e pensiero, succede che, da un lato, il pensare è sempre più accademico, teorico, fino a diventare la casta di specialisti con i libroni grandi, che parlano difficile e semmai sono anche atei, perché il sospetto c’è sempre; dall’altro, se si parla dell’esperienza, l’unica cosa che si può fare, man mano che la si racconta, è che si deve renderla sempre più eccezionale per distinguerla dal normale. Perciò c’erano due tipi di eccezionalità: i santi che volavano, vedevano l’ostia sanguinare, oppure quella che la chiesa ha sempre chiamato eccezionalità spirituale, eroica, della vecchina del rosario, che è contenta di non capire niente ma recita tanti rosari e di fronte alle avversità non perde mai la fede. Noi ci siamo giocati i santi che si alzano in volo perché li troviamo ridicoli, ma siamo rimasti con un senso di colpa perché, di fronte al dolore, non siamo abbastanza eroici, non diciamo rosari ed abbiamo una certa nostalgia della vecchina semplice con una fede forte, mentre noi siamo dubbiosi e perplessi. In realtà, quello che la nostra generazione, mettendo insieme tante età diverse, che il postconcilio ha segnalato, è che tutte due quelle cose, salvo restando la buona fede delle persone, sono, come immagini sociali, fasulle: sia quella di coloro che volano, e si era già capito, ma anche quella di un’apparente fede, eroica sì, ma espropriata di ragione ed anche di umanità, per cui uno sorride anche quando gli hanno spaccato la testa e rotto le mani. In questo caso si urla, non si sorride, se non si è psicotici gravi. Dopo tutto ciò, che uno possa essere credente o no, non essere sostanzialmente disperato o esserlo, che debba poi fare i conti, nella propria vita, con le cose che succedono, è un’altra questione. Quando Salmann parla di mistica e filosofia non ne parla in quel senso lì. Quando sono andata a Roma a visitare la bellissima mostra sul seicento, “Visioni ed estasi”, una rappresentazione della mistica, c’era un quadro con S. Giuseppe da Copertino che cura un malato di mente, un giovane nobile che dava di matto, prendendolo per i capelli e lanciandosi in volo con lui, lo scuote tanto che, quando lo posa giù, è guarito!

Intervento

Io non mi vergogno a dire che per tanti anni è rimasta la mia idea che fosse così. Poi, è soltanto leggendo che mi è suonato un campanello ed ho iniziato a tentare di capire qualcosa.

Giuseppe da Copertino è stato condannato dall’Inquisizione ad essere chiuso in una cella con la motivazione scritta “perché santo”. E questo perché, soprattutto nel tempo di transizione fino al 1600, tempo in cui nasce tutto quello che stiamo ancora vivendo adesso, (immaginate che ebollizione c’era), esattamente come adesso, il tema dell’esperienza diretta, del non accettare mediazioni, in una situazione ecclesiale corrotta, vissuta come spaccata, era assolutamente esplosivo, funzionava come un dato d’aria fresca in una stanza chiusa piena di fumo. Dunque il terrore da parte dell’istituzione nel maneggiare questa cosa era terrificante e sentva la necessità di difendere l’istituzione stessa.

Domanda

Ma questo santo volava davvero o no?

La questione è che noi non lo sapremo mai perché le testimonianze in nostro possesso ci dicono che volava, ma al passato in sé, nella sua realtà, non abbiamo accesso. Non so, forse pure gli yogi che stanno sull’Himalaya nudi a 60 gradi sottozero per dodici ore sul ghiaccio, resistono, ma questo non è un problema religioso. La mistica non è un problema di straordinarietà. Paradossalmente nel tempo di S. Giuseppe da Copertino, mistici e posseduti dal demonio hanno le stesse manifestazioni, fanno le stesse cose. Testimoniano dell’utilizzo di un linguaggio religioso per dire alcune cose, le stesse che oggi vengono dette con un linguaggio non religioso perché non è più quello il linguaggio che circola.

