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Cristianesimo e modernità (II)

Gruppo del venerdì
Dicembre 2003

La volta scorsa avevamo fatto un lungo discorso sul tema “Mistica e filosofia”, cioè sul rapporto che esiste, nell’epoca moderna, tra il fare esperienza ed il pensare. Detto così può sembrare banale ma, secondo Salmann, rispetto al cristianesimo e non solo, è una delle questioni più drammatiche perché è il problema chiave in cui siamo immersi quasi senza saperlo, essendosi spezzato il rapporto tra l’esperienza di una cosa che noi facciamo ed il pensare sia l’esperienza, sia quella cosa, sia in generale.

Mentre un tempo, fino al medioevo, esisteva tra di esse un circuito che passava nell’esperienza attraverso le cose, cioè si imparava nel modo in cui si viveva, nel modo in cui esistevano rapporti con gli altri ed a tutti risultava abbastanza chiaro, ora, quel circuito ha incominciato, apparentemente senza scosse, dapprima ad incrinarsi, poi è andato in pezzi e noi saremmo al fondo della rottura. Ciò è particolarmente grave per l’esperienza religiosa perché in essa il legame tra i due aspetti è molto delicato.

Esattamente come per gli amori: non esiste la possibilità di vivere un amore se non in prima persona e come esperienza significativa, non per procura, non per delega o in modi distaccati. Non esiste un amore tranquillo, equilibrato, sereno; esistono tempi in un rapporto che possono trovare tranquillità, ma un amore, per sua definizione, ha comunque una componente di tensione. Contemporaneamente, un amore, (che senza la componente di passionalità non c’è), se non è pensato, progettato, elaborato, detto, costruito, non dura. E’ la distinzione che comunemente si fa tra una passione ed un amore come una storia.

La religione, le fedi, quella cristiana in particolare, funzionano allo stesso modo: se non c’è un’esperienza in qualche modo possibile del mio rapporto con Dio, non succede nulla, non c’è la sostanza; ma allo stesso tempo, se non esiste un modo per riflettere, per condividerla con altri, renderla visibile in un’ordinarietà, darle continuità nel tempo, questa cosa fa una fiammata e poi si spegne oppure diventa supersentimentale o invasata, ma non resta cristianesimo. Il problema per il cristianesimo è assolutamente centrale e vale anche per molti aspetti della vita. Ad esempio, quando oggi si dice che gli adolescenti sanno tutto sugli amori e sulla sessualità ma non hanno un’educazione sentimentale e non sanno dove collocare ciò che sanno, perché queste cognizioni sono ognuna staccata per proprio conto, si dice la stessa cosa rispetto alla capacità di relazione, di rapporto affettivo con le persone.

Questo è il nodo su cui Salmann ragiona ed il perché viene intervistato dal giornalista.

Nella prima risposta egli esprime una definizione di esperienza mistica ed una definizione di pensare. Quando diciamo fare esperienza di Dio, ossia l’esperienza mistica, che cosa dovremmo intendere?

Salmann risponde: “dover e poter definire e comprendere se stessi come intimità toccata e illuminata da parte del fondo e dell’orizzonte del proprio pensare, amare ed essere…”.

L’esperienza mistica non è tanto definire Dio (ho avuto una visione, una rivelazione),quanto la capacità di ridefinire se stessi come un’intimità toccata e illuminata, cioè come una relazione profonda da parte del fondo e dell’orizzonte del proprio pensare amare ed essere, ossia come un’intimità con qualcosa che è insieme il più profondo di noi e l’orizzonte, quello che sta fuori, verso cui andiamo, l’obiettivo del proprio pensare, amare ed essere.

