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Cristianesimo e modernità (IV)

Gruppo del venerdì
Marzo 2004

Tempo fa, quando ci eravamo visti l’ultima volta, avevamo terminato l’intervista a Salmann e ci eravamo proposti di leggere quella a Vergote, studioso di psicologia del profondo.

Con Salmann si era ragionato sul rapporto tra teologia e mistica, tra pensare e fare esperienza. Qui, invece, secondo me, il grande tema è quello di ciò che ci abita al di là di noi stessi, della sensazione che tutti noi abbiamo (e sempre di più man mano che la psicologia e la psicanalisi diventano una sorta di sapere comune, al di là che uno l’abbia usata personalmente), di non essere più uno solo con noi stessi ed in cui ciascuno ha dentro desideri, energie, impulsi vitali sui quali la grande domanda che gli resta, alla fine, è quella di chiedersi se davvero è libero oppure no.

Quasi nessuno di noi ha più la percezione di sé come un blocco unico che si domina con la propria ragione, pensando, decidendo. Tutti cominciamo ad avere la percezione che ci sono zone oscure di noi, pezzi in cui sperimentiamo la verità, ma di cui non sappiamo esattamente come si governano. Ormai abbiamo tutti l’esperienza che provare almeno due sentimenti in contemporanea è il minimo: spesso ce ne sono ben di più. Su tale questione il problema resta: in fondo, portando all’eccesso questo aspetto, se noi davvero siamo liberi oppure no. Ciò è decisivo perché il rapporto con Dio nasce da una libertà sostanziale, come un rapporto amoroso in cui uno sa di starci perché vuole stare e nessuno l’ha obbligato; poi possono esserci mille motivi che aiutano o meno però, se viene il dubbio di non stare liberamente, non si regge più il rapporto.

Con Dio è la stessa cosa: uno dei motivi per cui esiste oggi una grande difficoltà a dire a se stessi che si crede in Dio, che si sta in un rapporto con Lui, (secondo molti di questi studiosi con i quali sono totalmente d’accordo) è non tanto un dubbio su Dio quanto un dubbio su noi stessi, sul fatto che si ha la sensazione di non sapere, non potere, non essere totalmente liberi. Forse si è convinti, ma va a sapere se è vero, forse perché si è stati educati in una certa cultura. È un dubbio radicale sulla nostra libertà che ci pone in qualche modo in difficoltà ad assumere la responsabilità di un rapporto reale con Dio.

Questo è un po’il tema affrontato da Vergote : in fondo al nostro abisso ci sono io o cosa altro c’è?

Un aspetto molto tipico della nostra società è la spettacolarizzazione di tutto. Ad esempio si spettacolarizzano molto gli atti di malvagità e di cattiveria perché è rassicurante per tutti poter dire: “Quello è proprio un perfido e bisogna metterlo a morte”, scaricando su di lui la grande paura, che in fondo tutti abbiamo, di non saper bene chi abita nell’abisso di noi stessi. Nella vita quotidiana tutti noi cerchiamo di essere brave persone, ma credo che nessuno di noi sia stato esente dal chiedersi, almeno in qualche momento, chi stava davvero nel profondo di sé, quando sentiva un istinto di violenza tale da non sapere chi l’avesse trattenuto dal compiere qualche gesto di gravità superiore.

Mi pare che questo tema sia interessante per due motivi:

  •  ci aiuta a riflettere su come noi viviamo noi stessi, proprio perché sono assolutamente convinta che oggi la domanda radicale non è su Dio (se c’è, cosa fa, se è giusto o sbagliato, domande di secondo livello), ma sull’uomo. Il dubbio fondamentale che noi abbiamo è che noi non consistiamo e dunque ci agitiamo, ci identifichiamo in mille ideologie o possessi perché, se dobbiamo fermarci a guardarci e decidere su che cosa consistiamo e stiamo in piedi, non è un’operazione facilissima.
  •  il cristianesimo, in fondo, è sempre stato pensato a partire da un’autocomprensione degli esseri umani come sicuri su di sé, sul cosmo, sulla natura, su tutta una serie di cose, e dunque la domanda era come si può pensare Dio. Mi pare che noi oggi, in termini di conoscenza, siamo praticamente incerti su tutto: sull’infinitamente grande, sull’infinitamente piccolo, sugli animi degli uomini, sulle malvagità di cui tutti oggi parlano, sul mondo che stiamo costruendo, con il sentimento che è sempre più difficile identificare una catena esatta di responsabilità.