Il problema religioso è un altro ed è che ci sono dei tempi in cui l’esperienza socialmente accettabile della religione è così muta ed opaca che si cercano altre forme espressive per tenere insieme le due cose di cui dicevo. L’esperienza ha comunque un carattere di straordinarietà: quando uno s’innamora o quando ha il primo nipote, pare sempre che lui sia il primo al mondo a vivere una tale situazione, e tutti gli altri si stupiscono, ma, per chi la vive, ha una caratteristica tale di unicità e di straordinarietà da coinvolgere tutti e tutto. Di fronte all’esperienza religiosa, l’unicità che ciascuno vive, che si chiama esperienza di Dio ed è comunque sempre mediata, nei tempi in cui le strutture comunemente accettate dall’esperienza di fede sono mute ed opache, non trova il modo di esprimersi. Dunque, a seconda del contesto in cui è, trova dei modi per dirsi.

Allora, nel cinquecento erano strane manifestazioni di possessione straordinarie, poi chiamate mistiche. Noi facciamo gruppi un po’ alternativi: cristiani per il socialismo, comunità di base, neocatecumenali, inventiamo forme alternative e, poiché nei tempi in cui viviamo c’è una struttura gruppale, in genere hanno la forma dei gruppi per fare esperienza. Il problema non cambia, è lo stesso, ma il nostro ci pare normale; ci stiamo dentro e lo capiamo. Ma il problema di fede non è se quella cosa è accaduta oppure no, perché, anche ammesso che si potesse provare per assurdo che S. Giuseppe da Copertino ha volato, non sposta il problema di essere credente. La questione è un’altra. Che poi queste cose stuzzichino particolarmente la nostra curiosità, siamo tutti d’accordo. Ma, detto ciò, non c’entra nulla rispetto al problema religioso.

Con mistica, nell’esperienza cristiana, si intende la possibilità di un’esperienza quanto più possibile immediata e profonda, di quello che Meister Eckhart chiama il fondo dell’anima; un’esperienza di relazione con  Dio come una persona. Ed è esattamente lo stesso problema che abbiamo noi. E’ esattamente il problema che si ha quando si dice:” La parrocchia sì, va bene, si fanno cose, ci si incontra, ci si confronta, però nei monasteri c’è una maggiore esperienza”. Ma il problema resta lo stesso.

Domanda

In questa evoluzione del concetto di mistica, la psicanalisi rientra nel discorso, sì o no? E in che senso rientra?

Nel senso che gli psicanalisti o la nascita della psicanalisi può essere considerata una sorta di reazione laica all’interpretazione religiosa, senz’ombra di dubbio. Nasce dallo stesso problema della mistica. E’ il linguaggio, secolarizzato, che esprime lo stesso problema della mistica. E per questo la chiesa l’ha vissuta come un nemico mortale, perché era il tentativo di dire lo stesso problema in un linguaggio che non comprendeva più la trascendenza e quindi la tagliava fuori dal gioco. Così come, sul versante sociale, lo stesso socialismo che la chiesa, all’inizio, avversa come l’origine di tutti i mali, perché queste grandi correnti dell’ottocento e del novecento mostrano come è migrato il problema della modernità, cioè come ha potuto incominciare a dirsi senza un linguaggio religioso. Gli eretici, finché c’erano, stavano dentro al sistema religioso, nemici, ma dentro. E la chiesa li condannava al rogo. Questi invece sono estranei, si spostano proprio fuori, con un altro paradigma, altri punti di riferimento. Hanno rotto la membrana cellulare. E noi, che ci piaccia o no, siamo dopo la psicanalisi, dopo il socialismo.

Nella licenza organizzata da Salmann, ci sono dunque corsi per “smontare” esperienza e pensiero nella situazione moderna, ad esempio antropologia e fenomenologia della esperienza (come si fa esperienza, cosa vuol dire fare esperienza, ecc.), antropologia e fenomenologia della coscienza (cosa vuol dire quando dico “sono cosciente, sento che…”), psicoanalisi della coscienza religiosa, ecc.

Nello studio di questi elementi base compare anche il linguaggio e la semiotica dell’esperienza religiosa. Poi c’è una sezione che si chiama storica e studia figure significative rispetto a queste cose, esempi nella storia di tutti coloro che fanno o hanno fatto esperienze per tenere insieme il mondo del sentire ed il mondo del fare e del dire. Infine una sezione denominata istituzioni che affronta tutta una serie di studi in particolar modo su S. Anselmo, sulla regola benedettina, come tiene insieme il fare e il dire, su S. Ignazio e poi la struttura ecclesiale, l’organizzazione dell’autorità della chiesa, ecc.