Ho ripreso il discorso dell’ultima volta e ribadisco che questa è una definizione bellissima. Se coloro che si ritengono credenti riuscissero a pensare la propria fede in questi termini, già si sarebbe fatto un passo avanti. Voglio dire che, se ogni volta in cui uno dice “esperienza di Dio” pensasse che c’è un Dio, che sta lì, è uno, un signor Dio, pur con tutti i problemi esistenti di fronte ad ogni alterità, (come lo penso, come è fatto), allora il rapporto acquisterebbe senso, anche se è diverso da quello che è con gli altri che frequento, che un po’ conosco e, almeno approssimativamente, sono in grado di prevedere come reagiscono, mentre con Dio non sappiamo alcunché, perché nessuno ci spiega mai che cosa gli piace, se è contento oppure no. Tutti facciamo finta che questa cosa sia chiara mentre in realtà non lo è affatto.

Salmann dice che il problema di fare esperienza di Dio sarebbe:

  • “dovere”: non poter fare a meno di qualcosa che, in una certa misura non scelgo perché mi trovo nella condizione di dire “è così”, non posso pensare in altro modo;
  • “potere”: essere in grado di definire se stessi come intimità toccata, cioè come un luogo in cui non sono solo e non sono tutto lì.

Però non è definire Dio, sapere come è fatto, cosa pensa, ma, cosa ben più complicata, dovere e poter definire se stessi come un luogo profondo in cui, tutto sommato non sono solo perché, in qualche modo, il più profondo di me, quello che abitualmente chiamiamo coscienza e di cui ciascuno, a vari livelli della propria vita fa esperienza, coincide con l’orizzonte ultimo, con il desiderio per ciò verso cui siamo orientati.

Biograficamente, quando siamo giovani, è molto più forte il profondo di noi, il dire “io penso, io voglio, io so, io credo, io lotto”, poi, in genere, più passano gli anni, più la prendiamo bassa perché abbiamo fatto l’esperienza di combattere e sperimentare che magari, con le migliori intenzioni, non siamo arrivati da nessuna parte. A vent’anni pensiamo che tutto sia possibile, poi, con l’età, cresce la dimensione dell’orizzonte e ci torna sempre più visibile il pensare che ci sarà comunque un giorno in cui, al di là della nostra buona volontà, ci dovremo specchiare in ciò che è stato, che non sarà più cambiabile e ci piacerebbe esserne contenti senza troppi rimpianti.

Allora l’esperienza di Dio sarebbe “dovere e potere definire sé”, sentire di se stessi, sapere di sé, essere in grado di dirlo, non necessariamente a parole, ma di agirlo nella propria vita come un luogo in cui non si è soli nella tensione tra il proprio fondo ed il proprio orizzonte. Tutto sommato vivere secondo queste indicazioni sarebbe essere credenti. Poi ci sono tutte le visibilità, le forme, le norme, la chiesa che, in qualche modo, aiutano, sostengono questo percorso complicato. Non tutti i giorni della nostra vita abbiamo coraggio abbastanza per tenere insieme i pezzi perché in ogni giorno dell’esistenza non abbiamo sempre a disposizione tutto il fiato che serve, tutta la lucidità per capire le cose concrete.

Il cristianesimo, sotto l’aspetto della sua visibilità, sarebbe ciò che normalmente si chiama la pastorale; dovrebbe essere un luogo in cui, senza bisogno di dover sempre affrontare ragionamenti intellettuali, siamo aiutati ad avere l’energia necessaria per vivere in questo modo senza che, necessariamente, il discorso sia un tema e, come in una famiglia, gli atteggiamenti che gli uni hanno reciprocamente verso gli altri non hanno bisogno di essere spiegati perché se emergesse tale bisogno vorrebbe dire che qualcosa non funziona.

Le chiese dovrebbero essere luoghi dove questo accade attraverso le cose che si fanno: leggere la Scrittura, vivere i sacramenti, la carità e dialogare tra di noi. Ma la crisi è così profonda che noi abbiamo bisogno di una quantità di parole per spiegare cosa dovrebbe accadere perché ci pare che ciò che facciamo sia un’altra cosa.

