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Cristianesimo e modernità (III)

Gruppo del venerdì
Gennaio 2004

La domanda a cui eravamo giunti la volta scorsa era la seguente:

“Una sezione del programma di studi che lei dirige è dedicata ad un’esplorazione del rapporto tra filosofia e mistica nella letteratura e nella psicologia. Può disegnarci, anche solo sommariamente, un affresco di temi, motivi e volti che concretizzano ed esemplificano questi rapporti?”.

La risposta è un po’ un elenco, non particolarmente significativo per noi, di nomi e di temi. A me interessa piuttosto fermarmi con voi sul perché proprio letteratura e psicologia, perché questa è una questione abbastanza tipica ed interessante della modernità.

Uno dei maggiori problemi che noi abbiamo in questo momento riguardo all’esperienza del religioso, è quello di trovare un linguaggio adeguato, perché, tecnicamente, nella modernità, tutto il nostro linguaggio è diventato performativo, cioè linguaggio che ha lo stesso statuto della scienza. Sono nati i linguaggi specialistici ed ognuno presuppone di dare una descrizione del reale, con maggiore o minore tasso di approssimazione, ed i linguaggi affermano: gli slogan, la pubblicità, sono in genere affermazioni (per questo si chiama performativo).

Da uno studio recente sui linguaggi emerge che scompaiono tutte le forme discorsive non affermative e sempre meno si usano domande ipotetiche o frasi dubitative. Si va sempre più verso asserzioni. Il linguaggio del religioso, come linguaggio del rapporto tra interiorità ed esteriorità, patisce la forma performativa perché sono pochissime le affermazioni che si possono fare in modo assertivo.

Tutti i linguaggi di relazione, compreso quello amoroso, non sopportano il linguaggio puramente performativo. Più uno fa affermazioni con un punto in fondo, (è così e basta), meno è dialogica e relazionale la situazione: puoi essere d’accordo o contrario di fronte ad una affermazione, ma ti poni in una situazione di distanza, di conflitto, rispetto all’altro.

Praticamente le uniche due forme di linguaggio non performativo rimaste nella modernità sono il linguaggio poetico-letterario ed il linguaggio psicologico. Quest’ultimo, in particolare, perché è di tipo terapeutico, sempre interlocutorio, più giocato sulla relazione che sul contenuto: il problema non è che cosa lo psichiatra ti dice, ma il fatto che tu parli, lui ti ascolta, fa risuonare in te delle cose, non è alla ricerca di una “verità”, di una soluzione, ma di un percorso. È un tipico linguaggio relazionale come quello letterario e poetico.

Allora è chiaro che, all’interno di questi studi su mistica e filosofia nell’orizzonte della  modernità, il rapporto privilegiato è con la letteratura e la psicologia, ma non tanto per i contenuti quanto per la loro forma linguistica, ossia per il modo in cui costruiscono il ragionamento.

Se noi dobbiamo convincere un cliente all’acquisto di un oggetto o se dobbiamo convincere la persona amata ad accettare una nostra idea, seguiamo due procedure molto diverse perché sono altri i tasti su cui giochiamo, cioè sono altre le corde che vogliamo far suonare: da una parte c’è un linguaggio dimostrativo per convincere che un prodotto è buono, il prezzo conveniente; dall’altra, essendo una situazione relazionale, il problema non è dimostrare che la mia idea è giusta ma tirare l’altro dalla mia parte a vedere le cose come le vedo io.

Il linguaggio della fede è di questo genere e noi, nella civiltà moderna, troviamo questa struttura di ragionamento soltanto più nella letteratura, nella poesia, nella psicanalisi ed in nessun’altra branca del sapere. Quindi in questo programma è abbastanza sviluppata la parte di risonanza con la letteratura.

Salmann dice:

“Non dovremmo dimenticare che la Bibbia stessa è un pezzo splendido di letteratura: si leggano soltanto i grandi racconti degli incontri tra Gesù e la samaritana, Nicodemo o la donna adultera nel Vangelo di Giovanni, le saghe di Saul, Giuseppe, Abramo nell’Antico Testamento. O si comparino i diversi esordi dei quattro vangeli che si correggono e completano a vicenda senza sfociare in una sintesi teorica o dogmatica”

Questo è il punto, non sfociano in un linguaggio performativo. Tutte le volte che qualcuno ha tentato di scrivere un vangelo unico a partire dai quattro, il risultato è stato molto più povero perché in realtà l’insieme dei quattro è come quattro colori diversi che danno un insieme cromatico.

“Per la letteratura si dovrebbe indagare sullo sfondo teorico di Dante o di Petrarca, sull’incrocio tra esperienza, poesia e teoria in Giovanni della Croce (l’unico poeta che abbia commentato tutte le sue poesie in chiave mistagogica e teologica; l’unico teologo che abbia espresso la sua esperienza e teologia in versi)”.