E poi i grandi mistici, S. Teresa, S. Giovanni della Croce, che non avevano mediamente visioni, se non pochissime, non piaghe e non facevano cose strane. Soprattutto a livello di scritti. In seguito c’erano erano quelli che facevano cose strane perché non riuscivano nemmeno più a parlare o a scrivere. Teresa, Giovanni della Croce, Elisabetta d’Ungheria hanno scritto cose meravigliose ma in modo molto normale ed operavano in modo molto manageriale: fondavano conventi, dirigevano, riformavano. La formula “meravigliosa” o straordinaria è in genere il decadimento della mistica.

Per chi è interessato a queste cose c’è un libretto appassionante che si intitola “La possessione di Loudun”ed è quello da cui è stato tratto il film “I diavoli”. Si tratta della ricostruzione storica di una possessione nel 1600 in cui un intero convento viene dichiarato posseduto dal demonio. E’ un episodio che si chiama crinale in quanto è uno degli ultimi di grande possessione, in cui, alla fine, tutto si smonta quando i teologi, come esorcisti, vengono sostituiti da medici ed improvvisamente il posseduto sta bene.

Veniamo al nostro amico Salmann di cui leggeremo soltanto la prima paginetta che è una citazione dal libro “Presenza di spirito”(Messaggero, Padova 2000), libro di una bellezza inaudita.

 “Rotture e lacerazioni della vita non si possono superare e guarire con facilità: lasciano il marchio, restano come stigmate, rughe, fratture, come carattere del volto, dell’occhio di chi sa, come specificità del pensiero …”

Qui ogni parola ha un peso, un andamento che sembra facile perché è anche poetico, però non è mai scritto a caso. Qui parla di rotture e di lacerazioni della vita che sono proprio i due aspetti: le rotture ci sono quando qualcuno spezza qualcosa in cui c’è una decisione; la lacerazione è ciò che viene staccato e non dipende da noi, è uno sbrindellamento nell’esistenza. Nella vita non è facile superare e guarire sia le rotture che le lacerazioni, sia quando decidiamo, sia quando subiamo. E già qui, quello che noi mediamente calcoliamo come difficile, è ciò che subiamo, mentre dovremmo calcolare anche il peso e il dolore delle lacerazioni volute.

 “lasciano il marchio, restano come stigmate, rughe, fratture, come carattere del volto, dell’occhio di chi sa, come specificità del pensiero;”

Sono le tre caratteristiche: come carattere del volto nel senso che cambiano il modo in cui noi ci presentiamo al mondo; chi ci vede ci riconosce come uno segnato, come uno guarito, non sano, che è diverso; dell’occhio di chi sa, del tuo occhio interiore che guarda la vita come uno che sa, che non è più innocente; come specificità del pensiero, segnano la specificità, il nostro essere mio, del mio modo di pensare, fanno di me ciò che io sono quando penso.

“la vita e il pensiero di un uomo sono veri solo in quanto sono marcati. Per questo, almeno a partire da Kant, ci sembra convincente solo un pensare che abbia considerato apertamente il proprio insuccesso, la propria impossibilità essendo capace di convivere e sopportare una nuova fondazione di se stesso”.

Nella modernità noi possiamo credere solo più a coloro o alle situazioni o alle idee in cui il pensiero è capace di fare i conti con la propria impossibilità, cioè un pensiero che non funziona solo quando funziona, ma che funziona anche quando non funziona, anche quando deve ri-fondarsi ed è in grado di sopportare l’idea di aver sbagliato tutto e di dover ricominciare.

“L’umile assunzione e il coraggioso accorpamento di un’esperienza patita e coatta ci fanno apparire ispirato, in preda ad una vocazione, un uomo o un pensatore, tanto più se questi può contribuire alla scoperta di sé e al raggiungimento di uno stile da parte dei suoi successori”.