 La malvagità c’è sempre stata nella storia dell’umanità, non è una novità purtroppo, ma aveva una catena molto chiara, giusta o sbagliata, di atti consequenziali. Nel nostro tempo, uno degli effetti della complicazione di vivere in una società complessa e globalizzata, è che le responsabilità sono sempre più evanescenti, per cui si dice ad esempio, che è colpa di Bush, ma in fondo mica solo del signor Bush; ci sono la politica internazionale, le lobbies dei produttori e mercanti d’armi, le condizioni socio-economiche, per cui si fa strada la logica di giustificazione di Norimberga portata su scala mondiale, come i gerarchi nazisti che dichiaravano di aver soltanto fatto quello che era stato loro ordinato; è come se oggi fossimo tutti nella condizione, che nella morale, si definisce “schiavo condizionato della propria storia”: non sono io, sono le condizioni, è la società, è la vita; non mi hanno amato da piccolo, avevo un complesso. C’è sempre una vanificazione delle responsabilità personali.

Questa è una questione grossa e non solo etica. Mi sembra proprio una questione di sopravvivenza nel senso che la vanificazione della responsabilità, in qualche modo finisce per diventare la vanificazione di noi e della nostra esistenza, dunque anche delle cose belle della nostra vita. Controcampo di questo è che nulla ci soddisfa più: di niente siamo responsabili, ma niente è più godibile. Come dice mio papà: ”Non c’è più niente come prima della guerra”.

Domanda

Hai detto di un rapporto reale con Dio. Esiste, è definibile, questo rapporto con Dio?

Questa domanda, assolutamente legittima e seria, dimostra la mia tesi. Rapporto reale non significa rapporto che si misura, si vede, si pesa, ma rapporto che fa sì che la tua vita sia diversa da “se non c’era.” Una delle mie esperienze è che ho avuto, e quindi ho, un rapporto molto reale con i miei nonni, che pure ho conosciuto per un tempo breve dal punto di vista materiale. Nonno Raffaele era abbastanza ingombrante di suo, come peso “psichico” della persona, ma io non sarei la persona che sono se lui non ci fosse stato; sarei, con un altro nonno, un altro tipo di persona. Questo è rapporto reale.

Allora esiste un rapporto reale con Dio? Sì, nel senso che tutte le generazioni di credenti lo mostrano: chi è vissuto come è vissuto in nome di un Dio, per amore a un Dio, non sarebbe stato quello che è stato se non avesse avuto quel rapporto (es. Mario Picco).

Domanda

Può anche essere tormentato, deviato, costruito, inventato questo rapporto?

Certo, ma non è meno reale. Siete meravigliosi; preparata, questa scena non veniva così bene! Questo problema, guarda caso, se lo pone lo psicologo. L’analisi che io facevo è talmente vera che noi stiamo esattamente ragionando in questo modo, cioè viene subito il dubbio e si dice: ”Sì, forse ho cambiato la mia vita non perché c’è uno, ma perché mi sono immaginato, sono matto, mento a me stesso”.

Commento

Indipendentemente dal fatto che sia vero. È come la scommessa di Pascal.

No, è molto diverso perché la domanda di Pascal è ancora su Dio. Qui il problema è che noi non sappiamo più come fare a sapere che le cose sono reali. Ma questo, attenzione, non riguarda Dio. È che noi, se guardiamo alla tivù una soap-opera, non sappiamo più se quello che vediamo è accaduto davvero oppure no. Questo, filosoficamente, si chiama “perdita del reale”.

Domanda

Non potrebbe essere, dubbio che viene sulla fede, che l’uomo si sia costruito un Dio per il bisogno di un appiglio ed il rapporto reale con questo c’è, ma…

Questa è la tipica domanda di tale meccanismo. Spiegami una cosa: se tu vivi contento, con una direzione che poi non c’è, che differenza fa rispetto alla tua vita?

Commento

Notevole perché ho vissuto meglio!

Ma non cambia nulla se è reale nell’effetto sulla tua esistenza.