(Giovanni della Croce è attualmente uno dei mistici più studiati per questo motivo: è stato l’unico ad aver scritto poesie e, accanto, commentari teologici alle sue poesie tentando una sintesi retorica tra i due tipi di linguaggio).

“E come si potranno comprendere tanta letteratura del romanticismo tedesco, la pittura moderna (Kandinsky, Mondrian, Il cavaliere azzurro), la musica e pittura di Schönberg senza tener conto della mistica antroposofica ed ebraica? E cosa diremo della seconda parte del romanzo L’uomo senza qualità di Musil, del Gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dello sfondo mitologico dei grandi romanzi di Thomas Mann […]. In ogni caso assistiamo qui alla nascita enigmatica della nostra coscienza (notando il fatto che la coscienza si deve a una rinascita, ad una conversione, a un cammino traumatico e incantevole di autoscoperta), della nostra “concezione” del mondo. Del resto dobbiamo tener conto del carattere poetico-metaforico della storia e della struttura dei nostri concetti filosofici: Verbo, Spirito, e perfino del concetto di concetto…….”

Cosa dice Salmann qui? Dice praticamente: il problema è che, quello che a noi sembra uno dei concetti più normali della modernità, cioè il concetto di coscienza, (che vuol dire soggetto, individuo, con tutta la  ricaduta a grappolo sul piano politico, etico, filosofico, sociale), in realtà è:

  • un concetto solo moderno che nasce da un certo punto in poi nella civiltà occidentale;
  • un concetto assolutamente enigmatico, il meno chiaro dei concetti possibili.

Noi siamo abituati a leggerlo in termini razionalistici: la coscienza sarebbe la capacità razionale di sapere di sé, ma, quando si dice questa definizione, tutti incominciano a crearsi problemi, i casi limite che alla fine diventano talmente tanti da annullare la definizione. Esempio: se coscienza è capacità razionale di sapere di sé allora tutti i soggetti con un handicap psichico non sono persone. Oppure: se la coscienza è capacità di avere il sentimento della propria esistenza, allora chi è sotto i cinque anni non è persona in quanto non ha coscienza della propria esistenza come separata dal resto del mondo. Se provi a definire la coscienza, hai molte cose vere, ma hai pure molti casi limite che non entrano più nella definizione. La coscienza si può definire solo in termini psicanalitici o poetici perché non ha una definizione di ordine scientifico che sia onnicomprensiva.

Allora Salmann dice: “la nascita enigmatica della nostra coscienza (notando il fatto che la coscienza si deve a una rinascita, ad una conversione, a un cammino traumatico e incantevole di autoscoperta)”.

Quello che la poesia e la psicanalisi ci dicono in termini poetici o analitici, di storia di noi, è che noi alla coscienza arriviamo attraverso un percorso, ma non significa che, quando non vi arriviamo o non ci siamo ancora arrivati, non l’abbiamo, però non ci è ancora disponibile la coscienza che pure abbiamo. Un bambino che non ha coscienza di sé, pure ha una sua forma di coscienza e solo se uno è stato bambino poi può diventare adulto, separarsi dal mondo e ad un certo punto ha una coscienza in senso compiuto: sa di sé, sa di essere diverso dal mondo, di essere vivente, con limiti e pregi. Ma il processo è indistinguibile dal risultato, cioè non si ha il risultato se non si ha tutto il processo; anche quando la coscienza non ci è disponibile, non la possediamo in quanto a noi stessi, pure noi “l’abbiamo”, in un certo senso. E così siamo già persone.

La psicanalisi e la poesia ci mostrano che questo processo è fatto di traumi: non c’è un modo liscio di arrivare alla coscienza di sé, cioè senza separazioni, senza frustrazioni del desiderio, senza percezione del proprio limite.

Quando noi impariamo ad avere disponibile il sapere di noi?

Per dirla in termini psicologici, quando la realtà ci si impone dandoci un limite in cui noi ci configuriamo come un’identità separata, e non abbiamo più la sensazione di onnipotenza e di infinitezza. Tutte le frustrazioni ed i fallimenti ti danno una periferia e tu a quel punto ti individui, sai di te di essere “un” individuo. Ecco perché un cammino traumatico e incantevole di autoscoperta, perché sai di te, sai di essere un individuo, non un generico, un senza nome.

Questo è uno dei concetti base della strutturazione che l’occidente si è dato nella modernità ed è assolutamente non dicibile in termini assertivi.

 Infatti uno dei problemi che noi oggi abbiamo con le varie discussioni su bioetica, inizio e fine della vita è, inevitabilmente, che se tu devi dare una legislazione, devi usare un linguaggio assertivo. E, rispetto alla domanda: quando un io inizia o smette di essere io, non esiste linguaggio assertivo che tenga. Quindi, comunque, si decide, come società, un punto in modo convenzionale, in base a dei criteri che hanno una loro umanità, una loro logica ma perché siamo costretti a dare un’affermazione che in realtà, non potendo tener conto del percorso che non fa parte del linguaggio giuridico, non può che tagliare da una parte.