“Nell’intimo della nostra solitudine non apparteniamo solo a noi stessi, ma siamo già “posseduti” e condizionati da tanti presupposti che il mistico realizza immediatamente e che dovrà poi ri-flettere e mediare in un lungo cammino di inveramento esistentivo e teorico. E il pensare del filosofo non inizia da zero, non genera se stesso in modo assoluto; pensare ci risulta piuttosto un processo di realizzazione di se stessi e del mondo che implica un rapporto asimmetrico-passivo alle condizioni fondanti dell’essere, conoscere e amare in mezzo ad una pur così grande relazione critica e feconda della coscienza a se stessa e al mondo”.

L’altro movimento fondamentale della nostra esistenza è il processo di realizzazione di noi stessi nel mondo. Pensare non è un’attività astratta. Pensare è realizzare e presuppone: progettare, fare, decidere, scegliere tutto quello che compete a noi come esseri umani. Abbiamo una vita, ci sono gli altri, un mondo; pensiamo, capiamo, dialoghiamo.

Ma tutto ciò implica un “rapporto asimmetrico-passivo”, senza delirio di onnipotenza, sapendo che ognuno di noi non è l’inizio, né il solo, sia rispetto a sé, sia rispetto agli altri, ai problemi o alle cose, sapendo, nei fatti, che riceve condizioni, culture, possibilità. Ognuno è passivo e ricevere non significa che possa fare solo ciò che riceve. La libertà individuale, la capacità di essere soggetto ha una potenza critica e feconda.

In tre passaggi Salmann dice:

  1. pensare sarebbe la realizzazione di me stesso nel mondo;
  2. alle condizioni che mi vengono date: non sono il primo (allora sono il frutto meccanico di ciò che c’è stato prima di me?);
  3. in una relazione feconda e critica con la mia coscienza.

Perciò l’esperienza mistica, come esperienza di Dio, ed il pensare, come l’azione soggettiva di ciò che mi compete e misuro, di ciò che non sfugge alla mia possibilità, sono gli assi portanti della nostra esistenza. Questo è assolutamente vero: noi stiamo sempre fra il dilemma della solitudine (chi mi ama?) ed il dilemma dell’impotenza (cosa sono, faccio, produco?). Sono le due grandi questioni che, molto spesso, nell’esistenza degli uomini di questo secolo, vanno a cozzare l’una contro l’altra: più uno è potente, più è solo; più uno accudisce la relazione, più ne paga il prezzo.

Ci sarebbe la docilità allo Spirito in cui uno ha totalmente la responsabilità di sé, della propria realizzazione. Ma “totalmente” significa anche “realisticamente”, sapendo di non essere il primo e di non potersi creare da solo né il proprio fondo né il proprio orizzonte, la cui tensione fa da arco al ponte su cui cammina. Tra il proprio fondo ed il proprio orizzonte c’è un’arcata, noi camminiamo e la realizzazione di noi e del mondo si fa in quanto stiamo su questo ponte.

Commento

Diventa allucinante!

No, forse ci deve essere solo un modo più facile per dirlo. Faccio un esempio anatomico. Ciascuno di noi respira e digerisce senza pensarci, senza sapere, ma se ci mettiamo a studiare la nostra anatomia, incontriamo grandi difficoltà perché siamo macchine complicate che, quando funzionano bene paiono semplici, ma quando non funzionano procurano innumerevoli problemi. Qui è la stessa cosa. L’organismo del cristianesimo è profondamente malato dopo la modernità e tutte le sue azioni vitali sono fuori misura, quindi bisogna pensare di smontare tutto il meccanismo perché fino a quando funzionava non se ne sentiva la necessità. Però tutto questo, secondo me, è un kairos, un tempo di grazia, non una maledizione, ma è pur vero che noi viviamo in un tempo in cui il problema è dato a noi. Questi due secoli sono molto faticosi ma possono essere molto fecondi. Ci troviamo in una situazione totalmente nuova della cristianità in cui mai nessuno si era trovato prima. Ciò ha i suoi prezzi: una certa complicazione e fatica del vivere, un prezzo di continua incertezza, ma ha anche i suoi pregi.