Commento

Certo, è vero ma è un po’ limitante. Ma io voglio che ci sia comunque.

Bene, chi dice questa frase, cioè io voglio che ci sia comunque, secondo tutta la tradizione cristiana è un grande credente perché il contenuto della fede non è: “ci credo e faccio finta di non avere dubbi”. La fede è la pienezza di un tale desiderio che non voglio essermi sbagliato su questa cosa. E questa è l’esperienza della fede. Non la certezza, ma la pienezza del tuo desiderio.

È esattamente come in un rapporto quando uno scommette la sua vita in una relazione con un altro perché vuole con tutte le sue forze che l’altro ami esattamente come lui è convinto di amarlo. Cosa che poi, nel corso della vita, cambia mille volte, ma tu vivi in un modo piuttosto che in un altro; costruisci un’esistenza sul desiderio radicale, intuito ad un certo punto della tua vita, che l’altro ti ami e sia all’altezza del tuo amore. E questo è talmente reale che uno ci conforma una vita, mette su casa, fa dei figli e, tutto sommato, (negli amori seri, quelli che durano un’esistenza), senza che possa mai mettere la mano sul fuoco per questa cosa. Non che dubiti continuamente perché si fida dell’altro e progressivamente sempre di più, ma non può mai avere un motivo ragionevole, spiegabile, materializzabile, per dire che l’altro è all’altezza del suo amore e sarà così fino all’ultimo giorno della sua vita. Certamente dopo quarant’anni c’è meno panico di quanto se ne aveva all’inizio. Quando si dice: bisogna tener vivo un rapporto, sarebbe non come nelle favole in cui ci sono alcune prove da superare ed il contenuto è raggiunto, ma che per tutta la vita tu continui ad avere un sempre un nuovo e diverso desiderio che l’altro sia all’altezza di quello che tu senti nei suoi confronti e che spesso è ”non lo sopporto più”. Non è necessariamente l’amore melenso, ma il desiderio che l’altro ti sorprenda smentendo le tue affermazioni.

Detto in termini un po’ più filosofici, la domanda problematica è: che cosa mi dà la certezza di realtà? Sulle cose può essere più o meno facile (anche se ormai i fisici stessi discutono molto sulla realtà delle cose) e per il sapere che serve tutti i giorni non ci sono dubbi. Quello che a noi disturba moltissimo è che ci perdiamo il reale rispetto alle persone, e dunque Dio sta tra le persone. Traducendo in termini filosofici, rispetto agli esseri personali, per noi, reale e libertà, sono ormai degli opposti perché il reale o è determinato o non è; siamo figli di un determinismo scientifico malinteso. Allora se il reale è determinato non può essere libero; se una cosa è libera, non si sa mai fino a che punto è reale, non se ne ha la prova. Questo è uno dei temi chiave della modernità.

Oggi molti teologici parlano del reale come “il rimosso della storia”. Nella psicologia il rimosso è quella cosa che noi non sappiamo più di sapere o di averne avuto l’esperienza, o un trauma da cui siamo stati talmente segnati da cancellarlo proprio perché è di una tale realtà che ci è insopportabile. Dunque noi, a nostra stessa insaputa, agiamo quella cosa che non sappiamo di sapere (caso classico: non ricordare un incidente, ma andare in panico quando si ripete la situazione). Noi non sopportiamo più il reale personale per una serie di motivi (la scienza, i dubbi), e dunque ne abbiamo cancellato l’idea che però continua ad agire, a farci vivere nonostante noi stessi. E questo è uno dei tanti fattori di confusione su noi stessi (imparare ad accettare le emozioni, non voler ridurre tutto razionalmente).

Domanda

Come la metti con il fatto che il rimosso è sempre un reale negativo?

Non è un caso che la Rivelazione inizia con il racconto del peccato originale e questa è l’altra nostra questione grossa. Quello che i teologi dicono che noi non sopportiamo, e di conseguenza non sopportiamo il rapporto con Dio, è l’annuncio del nostro stato creaturale, della nostra limitatezza. È questo il grande rimosso, il grande trauma negativo: è il peccato originale, il voler essere come Dio, la tentazione di un’onnipotenza radicale per cui ogni finitezza, ogni creaturalità ci disturba. Ma il reale è l’annuncio di creaturalità, perché non è totalmente governabile, ha un tasso di casualità, imprevedibilità che sfugge al nostro controllo.