Allora, questo aspetto del rapporto con letteratura e psicanalisi, non è solo un esercizio estetico o di tipo culturale, ma è il tentativo di provare a ragionare se sia possibile recuperare altre forme di linguaggio che tengano conto di una maggiore totalità, proprio a partire dal tema della coscienza, tema non marginale ma focale della modernità che si distingue proprio per la concezione di soggetto, dell’idea che un individuo, individuato in sé in un’esistenza storica, ha coscienza di sé, dunque gode di diritti e doveri.

Il medioevo, ad esempio, non aveva questo concetto perché con il concetto di anima giocava in un altro modo: l’anima non è frutto di un processo, ti è data e ad un certo punto se ne va. Quindi pensarsi in relazione ad un’anima faceva sì che, ad esempio, S. Tommaso sostenesse che non esisteva alcun problema per l’aborto: poiché l’anima è infusa non alla concezione, ma ad un certo punto; fino a quel punto essa non c’è, quindi non c’è individuo. Ovviamente rendeva più semplice la soluzione di una serie di problemi; era un atto puntuale e come tale trasferibile in una situazione giuridica.

Intervento

In Inghilterra nel 1215 c’era l’habeas corpus, cioè ogni individuo ha dei diritti dal punto di vista giuridico.

Sì, certo, è chiaro che queste cose non nascono in un giorno, ma è l’epoca moderna che segna questa idea come generalizzata. Nel 1776 esisteva ancora il problema degli schiavi. È chiaro che l’arco di tempo tra la nascita di quest’idea e la sua assunzione come bene comune è lungo 500-600 anni. Abbiamo esempi di questa idea prima ed esempi di questa idea negata ancora molto dopo, però è la modernità che la porta a compimento e che, in fondo, si struttura intorno ad essa.

Tutto il problema che noi abbiamo rispetto a quello che, in modo generico, chiamiamo integralismo islamico, gira anche intorno a questa questione: noi non riusciamo ad immaginare come un individuo possa pensare che sia volontà di Dio il fatto che egli diventi un kamikaze, perché se l’idea è quella della coscienza, la mia coscienza ha un dovere di ragione superiore a qualsiasi legge, compresa un’eventuale legge divina che noi, in quel caso, giudicheremmo folle.

Riprendiamo:

“Vi sono dei teologi che, più e meno recentemente, si sono resi attenti al rapporto tra preghiera e poesia. Mentre in vari poeti del novecento il rapporto con il sacro – affermato o negato, celebrato o congedato – è sovente tema esplicito, presso alcuni teologi la poesia è vista come una realtà che di sua natura possiede una dimensione sacra e che, in certi casi, è in se stessa preghiera, di là dall’”oggetto” prossimo del canto. Quando, a suo parere, preghiera e poesia si identificano, e quando si differenziano?”.

 (Questa domanda ha senso nel ragionamento di prima, cioè la questione della differenza dei linguaggi).

 “L’attiguità tra poesia e preghiera è stata ribadita negli anni Venti del nostro secolo da Henri Bremond, uno dei massimi storici della storia della spiritualità del Seicento francese. Non si lasciano negare le analogie: lo sfondo di ispirazione, il nesso beato e tormentato tra esperienza e lingua, intimità ed espressione….”

Già queste tre caratteristiche sono bellissime: analogia tra poesia e preghiera sarebbero lo sfondo di ispirazione, cioè il fatto che nessuna delle due nasce da te in quanto te; nasce da te se sei abitato da qualcos’altro, da un’ispirazione. Nessuno di noi potrebbe pregare se non avesse almeno una vaga concezione dell’esistenza di un Dio, che non ci sia un’altra realtà oltre a sé di fronte alla quale tu puoi ispirare; e lo stesso per la poesia.

Intervento

Per la poesia ho qualche dubbio: penso che per la preghiera è un altro fuori di te, ma per la poesia sei tu che costruisci nella tua mente.

Quasi nessun poeta descrive così la propria capacità di poetare, nel senso che avere o no l’ispirazione non è una cosa che funziona a comando perché deve esserci quella spinta, quella realtà che non ti dai tu e non puoi decidere: adesso mi ispiro e scrivo. Non puoi schiacciare un interruttore ma devi attendere, accogliere l’ispirazione che, in questo senso, viene da altrove. La poesia vive di questa ispirazione ed anche la preghiera funziona così: ce l’hai dentro, non è che preghi solo nella chiesa o dove c’è una preghiera liturgica comune.

Intervento

Però Dio è altro da te!

Ma anche lì, Dio è altro da te. Nella tradizione cristiana più compiuta sì, ma in un senso generico rispetto alla preghiera ed anche nell’uso comune dei cristiani, quando diciamo la voce interna della coscienza, la contiguità tra questo altro da te e dentro di te è molto forte; infatti è uno dei temi critici della modernità. Il fondo di te e l’orizzonte di te: è un tema tipico di tutti i mistici che Dio si incontra nel più profondo di te, in un orizzonte di te. Il gioco interno/esterno è evidentemente uno dei problemi chiave dell’esperienza religiosa e di tutte le cosiddette esperienze trascendentali, esperienze che implicano qualcosa che tu non governi, come l’ispirazione artistica. Poi, che non siano la stessa cosa, sono assolutamente d’accordo, e anche Salmann. Però dice: tra le analogie c’è questa.