Gli anni del Concilio e del post Concilio si potevano vivere solo a prezzo di accettare che questa fosse la situazione e forse è una bella cosa averli vissuti, però secondo me, come molte delle cose serie della vita, è più difficile dirle che viverle quando funzionano, ma è molto più difficile curarle quando non funzionano. Ed è il motivo per cui si fa così fatica a cambiare gli stili di chiesa: per poterli cambiare radicalmente occorre fare un discorso talmente difficile che non si comincia nemmeno.

Intervento

Sentendo prima parlare dell’esperienza mistica mi è venuto spontaneo il collegamento tra il peccato originale ed il senso del peccato che avevamo affrontato alcuni anni fa. Avevamo visto il peccato come il vivere al di sotto della soglia della propria felicità possibile e mi è sembrato che, se vivi al di sotto di questa coscienza, di un’intimità toccata ed illuminata da parte del fondo ed orizzonte, non realizzi te stesso e non sei felice.

Sì, il ragionamento è sostanzialmente questo. Bisognerebbe soltanto intendersi sul “sei felice”. Quella definizione di peccato era data rispetto ad una definizione di credente di questo genere e poi qui formulata in modo ancora più completo di quanto io sia riuscita a formularla prima.

Riprendiamo l’intervista.

Parrebbe che né mistica né filosofia riescano ad essere soddisfatte ciascuna in se stessa e neppure nel loro reciproco rapporto, e che la realtà essenziale a cui entrambe mirano le istituisca, ad un tempo, come attingimento e fallimento nei suoi propri confronti. Quale nome può essere dato a questa realtà che tanto alla mistica quanto alla filosofia si annuncia, ma a nessuna completamente si dà? E quali sono, rispetto ad essa, i modo peculiari dell’attingimento e del fallimento propri della mistica e della filosofia?

“La coscienza filosofica e la coscienza mistica presuppongono e riflettono prima di tutto un affetto, un’intuizione di fondo, un’illuminazione che si impongono loro, conferendo ad esse un proprio carattere specifico. Senza una tale “ispirazione” liberante e necessitante, un ché nel quale coincidono per un attimo orizzonte e realtà, parola e res di una causa con cui il pensiero dovrà cimentarsi, non nascerà un pensiero grande. Lo svolgersi delle opere di un Anselmo, Kant o Hegel si deve a una tale spinta che non dà tregua finche non sia esplicitata e inverata. Perciò non c’è pensiero che non fallisca nel momento culminante del suo compimento, che non si ritorca contro se stesso, che non debba rendersi conto del non-detto, di un indicibile che pare come la molla di tutto il suo cammino. Mistica e filosofia devono realizzare i loro presupposti senza poterli mai tematizzare del tutto”.

L’intervistatore osserva:”Se prendiamo per buone queste due definizioni appare evidente che la mistica si pensa in relazione a qualcosa (fondo ed orizzonte) che però non è interno, ma esterno a lei; che la filosofia, rispetto alla realizzazione di se stessi nel mondo, si pensa rispetto a qualcosa che è un suo esterno e non interno a lei”

Portiamo l’esempio degli amori che funziona meglio. Uno non può innamorarsi senza l’altro perché l’innamoramento si definisce in relazione all’oggetto di amore che io non posso darmi da solo perché o l’altro entra nel gioco ed allora tutto diventa reale, oppure se l’altro non aderisce, la tensione rimane solo nel mio pensiero, nel mio desiderio. E il dramma per cui si vivono molti amori infelici è dato dal fatto che l’amore si riferisce a qualcosa che non sta dentro a se stesso, mentre invece ad esempio la conoscenza, lo studio di una materia, si definisce in rapporto a qualcosa che sta dentro a se stessa, dunque, studiando, prima o poi, da qualche parte si va. Gli amori, come molte cose serie della vita, hanno il dramma di ricevere la propria compiutezza da qualcosa che non sta in loro.