Questo è il negativo traumatico originario.

Domanda

Allora per la proprietà transitiva leggo la realtà come un fattore negativo e mi invento una a-realtà . Quindi noi viviamo sempre sui trampoli.

Esattamente! Questo è uno dei problemi della postmodernità. Stiamo facendo discorsi giganteschi, ma comunque non è un caso l’abbandono o l’esaltazione del corporeo, questo secolo ha un problema sul cibo, sperimenta una grande diffusione e ricerca del virtuale, di un’invenzione che non frustri il desiderio di onnipotenza dove io possa reinventare il mio corpo, la mia immagine, raccontandomi attraverso una macchina, perché intanto l’altro non mi incontra, non mi tocca, non mi raggiunge. Questo tema è terrificantemente diffuso ed è uno dei malanni della civiltà occidentale per cui vorremmo che anche la casualità fosse governabile.

Domanda

Sembra di tornare ad una recrudescenza della divisione corpo-anima.

Il 90% dei teologi parlano di crisi neognostica, in cui da un lato ci sarebbe un sapere esoterico (manie parareligiose: dalla meditazione yoga fino ai tarocchi, che dicono come salvarti per domani o per la vita eterna a seconda delle tue esigenze) e dall’altro il non poter sapere come dato generale e dunque vivere solo nel qui ed ora.

Domanda

Però, esacerbando questa categoria dualistica, il nostro modo virtuale di porci, tipo internet, in realtà sarebbe l’anima.

Infatti. Quello che si dice è che c’è un vero e proprio rovesciamento: la divisione fa sì che l’anima, cioè l’invisibile, è il corpo, dunque non mi faccio toccare e mi curo ma tenendo a distanza perché il corpo è il nucleo prezioso, invisibile e intoccabile.

Domanda

Allora siamo allo specchio.

Esattamente! Su questa tematica c’è un fiorire di libri e, secondo me, è una chiave interpretativa molto utile perché mette insieme tanti elementi dell’analisi; cioè c’è la difficoltà che parte dall’avere perso la realtà come annuncio della solitudine, di non averla sopportata e che ha rovesciato il dualismo a 360°. Dunque il corpo o è negato o superesaltato, ma sempre come il ricettacolo dell’identità di me, quello che nel medioevo era l’anima. Il corpo perde completamente il suo carattere relazionale e relativo, il luogo dove gli altri mi incontrano, mi abbracciano, mi picchiano eventualmente, ma dove mi raggiungono. Il corpo diventa intoccabile, nascosto o superesibito, mentre la mente, o più spesso il “sentire”, non il sentimento, diventa il luogo relazionale. Allora: su che metto una relazione? Su chi “sente” come me e capisco cosa sente, su chi capisce come sento (il che sarebbe la teoria: ci vogliamo tanto bene, dunque ci sposiamo, poi non ci vogliamo più bene e ci separiamo). Oppure tutte le aggregazioni fortemente omogenee: la politica come viene fatta oggi, purtroppo non solo in Italia, sul sentire, sull’immagine, sullo stile, non sul pensiero perché la gestione del reale non è un problema. Il problema è: mi affascina, “sento” che ha ragione e nessuno fa più la fatica di confrontarsi sul progetto di gestione del reale nel paese in cui deve campare.

Commento

Diventa poi una specie di omosessualità dell’anima. 

Sì, che per esempio spiega in parte anche il dato fortemente di crescita dell’omosessualità nell’occidente.

Domanda

Penso che non c’è nulla di nuovo sotto il sole: tutte le ricerche su internet, mille o duemila anni fa si facevano nella poesia, nella letteratura o ci si identificava nell’eroe. Oggi ci sono mezzi più sofisticati, ma il processo è  sempre lo stesso.