L’altra analogia è il nesso “beato e tormentato” tra esperienza e lingua. Sia la poesia che la preghiera hanno il problema beato e tormentato di trovare le parole per dirlo, cioè di avere le parole che dicano esattamente e profondamente quello che è, che uno sente.

E poi, il terzo, intimità ed espressione, il fatto che sia la preghiera, sia la poesia avrebbero la tentazione di chiudersi, di dire che è troppo personale, troppo segreto. Tutti i poeti scrivono però dicono che non vorrebbero pubblicare, ma allora perché scrivere se non perché gli altri leggano? Ma c’è un grande pudore. E lo stesso è per la preghiera: si prega ma si preferisce la forma segreta.

“Vi sono analogie che inducono Bremond (e Claudel) a creare una piccola metafisica dell’anima umana come fondo passivo della presenza del soffio spirituale e del Verbo divino che toccano l’intimo del cuore, dal quale si elevano anche la preghiera e il canto della liturgia.”.

Metafisica dell’anima umana, la capacità di dire qualcosa dell’animo umano in modo metafisico, cioè qualcosa che abbia valore universale, valga per tutte le anime degli esseri umani, indipendentemente dalla cultura, dalla condizione. L’ipotesi è che ci sarebbe un fondo passivo della presenza del soffio spirituale e del Verbo divino che toccano l’intimo del cuore.

Questa è una tesi comune a tutti i mistici: il più profondo di noi sarebbe un passivo, non un attivo, ma per l’occidente questo è molto difficile perché, partendo dalla coscienza, il tema connesso è responsabilità e quindi aspetto attivo.

Secondo questi autori e tutti i mistici, la nostra struttura più profonda, quello che sta sotto l’inconscio, è un dato passivo, un contenitore profondo, un recettore in cui, attraverso una miriade di filtri (la coscienza, le idee, la cultura, l’identità personale) passano solo alcune cose; molte le rifiutiamo del tutto, molte si fermano a livelli più esterni e poi c’è questo fondo passivo che, secondo i mistici, raccoglierebbe la presenza del soffio spirituale del Verbo divino. Come se tutta la nostra operazione per essere in relazione con Dio fosse semplicemente quella di riportare alla luce questo fondo passivo.

Se leggiamo gli scritti mistici di Teresa d’Avila e di Giovanni della Croce, i cosiddetti “cammini di perfezione”, cioè del come si fa a diventare santi, troviamo questo tema: essere più solamente il luogo che accoglie il soffio di Dio e non ha più nulla di suo, con tutta la complessità che ciò comporta.

E, secondo Salmann, poesia, preghiera, canto, tutte attività ispirate, nascerebbero da questo fondo più profondo.

“Forse si dovrebbe sviluppare un concetto più vasto di pietas, di quell’afflato di amore e di presenza di spirito che sta a monte e a valle di ogni atto umano degno di questo nome”.

Trovo questa frase molto interessante. Penso che nel dialogo, anche con chi non si riconosce in alcuna tradizione religiosa, bisognerebbe incominciare non dalle cose da fare: la pace, la carità, ma dalla pietas, cioè da questo elemento ulteriore che sta a monte ed a valle di ogni atto umano degno di questo nome. E questo è un aspetto che noi riconosciamo in modo quasi istintivo; riconosciamo sempre se una persona che fa un gesto di gentilezza, lo fa veramente o in modo falso. Abbiamo come un’antenna che ci fa percepire la capacità attenta di certe persone nella relazione con gli altri e la vediamo come un atto di pietas, ed è su questo che forse si potrebbe allargare il dialogo tra cristiani.

Intervento

Nei salmi, nel Cantico dei Cantici, questa dimensione è molto più marcata e realizzata che non nel Nuovo Testamento.

Nel Vecchio Testamento c’era una forma antica della pietas legata a dei temi molto funzionali, cioè ad una situazione di penuria, alla fatica del vivere materiale tipica dei mondi antichi: l’attenzione all’orfano, alla vedova, l’accoglienza dello straniero, l’ospitalità al pellegrino. Non esistevano alberghi, ognuno poteva essere pellegrino e quindi la legge dell’ospitalità salvaguardava tutti, ma non c’era una riflessione di questo genere. Nelle nostre civiltà occidentali noi non abbiamo più tale tema in quanto non esiste la necessità funzionale legata alla pericolosità del mondo. Forse bisognerebbe riscoprire una pietas che non nasce dalla penuria ma dalla gratuità, dalla comune condizione umana, dal fondo passivo che ci riguarda tutti come consonanza degli individui, come new global di un certo genere.