Addirittura egli dice: quando uno riesce a tenere dentro il peso della propria lacerazione con armonia, forse ci appare come uno ispirato; non è solo uno bravo, è uno che ci sembra rispondere alla propria vocazione, in qualche modo alla vocazione umana. Se pensiamo a tutte le figure che, in qualche modo ci piacciono socialmente, madre Teresa ad esempio, sono tutte figure che hanno inglobato il proprio insuccesso. Madre Teresa che è entrata in un Ordine, poi ne è uscita, ha fatto altre cose, ha un percorso fallimentare, almeno per la prima metà abbondante della sua esistenza. E noi, guardandola adesso, diciamo che lei, in questa fatica, ha trovato la sua vocazione vera: servire i poveri in modo così radicale, e tutto ciò ci sembra nobile. Il piccolo problema è che bisognerebbe sapere come si sentiva alla sera in cui era uscita dall’Ordine e se ne andava con la valigetta per strada. Noi, quando pensiamo a noi stessi, ci identifichiamo nella sera in ci si rompe qualcosa e non dieci anni dopo, visto da lontano attraverso la mediazione dei media in cui sembra che la storia  abbia una bella logica, anzi un’ispirazione.

Commento

Ma se fosse la storia di un fallimento non piacerebbe più….

Se lei fosse stata schiacciata dal fallimento invece di riuscire a sopportarlo, non si saprebbe nulla di lei. Il problema è proprio questo: è uno dei dati della modernità il fatto che noi non riusciamo a reinglobare i nostri insuccessi perché siamo potenzialmente preordinati ad essere vincenti, ma contemporaneamente essere vincenti sempre non ci è possibile e insieme anche se lo fosse non ci basterebbe.

“Nella frattura delle epoche, degli spazi, delle interpretazioni, la verità non si realizza principalmente nella sua affermazione imposta autoritariamente o nel consenso incondizionato, nella coincidenza di orizzonti, ma piuttosto come quel confermarsi nella giustizia che lascia spazio anche all’altro che io capisco poco o addirittura per niente e che mi fa comprendere che egli vede altre cose o le stesse realtà diversamente”.

Qui non c’è una parola fuori misura. Nella prima parte fa un discorso individuale partendo dall’esperienza di ciascuno di noi e quasi intuitivamente la si capisce, se si ha più di trent’anni; nella seconda passa a mostrare come questa esperienza individuale, in realtà, sia un’ esperienza di ordine teoretico per cui, nella frattura di epoche come nelle fratture della vita, la verità non può essere vincente. Nella frattura di epoche, i tre aspetti indicati (imposta autoritariamente, nel consenso incondizionato, nella coincidenza di orizzonti) ci fanno venire in mente il nazismo. La nostra reazione è subito l’immagine dell’esperienza totalitaria e siamo percorsi da un brivido.

“ la verità come quel confermarsi nella giustizia che lascia spazio […] diversamente”.

E’ molto più che la tolleranza. E’ l’inglobamento del proprio insuccesso; è la verità come esperienza dell’inglobare il fatto di avere torto. C’è almeno un altro punto di vista al mondo che fa dire: io ho torto.

Domanda

Cosa intende per confermarsi nella  giustizia?

Intende proprio il termine classico, biblico, nella giustizia dalla parte di Dio, il giustificato che giustifica gli ingiusti. Non la giustizia in senso giuridico. Il confermarsi nella giustizia è la traduzione di quanto dice prima nei termini personali “l’umile assunzione e il coraggioso accorpamento di un’esperienza patita”. Non l’adesione alla verità, al vero, ma l’accoglienza del fatto che la mia non completezza non ha colpa.

“là dove non c’è nulla da affermare e nemmeno da conciliare, ma solo l’approvazione dell’altro pur senza rinunciare a ciò che è proprio. In questo caso può emergere dopo tutto anche ciò che è comune, cioè quel poco ma fondamentale che gli uomini hanno in comune in quanto uomini, quando piangono e ridono, quando sono bimbi e già prossimi alla morte, ispirati o spaventosamente limitati”.

Commento

Questa è poesia pura!

Il giornalista Giovanni Ruggeri, curatore del testo “Il centro è il confine”, che quest’anno noi esamineremo, ha scelto di inserire, prima di ogni intervista, una pagina dell’autore, con il criterio di dare il suono di come quell’autore si muove. In questo senso, lo stile di Salmann è certamente poetico e così viene indicato nella pagina scelta.