No. Innanzitutto parliamo di mondo occidentale e non mescoliamo le cose. La differenza di mezzo è  differenza qualitativa. Il fatto che nei castelli bisognava essere lì per sentire il bardo che raccontava, fa una radicale differenza; che il corpo sia o no lì fa una bella differenza rispetto alla realtà ed alla sua perdita. Ci sono alcuni che hanno la tesi degli eterni ritorni, personalmente non ci credo, anche se chiaramente ci sono alcune costanti, alcuni meccanismi che genericamente sono sempre uguali, ma il tema della perdita di realtà è assolutamente moderno e non c’è mai stato prima. Mai l’umanità, nei suoi millenni di storia, ha avuto un’indipendenza generalizzata dai ritmi della natura come noi abbiamo oggi. In termini generalizzati in occidente, in altre parti del mondo è forse un altro discorso. In occidente, il 90% delle persone non cambia più la propria vita sulla base dei ritmi naturali e quando un giorno, ad esempio, capita un imprevisto come una nevicata eccezionale, si va tutti in paranoia. Questo ha cambiato la nostra vita rispetto ad intere generazioni in cui il 90% degli esseri umani, verso ottobre, cambiava i propri ritmi di vita perché metteva in conto che ci sarebbero state giornate in cui non sarebbe stato possibile muoversi e tutta l’organizzazione  dell’esistente prendeva un altro andamento fino a quando non fosse tornata la primavera. È una bella differenza, per esempio, in termini di percezione di onnipotenza: noi perdiamo le staffe e ci chiediamo come si permettano di non far funzionare le autostrade dato che è nevicato e dobbiamo cercare un colpevole. Qualche generazione fa nessuno aveva reazioni così spropositate.

Commento

Questo, secondo me, fa parte della serie che se ci danno un vizio e poi lo tolgono succede il finimondo.

Il problema è: il delirio di onnipotenza che la civiltà occidentale vive attualmente; non l’ha mai vissuto nella storia e non si può dire che anche una volta era così, no. L’esperienza del limite che ci veniva dalle cose era interiorizzata da tutte le generazioni dell’occidente fino a cinquant’anni fa; i ragazzi attuali, ancora molto meno di noi perché venuti dopo, non interiorizzano più il senso di alcuna frustrazione del limite e dunque, per esempio, hanno un’incapacità di reggere qualsiasi cosa perché non interiorizzano mai un limite. L’unico limite rimasto è quello etico, autoritativo, cioè se qualcuno dice no. Se un adulto ha detto qualche volta no, già si è uno molto più equilibrato della media. Questa esperienza non é più o meno uguale a quella dei castelli, è un’esperienza nuova quanto all’umanità perché riguarda qualcosa di radicale della nostra autocomprensione, cioè la comprensione di sé come parte di un tutto, parte che, bene o male, ha dei limiti, anche se la maggioranza delle persone non lo sapeva spiegare, ma lo viveva in quanto era nell’ordine delle cose. Per noi, nell’ordine delle cose, è che tutto ci è possibile/dovuto fino al limite assurdo che, in fondo tutti pensiamo, che non moriremo. Il passaggio, legato a tutta una serie di fattori, avviene a metà dell’800 e la generalizzazione è più o meno graduale, però questo è uno dei frutti della modernità.

Intervento

Noi, come osservatori di fenomeni storico-sociologici, abbiamo sempre l’impressione di essere in cima a una collina invece siamo a metà della salita. Vent’anni fa pensavo che il mondo sarebbe diventato tutto comunista perché era inevitabile ed in quel tempo lì, se mi avessero detto quello che sarebbe successo, non ci avrei minimamente creduto. Quello che dici è verissimo ma mi sembra della serie: dove andremo a finire. Come niente passa una generazione e magari dopo sono di nuovo tutti tranquilli. Nel 1938 in Europa, posto più civile del mondo, c’erano Hitler, Mussolini, Stalin ed altri come loro e sembrava che fosse normale così.

 La rimozione del reale non è un dato morale. Non vuol dire che uno non capisce che Hitler è un lazzarone. Uno capisce o non capisce, in base a dei criteri politici, capacità di previsione sul futuro, ecc. La rimozione del reale è un’altra cosa: non è la negazione di ciò che accade. Allora molta gente nel ’38 non ha voluto vedere, alcuni non hanno potuto per mancanza di elementi, altri non sono stati capaci di prevedere; quelli che avevano gli elementi e non erano tonti magari erano interessati a non vedere. Tutto questo si chiama analisi storica, ma non è la rimozione del reale. Quando dico il reale come rimosso della storia, non sto parlando dello storico, del politico, ma del senso di realtà, dato psichico, cioè l’esperienza di sé e del mondo, del proprio corpo come luogo di confine tra sé ed il mondo (quella fase tipica, normale dell’adolescenza, psichicamente chiamata “perdita della percezione reale del proprio corpo” in cui gli adolescenti hanno un tale sommovimento che, prima di riprendere la propria immagine corporea, impiegano tempo).