Gli unici ad aver sviluppato questi temi sono coloro che si sono occupati dei problemi legati all’ambiente, all’ecologia, perché legati in senso concreto al pianeta terra che, essendo l’unico di cui disponiamo, senza possibilità di duplicarlo, ma potendolo rovinare, pone l’urgenza di prestarvi attenzione tenendo conto delle leggi dell’interdipendenza attraverso le quali abbiamo scoperto la forte interconnessione ambientale per cui il battito d’ali della farfalla in Giappone può provocare un tornado in Brasile.

A me pare che in questa direzione noi dovremmo scoprire come ciò non riguardi soltanto le cose, l’ambito della penuria, ma proprio le relazioni, la capacità che Salmann chiama di “garbo”, di riguardo, senza sbraitamenti, anche se la necessità è quella di impartire un ordine secco. Eppure se non incominciamo da lì, da dove  partiamo?

Intervento

C’è una relazione con il concetto di misericordia?

La misericordia è molto di più, è molto più costruttiva, non legata solo al fondo passivo. È più ampia, è il tema del fare spazio. Questo invece è un minimo comune denominatore per una vita civile, una cosa che potrebbe essere scambiata e compresa da tutti gli esseri umani, anche da chi non si ritrova in alcuna referenza religiosa, in modo da non vivere al di sotto della propria umanità.

Intervento

Sarà da configurare con l’intelligenza emotiva? La cura della relazione è fondata su quello.

Potrebbe essere una dimensione, sicuramente. Infatti non è un caso che molte branche di studio in ambiti psicologici, (quindi non assertivi per loro stessa definizione e con il linguaggio e gli occhi capaci di andare a cercare), vadano ad occuparsi di queste questioni e non è un caso che oggi la ricerca di temi, ricette, soluzioni più o meno intelligenti, dai tarocchi a cose ben più serie, cerchi di dare una risposta alla domanda di ricomprensione di tutto questo spazio della vita molto forte

Intervento

Fino ad ora è stato lasciato un po’ a sé e si vuole riprendere in mano. È a causa della tecnologia?

Non so se è la tecnologia. C’è il problema che, a livello culturale generale, noi fatichiamo molto a tenere insieme dimensioni diverse. La convinzione del progresso, l’idea di uno sviluppo che sarebbe comunque andato avanti, ha un po’ dominato tutte le speranze, le tensioni. L’acquisizione della seconda metà del novecento pare invece aver definitivamente abbandonato l’idea del mondo come un orologio, cioè della nostra vita e della nostra esistenza che, tutto sommato, devono funzionare sia a livello privato, sia su quello generale.

Siamo tutti un po’ più coscienti, dopo la seconda guerra mondiale, che non è detto che le vite e la storia, funzionino: la caduta del muro di Berlino ha dato la botta definitiva nel senso che è sempre più difficile far retorica su un mondo perfetto da una parte ed un altro malvagio dall’altra. Siamo tutti nella stessa barca, non sappiamo bene verso quale modello andare, siamo tutti un po’ presi da un sano realismo; il modello che, tutto sommato, ha fatto meno danni è quello liberista e ci stiamo tutti abbastanza comodi. Non abbiamo più una grande direttrice, non ci sono più confini e, dal punto di vista culturale, abbiamo perso l’individuazione e quindi abbiamo, giustamente, una grande domanda su spazi un po’ più liminali che sembrano meno chiari.

Intervento

C’è anche la convinzione che il progresso non ci ha portati a stare meglio dentro.

Sì, contemporaneamente con la convinzione che i soldi non fanno la felicità, figurarsi la miseria, perché l’utopia del ritorno all’indietro ha fatto anche lei la sua parte: miglioriamo la qualità dei rapporti, ma manteniamoci insieme quello che abbiamo. E c’è anche l’ambiguità di dire che siamo grati alle cose perché, in fondo, in Italia l’età media è molto migliorata, la mortalità infantile è alquanto diminuita, però l’allegria è anche molto diminuita e sorge un po’ il dubbio che siano in alternativa e non ci piace.

Intervento

Il fatto che la felicità sia diminuita è non sia raggiunta nonostante il progresso, sfata un mito moderno.

Il grande mito che è saltato ed unifica molti sottomiti, sarebbe proprio quello di pensare che la vita prima o poi funziona ed è solo questione di trovare i modi. Da questo punto di vista, almeno rispetto al cristianesimo, a me pare una buona notizia nel senso che uno deve prendere atto che la vita, di suo, di ontologico, un po’ funziona ed un po’ non funziona, ha il bene ed il male,  giorni felici e situazioni di grande dolore e separazione, come se fossimo nel tempo di Qoèlet. È chiaro che questa non è una sensazione particolarmente esaltante però, per alcuni versi, è più umana e per questo dicevo che quello della pietas dovrebbe essere un grande tema culturale del nostro tempo, al di là del discorso religioso; cioè la capacità di riprendere una misura meno onnipotente dell’esistenza, una misura più pacata quindi con il bene ed il male; la capacità di gioire di molte cose buone che scienza, tecnologia, cultura, globalizzazione ci danno, ma anche la capacità di non prenderle troppo sul serio.