Intervista

Domanda: Nell’epoca segnata da secolarizzazione e ripresa di interesse per il sacro, lei promuove l’indagine di radici e nuclei spirituali di base – anche di fenomeni così sociologicamente vistosi – mediante l’istituzione di un ampio ciclo di studi su “Mistica e filosofia“ presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Ebbene, l’ipotesi di un accostamento tra filosofia e mistica appare, a tutta prima, inconsueta e ardita, se non addirittura improbabile. Infatti, o per effetto di un’irriducibile opposizione e contrasto fra i due termini (secondo il senso comune la mistica sarebbe lo spazio dell’emotivo e dell’ineffabile, mentre alla filosofia apparterrebbero razionalità e logica), o per una sorta di loro sovrapposizione che finisce per confonderli e identificarli, sembrerebbe non esservi alcuna possibilità di rapporto fra due forme di esperienza sostanzialmente incommensurabili o paradossalmente identiche. Quale concetto di mistica e di filosofia soggiace alla sua ipotesi di ricerca?

“Titolo e pretesa di questo piano di studi non sono scontati. La gamma della possibilità dell’incontro tra mistica e filosofia si estende dalla loro quasi – identificazione a nome di una sapienza superiore, che comprenda e renda comprensibile soggetto e oggetto, pensiero ed esperienza, intuizione e raziocinio, fino alla denuncia reciproca di un contrasto insanabile che configurerebbe la mistica come una sorta di fantascienza, un entusiasmo pericoloso e, viceversa, la filosofia come un razionalismo distruttivo. Ovviamente il nostro tentativo si muove tra questi estremi”.

La gamma di queste possibilità va da, quasi, identificare filosofia e mistica in nome di una sapienza superiore, diciamo genere new age, i cui libri sembrano molto colti, con tanti ragionamenti, ma sputano sempre sulla razionalità greca, troppo razionalistica, squadrata, che sarebbe logica perché si capisce. Invece ci sarebbe una specie di razionalità legata ad una sapienza superiore capace di garantire anche una verità dell’esperienza. E’ peraltro lo stesso metodo dei neocatecumenali i quali dicono che non bisogna farsi certe domande sulla bibbia perché altrimenti si è razionalisti; bisogna fidarsi invece della sapienza. Da una parte una riduzione in nome di una specie di sapienza superiore che, appunto, “comprenda e renda comprensibile soggetto e oggetto, pensiero ed esperienza, intuizione e raziocinio”, cioè che tiene insieme; all’altro estremo “la denuncia reciproca di un contrasto insanabile che configurerebbe la mistica come una sorta di fantascienza e la filosofia come un razionalismo distruttivo”.

Domanda

Perché distruttivo?

Perché questo, secondo me, è legato ad un fatto generazionale. I quarantenni attuali hanno un po’ la sensazione che l’esasperazione del razionalismo sia svuotante, cioè che se fai il sofista e spacchi il capello in quattro, alla fine non ti resta più la vita perché il pensiero diventa anatomia, però vi sezioni cadaveri. Quando sei talmente corretto nel ragionamento, alla fine hai pure ragione, ma su che? Con la ragione non cavi un ragno dal buco, fai un ragionamento pulito, giusto che però alla fine paralizza tutto.

“Scommettiamo su un rapporto di affinità elettiva e di «azione parallela» tra entrambe, cioè su una corrispondenza che implichi una critica e un arricchimento reciproci, tenendo anche conto che ognuna delle istanze ha una sua vena autocritica e fa spesso ricorso ad un altro da sé che la fondi e relativizzi”

E’ quello che dicevo prima: l’esperienza non è altro che esperienza mediata, che ha bisogno della ragione per comprendere sé. Se non c’è una vita che mi arriva da altrove, che mi sposta, mi fa pensare un’altra cosa, penso solo sempre a me , restando narcisisticamente come in una stanza chiusa, senza incontri con altri. In realtà penso il nuovo quando la vita, cioè ciò che accade, le persone, le situazioni, spostano i miei pensieri, mi pongono un’altra domanda e non necessariamente mi danno un’altra risposta. Allora queste due istanze hanno al loro interno l’altro.