Mi sto riferendo a questo, non all’analisi storico-politica che può essere in buona o malafede, non possibile, negata, incapace di dare valutazioni sul futuro; sto parlando del mutato rapporto tra noi e la percezione del nostro essere, esistere, della nostra relazionalità rispetto a 150 – 200 anni fa, prima della modernità. Questo è cambiato ed è, secondo me, una delle tre – quattro radicali innovazioni dell’epoca moderna, cioè è una di quelle cose su cui effettivamente l’umanità sta facendo uno dei cambiamenti, non così tanti come si crede, ma così radicali da spostare proprio l’impianto.

Uno dei motivi della secolarizzazione è proprio questo: un Dio che, culturalmente, è stato sempre mediato soprattutto nel suo luogo di creatore (un Dio cristiano, naturalmente, sia cattolico che protestante), di governante onnipotente della natura. Dal VI secolo al 1800, questa è stata la caratteristica attraverso cui veniva mediata l’esperienza reale di Dio (nel catechismo si diceva: esiste un’esperienza reale di Dio, se guardi il creato, le stelle). Di fronte alla svolta culturale di perdita di realtà, di rimozione del reale, questo Dio non ha più alcun significato, non si sa più dove metterlo. Questo è uno degli snodi che sta attaccato al tema di realtà  e non è un caso che da un secolo a questa parte il grande tema su cui eventualmente si può affrontare un discorso religioso è Gesù Cristo e non Dio Padre Creatore. Caso mai è un Dio incarnato, che ha preso corpo perché più o meno capiamo di cosa parla: amore fraterno, e ci sembra dotato di un significato.

Allora il cristianesimo, che è un dato con una sua oggettività storicamente assodata, dopo aver passato circa tredici, quattordici secoli a pensarsi, raccontarsi e spiegarsi in un certo modo, con un certo vocabolario, fa un po’ fatica, nell’ultimo secolo, a vedere che tutta la strutturazione va all’aria e non riesce bene ad inventare un altro modo. Dal punto di vista delle grandi dinamiche esiste un notevole dibattito tra gli storici e c’è chi sostiene che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Sono assolutamente convinta che non solo siamo a metà di un crinale, ma molto meno. Siamo in un punto di osservazione molto più basso di quello di cui abbiamo la percezione e con un aggravante: quando parliamo di storia parliamo sempre di qualcosa che in realtà è perduto perché conosciamo solo sempre l’esperienza presente nel suo spessore. Sappiamo dei nomi, degli eventi, possiamo immaginare e costruire dei tessuti, ma il passato non ci è mai attingibile con la stessa forza della nostra esperienza. Ma ciò non significa che non possiamo individuare alcuni passaggi focali che non sono semplici ripetizioni.

Domanda

Sarei curioso di sapere, avendo quarant’anni fa studiato la teologia dogmatica con i suoi schemi precisi, i suoi trattati e le sue affermazioni che ti davano una costruzione perfetta ed una garanzia incrollabile, che cosa ne è adesso; quali sono i dati certi.

Non è un caso che a S. Anselmo stiano animatamente discutendo tra quelli come Salmann di cui abbiamo letto l’intervista che provano a fare una teologia a partire dai dati incerti e quelli che sostengono di tornare ai vecchi, chiari trattati precedenti Vaticano II. Il provare a dire il cristianesimo dentro questo contesto, prendendo sul serio le radicali innovazioni, è un problema; nei casi migliori, ciò che può succedere, ed è pericolosissimo, è il dire ad esempio che non si può più prendere Tommaso, ma si supplisce semplicemente con un’operazione di maquillage estetico ed è, più o meno, quello che fa il clero nelle omelie in cui vengono usate parole moderne ma con il contenuto di sempre con il risultato che, mediamente, la gente esce di chiesa sentendo l’inutilità radicale di questa scelta: le singole parole sono state comprese, ma non il discorso che rimane con l’impianto di prima.