Intervento

Dai missionari sentiamo dire, senza esaltazione della miseria, che i popoli poveri appena possono sono gioiosi, ben lontani dalle nostre tristezze e depressioni e sembrano affrontare con spirito diverso le loro difficoltà.

Tutti capiamo bene che, rispetto ai bambini, uno diventa adulto attraverso le frustrazioni e la fine di un delirio di onnipotenza; omologamente, un po’avviene rispetto alle culture. Negli ultimi due secoli, l’occidente ha attraversato un enorme delirio di onnipotenza adolescenziale, con la capacità di fare battaglie, di crearsi un nemico mortale o un amico del cuore, tipica degli adolescenti e con il delirio di onnipotenza che tutto era possibile. Forse ci stiamo svegliando da questa adolescenza avendo frustrato enormemente il delirio di onnipotenza in cui uno scopre che, aver avuto un’adolescenza felice, con genitori che gli hanno dato molte opportunità, non basta ancora per essere protetto dalle sofferenze della vita e che non tutto è possibile. Forse questa depressione culturale è anche un grande kairos.

Trovo che tutti noi abbiamo vissuto con un certo smacco la caduta delle ideologie e la fine di un certo pathos, anche di impegno, normale aver avuto una fase un po’ depressa, ma forse è anche un kairos ed il tema della pietas  potrebbe essere stimolante.

Il rapporto religione – cultura versa in condizioni assai problematiche. Addirittura un’autorevole istituzione come la Compagnia di Gesù ha affermato, nei testi della sua ultima Congregazione generale: «Nella cultura postmoderna la spiritualità umana appare staccata da un’espressione esplicitamente religiosa. La vita spirituale delle persone non è morta: semplicemente sta prendendo posto fuori della Chiesa». E ancora: «Non possiamo parlare agli altri se il linguaggio religioso che usiamo è completatamene estraneo a loro: la teologia che usiamo nel nostro ministero non può ignorare l’orizzonte delle questioni critiche moderne, entro il quale noi pure viviamo». Ritiene che la teologia e in generale la chiesa di questo tempo si muovano all’altezza di queste esigenze e in sintonia con esse?”.

Per nulla. E forse sarebbe anche una richiesta troppo esigente, dato lo strappo tra la vita quotidiana di tutti noi e il paesaggio dei misteri che ormai ci appaiono come una landa remota, una sovrastruttura che non incide più sul vissuto. Occorrerà probabilmente una sinergia tra mistica, dogmatica, teologia fondamentale per descrivere la nascita e la morte, la vita umana come evento simbolico, come luogo della genesi di una coscienza credente capace di affidarsi all’affidabilità di quel mistero che osiamo chiamare Dio. Una tale fenomenologia precisa del vissuto e una rilettura dei misteri cristiani in grado di coglierli e metterli in luce come motivi di una vita degna di questo nome ci manca ancora”.

Mi pare che questa sia veramente la questione centrale. Noi abbiamo un linguaggio religioso che dà per scontato che questo “paesaggio dei misteri” sia il luogo dove ci muoviamo ancora. Invece, semplicemente, non è più così e bisognerebbe ritrovare un linguaggio in cui la fenomenologia delle relazioni umane (come funziona tra amici o tra innamorati) ci aiuti a capire il nesso con il mistero della affidabilità di Dio. E bisognerebbe riuscire a dire tutto il cristianesimo in questo modo, cioè con un linguaggio che parta dal modo più pensoso che abbiamo di capire noi stessi.

Il problema qui è duplice: da una parte in questa civiltà il mistero ed il linguaggio religioso sono andati per conto loro; dall’altra noi non abbiamo più un modo pensoso per dire noi stessi.  Nella nostra vita normale, corrente, molto spesso non abbiamo nemmeno più la capacità di un linguaggio pensoso su ciò che ci accade, su come funzionano realmente le relazioni e su cosa succede davvero quando ci amiamo, ci odiamo, ci separiamo, ci incontriamo. Non abbiamo una capacità di dire a noi stessi, di dire come funzionano i pezzi fondamentali della nostra vita. Già è abbastanza raro in questo tempo trovare adulti che, per mille motivi della loro vita, della loro biografia, delle loro frequentazioni, abbiano elaborato una competenza sui movimenti profondi di loro stessi e non si sentano semplicemente infuriati per qualcosa o in diritto di risarcimenti dal mondo intero.

Dunque non si può usare la fenomenologia della propria vita per dire il cristianesimo perché spesso le persone non hanno nemmeno la fenomenologia della propria vita. Ad esempio, sovente, dopo le lectio, molte persone mi dicono che non hanno capito tanto di più di Bibbia, ma hanno capito un po’di più il funzionamento delle relazioni riflettendo su una serie di elementi che venivano dati sul come funzionano i conflitti, i rapporti……

Questa è l’attrezzatura che un umano, adulto, nell’attuale complessità, dovrebbe più o meno possedere; invece per noi è come se vivessimo senza la minima coscienza dentro la nostra stessa vita.