“Riteniamo che il processo della filosofia e della mistica si basi su un’esperienza elementare e sia un laboratorio di sperimentazione riflessiva e linguistica che vorrebbe attingere le proprie radici, intravedere gli orizzonti del ragionare e intuire”.

Per adesso quello che si può fare non è dire compiutamente come si fa a vivere da cristiani, ma avviare un laboratorio, ed è la nostra attuale esperienza, in cui, abituandoci ad usare sempre l’istanza critica che viene da un’altra parte, non avendo mai un unico registro di ragionamento, ma ragionando in modo storico e critico con la domanda della tradizione di fede, in modo tradizionale di fede, si è costretti ad una continua purificazione del linguaggio. E, alla fine, si parla in altro modo delle cose, con un altro punto di vista, senza dire più sciocchezze ideologiche.

“Perciò la mistica non è un abbandonarsi a un sentimento irrazionale, una velleità estatica, uno stato d’animo ottuso o farraginoso; l’esperienza mistica ci risulta piuttosto un dover e poter definire e comprendere se stessi come intimità toccata e illuminata da parte del fondo e orizzonte del proprio pensare, amare ed essere”.

Questa è una delle più belle definizioni della mistica che abbia mai sentito.

Domanda

Varrebbe anche se non ci fosse Dio?

No. Nel senso del fondo e dell’orizzonte. Tu devi renderti conto di una cosa, che Salmann è un credente, supercritico e illuminato, ma credente, per cui il fondo dell’anima per un credente è sempre l’immagine e somiglianza di Dio posta in noi nel momento della creazione e per questo il fondo è anche il nostro orizzonte. L’immagine e somiglianza che Dio ha posto in noi, che tu lo sappia o non lo sappia, che tu sia credente o no, non importa, quello c’è perché Dio ci ha creati così e quindi questo fondo della tua anima è anche il tuo orizzonte, ciò che ti attira, verso cui vai. Può accadere, nella biografia di un singolo, che uno sia solo onesto rispetto al fondo della propria anima e non lo chiami mai Dio, non lo trovi mai come orizzonte ulteriore; può accadere che uno parta dall’esperienza religiosa, quindi lo scopra prima come orizzonte ulteriore, come estraneo a sé e poi come un fondo di sé, o forse mai lo scopra come un fondo di sé, ma non importa perché queste due cose sono la stessa cosa per un credente in quanto viene dall’atto della creazione.

Allora Salmann dice: l’esperienza mistica è il dover e il poter definire e comprendere se stessi come un’intimità toccata e illuminata da parte del fondo e orizzonte del proprio pensare, amare ed essere.

Trovo questa definizione bellissima perché definisce la grande nostalgia che tutti noi abbiamo. Che poi ognuno di noi, secondo la propria biografia, il proprio linguaggio, la propria cultura, chiami in modo diverso, ma ciò che noi veramente vorremmo è poter sapere di noi che siamo un’intimità toccata, raggiunta, quindi comunicabile, con una possibilità di relazione. Ognuno di noi ha un fondo ed un orizzonte di sé così misterioso e profondo che la nostra massima aspirazione sarebbe che non fosse solo un tesoro sotterrato, ma il luogo dove avviene l’incontro con gli altri, il mondo, i progetti, perché nessuno di noi è bastante a se stesso. Un’intimità come la relazione non di semplice conoscenza, non di sola amicizia, ma tale che la parte profonda di te è raggiungibile per quell’altra persona e a te non fa paura che la raggiunga.

Esiste anche il problema che, da una parte desideriamo essere toccati nella nostra intimità, ma dall’altra ce ne preoccupiamo perché è il punto debole. E il risultato di questo è un dover e poter definire e comprendere se stessi come, cioè non è solo il fatto che avvenga, ma è che il fatto che avviene ti fa sentire il dovere ma anche la possibilità di poter definire te stesso e comprenderti in nome di quello. Salmann dice: l’esperienza mistica c’è quando uno sente di dovere, ma può anche farlo, definire e comprendere sé non in relazione all’essere madre, padre, marito, moglie, avvocato, ma in relazione alla propria intimità toccata e illuminata da parte del fondo e orizzonte del proprio pensare, amare ed essere.