L’intervistatore interloquisce: “Mistica e filosofia sembrano qui definite come un amore, cioè come cose riferite ad un oggetto che non sta dentro di loro e che, quindi contemporaneamente, da un lato attingono a questo oggetto ma dall’altro sperimentano anche il loro fallimento, cioè di non essere sufficienti”. La domanda perciò è :”Quale nome può essere dato a questa realtà, cos’è quest’altra cosa che non sta dentro né alla mistica, né alla filosofia ma a cui entrambe si riferiscono?

Salmann risponde: ” Tutto”.

Con la risposta Salmann in realtà non risponde ma dice: “E’ vero, è così”, questa cosa può essere chiamata un’intuizione, un’illuminazione, ed è chiaro che dietro le parole c’è il pensiero tipicamente cristiano, molto sottovalutato oggi, della Rivelazione, del fatto che la Bibbia è un sapere profondo del vivere come esseri umani che ci viene proposto come dato da altrove, non semplicemente come il frutto della riflessione, dello studio e quindi non sta sbilanciato, non ha la forma del saggio sul piano del pensare, ma è, insieme, il pensare e l’esperienza che si è fatta. E noi, quando la chiesa insegna che la Bibbia è ispirata dallo Spirito Santo e la Rivelazione è parola di Dio, diciamo: non c’è soltanto il pensiero degli ebrei che l’hanno scritta, ma qualcosa che arriva da altrove e ci raggiunge come un inedito, un nuovo e, paradossalmente, quando ci raggiunge, noi lo riconosciamo come un nostro e non un estraneo. Come un abito nuovo che ci dà la sensazione di averlo da sempre indossato. Nell’esperienza cristiana, la Rivelazione, la parola di Dio, ci vengono proposte come qualcosa che arriva da altrove, da Dio appunto, ma come qualcosa che, nel momento in cui ci arriva, ci stiamo dentro come in una cosa nostra.

Rispetto a questa dinamica, pensiamo a come il cristianesimo, con il moralismo, il devozionismo dell’ottocento, è stato trasformato in elenchi di norme che lo hanno portato al massimo si estraneità, a qualcosa che, con molta chiarezza, veniva da fuori ma attraverso proibizioni, regole, norme. Il Concilio Vaticano II ha ribaltato tutto ciò e noi oggi, quando leggiamo la parola di Dio, abbiamo la sensazione di sentirci un po’ più a casa, di sentire che questa parola ci piega a noi stessi. Ma il risultato è che andiamo sempre più verso il versante opposto per cui tutto è talmente nostro da condurci al rischio di dimenticare che viene da altrove mentre si diffonde l’idea che Dio sarebbe nel profondo della nostra coscienza. Certamente è difficile mantenere l’equilibrio tra una cosa che viene da fuori ma è nostra e non ci è estranea.

Salmann dice:”E’ qualcosa che ci viene da fuori perché se così non fosse non ci sarebbe nulla di grande, ma con un nostro riconoscibile, non come un’estraneità. Per questo non c’è pensiero che non fallisca perché se tu riconosci come tuo ciò che viene da fuori, hai la misura del tuo limite”.

Esempio. Mediamente noi siamo abituati a pensare che più siamo bravi meno siamo soggetti a fallire. La nostra logica è quella un po’ mercantilistica della scuola: se faccio giusto mi danno dieci, se no vuol dire che ho sbagliato. Ma il cristianesimo, come gli amori, non funziona in questo modo. Gli amori, funzionano, a volte, che, poiché uno sbaglia, è più amabile, mentre, se è sempre perfetto, diventa insopportabile. E’ vero che un rapporto può crescere molto di più attorno ad un errore che ad una mirabilia, perché un amore è un luogo dove tu sei posto di fronte al tuo dipendere dall’altro, non sei più tu che governi e dunque sei messo nella condizione di dover attendere dall’altro il perdono o una nuova accettazione, ma ti impegni molto di più a convincere l’altro che vale la pena, nonostante tutto, di riconciliarsi. Quindi sei molto più creativo, più fecondo. Quando pensi invece di avere solo dei diritti sei molto più esigente e più rigido.