Intervento

Tutto questo è frutto della nostra società?

Anche qui c’è la somma di diversi fattori. Un tempo questi comportamenti erano molto più standardizzati in quanto c’era un arco di possibilità molto minore: una brava ragazza che apparteneva ad un determinato ceto sociale, si sarebbe sposata con uno dello stesso livello e le aspettative su di lei erano che si adeguasse agli stereotipi. E tutti avevano chiaro che cosa socialmente significava una brava ragazza perché c’era una descrizione sociale di questi movimenti. Poi la descrizione sociale si è incrinata, quindi noi abbiamo un grande vantaggio di libertà, però contemporaneamente, non è nata un’educazione sentimentale, cioè luoghi, meccanismi familiari, educativi, scolastici, capaci di aiutare a spezzettare i movimenti non più stabiliti socialmente ma che in qualche modo si dovevano pur decifrare. Ormai è totalmente un caso fortuito: se per caso hai genitori molto eccezionali ed una storia particolare, arrivi ad essere adulto. Per questo i genitori hanno attualmente un sovraccarico folle di responsabilità perché in fondo sono lasciati soli di fronte ad un’educazione sentimentale, dell’intelligenza emotiva, dell’autocoscienza emotiva di sé.

A peggiorare la situazione si aggiunge il fatto che la nostra società offre un grandissimo accumulo  di informazioni che ci danno la sensazione di sapere tutto mentre non si sa nulla dei meccanismi vitali. Un bambino di oggi dispone di una marea di informazioni incomparabilmente superiore a qualsiasi bambino delle generazioni precedenti ma, in generale, la sua educazione sentimentale alla vita è un milionesimo

Un tempo il bambino cresceva in una famiglia allargata, con tanti bambini, ed aveva comunque un passaggio di educazione all’esistenza che oggi, nella famiglia nucleare, non si può riprendere, al di là di ogni buona intenzione. Sono cambiate alcune condizioni, ma il problema è che, senza l’educazione sentimentale, si cresce proprio male. La dimostrazione è che i ragazzi anticipano sempre di più i comportamenti adulti ma diventano adulti sempre più tardi perché mettono in atto le informazioni immediatamente senza avere un supporto educativo. Attualmente si incrociano adolescenti esteticamente conciate da adulte ma che, quando aprono bocca, sembrano bambine oppure fanno gesti inconsulti come se fossero capricci tipici dell’età di tre anni perché è inesistente il controllo della propria rabbia e questo è molto diffuso a tutti i livelli di comportamento. Manca la capacità di governo non solo delle cose, ma dei movimenti della propria vita, che nessuno può darsi da solo perché è come la minestra di casa (come si fa la minestra? Come l’ha sempre fatta la mamma) 

C’è qualcosa che non funziona. E questo è un dato molto preoccupante.

Allora un nuovo linguaggio religioso capace di portare il mistero dell’affidabilità di Dio nella nostra vita, non può non fondarsi sulla descrizione dei nostri movimenti profondi in cui noi siamo totalmente analfabeti. Abbiamo un doppio analfabetismo: quello su di noi e quello sull’affidabilità di Dio. Trovo verissima questa constatazione.

Intervento

Tutta la logica del passato non serve, anche se continuiamo a ripetercela. Nei migliori dei casi si mettono le informazioni tutte sullo stesso piano con la presunzione di governare i comportamenti e le emozioni, come se le informazioni bastassero. I genitori sono molto più soli rispetto a ieri.

Certamente lo standard attuale rispetto all’ignoranza totale, con il diritto assoluto di essere ignoranti della gestione delle proprie emozioni, soprattutto da parte dei ragazzi, è fortissimo. C’è una giustificazione perenne e non dipende soltanto dall’educazione dei genitori.

Intervento

Noi siamo cresciuti in un certo modo perché comunque in casa abbiamo avuto l’educazione.

No, non è vero, è proprio cambiata la situazione. Certamente il carico educativo di un genitore, anche con le migliori intenzioni, è oggi terribile. Dovrebbe ricostruire il tutto dell’educazione di un figlio: educazione sentimentale, civica ….. praticamente da solo.

“Karl Rahner ha scritto che il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà affatto. Come può essere inteso, a suo avviso, questo giudizio che ha tutto il tono di una severa premonizione? Come può risultare significativo il cristianesimo nell’età del disincanto e del tramonto di ogni certezza? Cosa può consentirgli di non diventare un’ideologia e di non irrigidirsi nella sclerosi di definizioni e formule?”