Domanda

Questi tre verbi sembrerebbero la parte razionale, il pensare, la parte affettiva, l’amare, ed essere. E la shakerata tra i due….

No, è la parte psichica, l’identità profonda, quella che in linguaggio filosofico si chiama entità ontologica.

Domanda

Però allora dovrebbe essere del proprio pensare, amare, cioè essere.

No, perché il dato ontologico non è lo shakeraggio del pensare e dell’amare. Faccio un esempio: quando i cristiani,  per definire il concetto di persona dicono che per l’handicappato non dipende dalla sua capacità, dal pensiero astratto, razionale, dalla sua capacità di esprimere il suo amore,  perché lui è persona comunque, dicono anima. Affermano che esiste un’identità profonda del nostro essere che paradossalmente è al di là, prima e altro. Anche le nostre capacità più profonde, non solo quelle fisiche, ma anche quelle del pensare, di esprimere e percorrere degli amori.

Commento

E’ la nostra identità che è di più e diversa dal pensare…..

Vi confesso che trovo questa definizione meravigliosa ed è la nostalgia profonda. Sicuramente, morendo, vorrei poter dire: questo ho fatto nella vita e sarei proprio contenta.

“Nell’intimo della nostra solitudine non apparteniamo solo a noi stessi, ma siamo già “posseduti”e condizionati da tanti presupposti che il mistico realizza immediatamente e che dovrà poi ri-flettere, piegare di nuovo e mediare in un lungo cammino di inveramento esistentivo e teorico”.

Sta nuovamente introducendo la frase di prima e dice: in fondo ognuno di noi ha una profonda solitudine perché sa che c’è un punto di sé in cui è radicalmente solo, non raggiungibile: si nasce soli e si muore soli. Nell’intimo della nostra solitudine noi apparteniamo solo a noi stessi. E’ il discorso di prima: il credente è creato a immagine e somiglianza di Dio. C’è un fondo di sé che, nel più profondo della tua solitudine, è quest’immagine di Dio che tu lo sappia o no, che tu lo riconosca o no. Ma siamo già posseduti, abbiamo già un imprinting e, tra l’altro, condizionati da tanti presupposti; e il mistico immediatamente comprende di dover ri-fletterli, ripiegarli, governarli e mediarli in un lungo cammino perché queste cose diventino vere e non governarli perché diventino un’altra cosa. La mistica è esperienza in cui io mi rappacifico con questa intimità originariamente toccata e condizionata e fletto quest’intimità al punto da rendere me stesso veramente quello.

“E il pensare del filosofo non inizia da zero, non genera se stesso in modo assoluto; pensare ci risulta piuttosto un processo di realizzazione di se stessi e del mondo che implica un rapporto asimmetrico-passivo alle condizioni fondanti dell’essere, conoscere e amare in mezzo ad una pur così grande relazione critica e feconda della coscienza a se stessa e al mondo”.

Pensare allo stesso modo non è che tu ti metti lì e pensi, come non ci fosse nulla prima; tu pensi perché in realtà hai una serie di condizioni originarie: spazio, tempo, cultura, hai delle categorie. E’ pur vero che tu, con la tua coscienza le riesamini tutte, le riprendi, però, alla fine, parti da quel materiale perché non ne possiedi altro. E’ lo stesso meccanismo della mistica: il pensiero, per pensare, deve far pace con quello che ha, con le proprie categorie originarie.

“Il pensiero stesso sa cogliersi come metafora, come possibile simbolo del suo fondo e della luce che la rischiara”

A forza di pensare, se uno non diventa un razionalista distruttivo, ciò che tu pensi è che alla fine pensare è solo una figura della totalità del tuo essere. Non è che tu puoi vivere nella tua testa. Tu hai dei pensieri che ti illuminano ma tu hai una vita che è più grande del tuo pensare.

“Mistica e filosofia sono dunque due forme attigue, inconfondibili, ma a lungo andare anche inseparabili, le due anime della co-scienza umana che cerca di far fronte al mistero dell’Io, del mondo e di Dio.

Sono proprio le due ali di una co-scienza, di una scienza messa in comune, una scienza in due, le due anime che sono: l’intimità toccata e il pensiero riflessivo.