Allora, se noi siamo nella logica per cui tutto viene da fuori come un nostro, non come un estraneo, inevitabilmente ciò che sperimentiamo è il fallimento. Ogni volta in cui tentiamo di governare totalmente noi stessi ci inguaiamo; ogni volta in cui siamo docili alla forza che viene da altrove, scopriamo una parte di noi che non sapevamo di avere.

Per questo, l’ho già detto più volte, la Salvezza, tradotta in termini moderni, sarebbe essere certi di quella parola che dice: tu non sei tutto lì. L’esperienza della Salvezza, la buona notizia è: tu non sei solo ciò che sai di te.

Commento

Allora, dal punto di vista della fede, poiché viviamo in un rapporto d’amore, sarebbe l’errore ad aver attirato l’amore di Dio.

Questo l’ha già detto Agostino parlando del peccato originale :”Felice colpa che ci meritò tanto Salvatore”. E’ un’idea antica del cristianesimo. Ma qui il problema è ancora più grande, non è solo dire che l’errore moltiplica l’amore di Dio. Questo per un credente è l’esperienza quotidiana; basta pensare alle parabole: la pecorella smarrita, l’operaio dell’ultima ora, il padre misericordioso, il fatto che siano sempre i secondogeniti a vincere sui primogeniti nonostante tutti i diritti……. Qui viene detto in un linguaggio non religioso, ma che noi oggi comprendiamo profondamente ed è quello della vittoria e del fallimento. Sul detto evangelico:”Se uno ti dà uno schiaffo tu porgigli l’altra guancia”, noi concordiamo in teoria, ma in pratica diciamo che è una metafora perché in realtà non sarebbe così. Sosteniamo che il nostro errore attira l’amore di Dio, ma se poi uno si sente un fallito non va bene. Ne facciamo due questioni diverse. Salmann invece qui dimostra come le due questioni siano in realtà la stessa, una sola. Credo che il tema del fallimento vada approfondito anche perché, per motivi culturali, abbiamo il culto della vittoria, del vincitore: una delle cose che impariamo in modo anche non cosciente è che valiamo per quanto vinciamo.

Commento

Se è un amore, non dovresti sentire il fallimento. E tu senti che non lo è.

In realtà non ci sono amori senza fallimenti ed un amore non cresce se non ha in parte dei fallimenti. E quando ci sei dentro, eccome lo senti! Dopo, con molta calma, quando tutto si è assestato, dici: “Però mi, oppure ci, è servito tanto”, ma solo dopo, perché durante, hai la netta sensazione che tutto stia andando a catafascio. Poi, se tieni duro e riesci ad entrare nella logica, ti accorgi che è stato un passaggio fondamentale. Ma solo dopo. La stessa cosa succede quando stiamo male, quando sperimentiamo la nostra impotenza a vari livelli: non poter fare le cose, non poter governare, non poter sapere che cosa accadrà, quindi con tutta la nostra ansia, la nostra insicurezza che ci fa dire: che cosa farò, come farò?.

In questo senso è fallimento, è l’esperienza che nella nostra cultura si vede come fallimentare ed è come uno spossessamento del governo del proprio presente, del proprio futuro: non poter sapere, organizzare, garantire, impegnarsi.

“Mi sforzo di far congiungere quel che vi è di divino in me con quel che vi è di divino nel tutto”, si legge in Plotino. “Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente”, ha scritto san Giovanni della Croce. Di là dal significato specifico che queste espressioni hanno presso i loro autori, verrebbe da osservare – anche solo da un punto di vista linguistico- che qui un filosofo si esprime in termini che potremmo attenderci da un santo, e un santo si esprime in termini che immagineremmo di trovare presso un filosofo. Che cos’è questa “inversione dei valori del linguaggio?

“Riflettendo su quello sfondo passivo e passionevole-appassionato della propria esperienza, il filosofo e il mistico non potranno non confessare la loro umiltà nei confronti dell’evento che li ha indotti a intraprendere il loro cammino, senza pure dimenticare o rimuovere la grandezza esaltante del loro compito, l’orgoglio di dover e poter pensare le condizioni del vivere e conoscere”.