“Penso che Rahner abbia colto nel segno. Nell’occidente, il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità. E la gente comune non riesce più a comprendere la vita come dono e obbligo, non sa confessarsi dipendente da un’altra istanza, rimuove i misteri della nascita, della provenienza (della paternità e della figliolanza) e per questo forse non sa più accettare la sua contingenza, la malattia, la vecchiaia, la passività, l’ozio, la morte, una vita oltre l’orizzonte dell’attuale. E ci vorranno forse la vulnerabilità e il coraggio del mistico per riscoprire queste esperienze di fondo che in altri tempi hanno illuminato e accalorato il cuore e il pensiero umano, e di cui a lungo andare non si vede come si possa fare a meno. I (relativamente) pochi cristiani saranno, semmai, un fermento nella società, e ci ricorderanno che la fede stessa è un orizzonte, appunto un fermento che incide sulla vita in un modo tanto inafferrabile quanto decisivo”.

Questa è la degna conclusione, (da imparare a memoria quasi!!!) di tutto il ragionamento: il nodo decisivo della modernità.

Intervento

Forse oggi c’è da augurarsi che i cristiani non si preoccupino tanto di imparare delle cose per la loro formazione religiosa quanto di imparare di se stessi.

Non so, le questioni sono tante. Sicuramente una delle cose da fare sarebbe rilanciare la profezia che Salmann chiama pietas, la profezia di uno sguardo pensoso, perplesso, articolato, dubitoso sull’esistenza umana, capace di fermarsi e di guardare come le cose funzionano al di là delle apparenze, dei risultati, dei dati immediati, quali sono i movimenti profondi che ci animano. Questo, secondo me, sarebbe veramente una profezia, un servizio grandissimo che starebbe, secondo me, al primo posto.

Ma io credo che, se c’è una cosa che i cristiani non sanno fare in questo momento, è il saper dire di sé: basta pensare alle nostre riunioni parrocchiali in cui non sappiamo dirci niente di noi. Al di là della buona volontà, tranne qualcuno più coraggiosamente autobiografico che racconta qualcosa delle proprie viscere, non sappiamo ragionare sui movimenti profondi del nostro essere, del nostro agire, anche di fronte ad un problema, ad un tema.

Ci manca una prassi consolidata che ci consenta un linguaggio minimamente comune anche tra cristiani, che ci consenta di ragionare sulle cose in quel livello intermedio tra il generico dei principi o il biografico delle nostre viscere. Non sappiamo più raccontare la nostra esperienza  ricuperando le dinamiche profonde che ci accomunano agli altri e confrontando con queste l’affidabilità di un Dio, il che sarebbe il confronto nella fede. Paradossalmente direi che quasi metodologicamente non siamo più in grado. Con mille generosità, mille buone intenzioni, con tutti che organizzano conferenze, incontri, è come se nessuno fosse più capace di mettere in atto questo meccanismo. Abbiamo sempre un altro problema: di comunicazione, di efficienza organizzativa, come se non riuscissimo mai a chiederci qual è il registro su cui dovrebbe avvenire la comunicazione tra adulti nella fede.

Negli incontri parrocchiali l’alternativa sembra essere tra le proprie viscere ed i principi (dovremmo pregare, credere di più). Nel mondo esterno, non cristiano, l’alternativa è tra le proprie viscere e l’apparire, neanche il buon gusto dei principi. A tutti è saltato il livello intermedio, quello di una capacità riflessiva sulla profondità dei movimenti, non delle cose che ci animano. Quindi non delle cose (ciò che possediamo, denaro…), ma anche non delle idee, non dei principi, pure importantissimi nella vita, ma che non sono la nostra vita.

 Noi non campiamo di principi; noi campiamo del movimento che ci fa alzare dal letto ogni mattina: certi giorni con maggiore allegria, altri con meno, ma c’è un movimento nell’esistenza che ci consente di riprendere ogni mattina il nostro cammino oppure no, di sapere come ci muoviamo rispetto agli altri, senza deciderlo in quel momento perché noi non viviamo così. Non è che diciamo: “adesso mi comporto bene”, ma è che abbiamo, in genere, un movimento di attenzione nei confronti degli altri e dunque poi, bene o male, agiamo di conseguenza. Allora c’è la ricostruzione, su questo livello intermedio, di parole, attraverso, la capacità di confrontarci, che sarebbe la grande profezia da giocare come cristiani.

Intervento

Storicamente c’è stata una situazione di certezze, di sistemi costruiti, stabiliti, per cui, anche i testi biblici sono stati utilizzati in un certo modo.

Sono stati utilizzati in quel modo perché servivano, in quella cultura, per spiegare. Non è detto che il nostro modo di usarli sia valido per l’eternità. La Bibbia, da questo punto di vista, è un grande testo di educazione sentimentale in cui trovi tutti i movimenti fondamentali della vita, compresi quelli meno nobili, trovi una serie di percorsi ed un fare i conti con il reale molto spietato, molto duro. Da questo punto di vista noi lo possiamo leggere così perché a noi serve così per ritrovare la fenomenologia dell’esistenza. E la Bibbia, da questo punto di vista, è un testo molto sapiente. Ma forse tra cento anni andrà letta in un altro modo.