Questi due aspetti, secondo me, sono fondamentali. Ciascuno di noi non potrà mai dire fino in fondo perché è ciò che è. Possiamo fare un lungo elenco: dall’educazione alla famiglia in cui siamo nati, alle persone che abbiamo incontrato, alle scelte fatte, però ognuno di noi sa benissimo che nella sua vita ci sono stati innumerevoli bivi in cui in realtà non c’è un motivo identificabile che possa attribuire totalmente a noi il fatto di essere andati da una parte piuttosto che da un’altra. Naturalmente poi diciamo che nella vita ci vuole anche un po’ di fortuna e, se siamo contenti di noi, aggiungiamo che ci è andata anche abbastanza bene nonostante guai e fatica.

Salmann dice:”Non potranno non confessare la loro umiltà nei confronti dell’evento…..”. Nessuno di noi che sia onesto è in grado di dire che si è fatto da solo, anzi ognuno deve riconoscere il lungo elenco di fatti e persone alle quali dovrebbe andare il suo ringraziamento. Nella mia esperienza penso alle persone cui non riuscirò mai a dire il mio grazie in quanto il rapporto non è stato così esplicito, ma casuale, con intrecci strani; però nel mio cuore penserò a loro come a persone cui devo molto anche se loro non lo sapranno mai e forse non avevano alcuna intenzione di orientarmi.

“senza pure dimenticare [….] l’orgoglio di dover e poter pensare le condizioni del vivere e conoscere”.

Noi siamo queste due cose insieme: l’umiltà di non possedere l’evento che ci ha messi in movimento (nessuno di noi è nato per propria volontà né morirà governando se stesso), ma, contemporaneamente, tra i due misteri che sonno l’inizio e la fine della nostra vita, ci siamo noi con l’orgoglio di dover e poter pensare le condizioni del vivere e del conoscere. E non è poco, e non abbiamo altro.

“Commoventi le prefazioni di Wittgenstein alle sue opere, il modo come Kant deve sempre più tener conto di temi che di per sé esulerebbero dall’ambito del suo pensare (e del suo gusto), la malinconia che a volte infesta un pensatore assoluto come Hegel. E non è casual e che ci sono tanti incroci e rapporti di saluto, tante strutture parallele nella fecondità e nel fervore autocritico tra illuminismo e mistica: pensiamo a nomu come Malabranche e Fénelon, al procedere “Kantiano”della “Salita al monte Carmelo” di Giovanni della Croce e al retroterra pietistico di Kant………”

Salmann porta tre esempi classici per dire come persone, gente che ha fatto il filosofo di professione, nelle prefazioni o nella scelta dei temi o nella malinconia, mostrano il pezzo che loro manca, cioè l’evento che non possono possedere. E non è assolutamente un caso quello dei legami e rapporti di strutture parallele tra il massimo del pensiero e il massimo della mistica. Attualmente sto leggendo pagine di Giovanni della Croce e constato come sia assolutamente vero che il suo modo di ragionare me lo farebbe pensare come discepolo di Kant. Queste due strade indagano talmente lo stesso tema che entrambe fanno la stessa operazione: riconoscono un evento che li ha fondati nonostante loro stessi e riconoscono che la loro responsabilità è grandissima in quanto spetta a loro fare quello che spetta loro.

Le due operazioni dell’esperienza e del pensiero hanno alla loro radice un evento che ci sfugge ed una realtà che è totalmente nostra. Il problema sta nel tenere insieme le due cose:

  • rimanere abbastanza umili da sapere che non ci siamo messi in moto da soli e dunque c’è un fallimento inevitabile che non è un fallimento, ma l’esperienza del limite del nostro mistero;
  • rimanere abbastanza orgogliosi da sapere che ciò che ci spetta, spetta a noi e non c’è alternativa.

Trovo tutto questo veramente notevole.