Ci sono alcuni cambi radicali timidamente tentati, ma il nuovo è ancora da inventarsi. Questo dimostra che non è sempre tutto uguale ma che noi stiamo su forme di chiesa esaurite e non siamo ancora in grado di inventarne di nuove. Bisogna mettersi con santa pazienza, non basta la genialità di uno. Il problema è che il percorso di alcuni, peraltro utilissimo, ha rischiato di azzerare il problema, cioè di risolvere una serie di questioni (non esercitare rigidità, arroganza, quindi di facilitare) ma creando poi la condizione di essere a terra come prima senza riuscire ad avere una forma per poter narrare l’esperienza innanzitutto a se stessi e comprensibile non tanto nelle parole quanto nella struttura del discorso.

Questo, rispetto al cristianesimo, è il problema della modernità: abbiamo totalmente esaurito una formula, ma non dobbiamo buttarla via e basta perché in questa cosa c’è grande sapienza. L’esperienza che faccio regolarmente nell’Atrio è che se spiego con una struttura di discorso comprensibile le parole più arcaiche della Tradizione, ad esempio i dogmi, diventano chiari e fecondi perché, se si rende reale e comprensibile la struttura del discorso, le parole non sono un problema. Per dirla in termini tecnici: l’operazione fatta dopo il Concilio Vaticano II è stata un’operazione di tipo comunicativo mentre la questione era ermeneutica; si trattava di cambiare il riferimento, non di mettere le diapositive al posto dell’omelia o, all’offertorio, il pallone al posto del pane e del vino.

Passiamo al nuovo autore, Antoine Vergote, di cui leggiamo la prima pagina di citazione che precede l’intervista.

“Esaminiamo brevemente il desiderio così come si presenta nel vissuto, quale desiderio di assoluto. (noi avremmo detto il desiderio di onnipotenza). Esso sorge dalle esperienze negative che l’uomo fa dell’esistenza. Trascuriamo tutte le frustrazioni che gli vengono imposte dalla dura realtà. Ve ne è una più fondamentale: quella dell’essere desiderante in quanto mancanza. (il fatto di fare esperienza di te che desideri; il che vuol dire che qualche cosa ti manca). Nel momento in cui l’uomo più è se stesso, quando non si disperde nell’oblio, in quel momento il suo desiderio gli fa violenza. Egli non ne è l’autore; è il suo desiderio a dominarlo, egli lo patisce. (uno dei motivi terrificanti per cui tendiamo a disperderci nell’oblio). Esso gli giunge d’altrove pur essendo proprio il suo. Una cavità si crea nell’uomo per il passaggio di qualcosa che egli coglie  soltanto come un’assenza e che lo apre indefinitamente. Egli vorrebbe allora raggiungere ciò da cui si sente separato e ciò che risente come la sorgente che fa sgorgare in lui il desiderio. Egli si volge verso un’originaria pienezza; là vi troverà la quiete nella quale il suo desiderio oltrepasserà se stesso in un’eterna pacificazione. Nella ricerca del pieno godimento, il desiderio proietta di fatto lo stesso schema circolare che si può smascherare anche nel progetto speculativo. L’uomo vorrebbe fissarsi in un bene supremo, che è la pace precedente l’inquietudine. Egli vorrebbe far giungere il proprio desiderio in questo luogo ultimo in cui reintegrare il bene totale che l’ha generato. Questo luogo primo e ultimo può prendere il nome di Dio. Ma è davvero Dio?”.

(Non ho capito il passaggio: “l’uomo vorrebbe fissarsi in un bene supremo, che è la pace precedente l’inquietudine”.

Quando sei attraversato dal desiderio ti viene da dire: stavo meglio prima, se non mi fossi posto questo problema; ero tranquillo e mi bastava quello che avevo, perché non mi sono accontentato? Oppure: ora desidero, ma quando mi sarò laureato, mi sarò accasato, spero che ci sia un punto in cui finalmente avrò realizzato ogni mio desiderio ed avrò pace. Questa è proprio una struttura circolare per cui, da un lato vorremmo tornare a prima del desiderio e dall’altra essere già dopo perché la cosa che non riusciamo a fare è esattamente stare dentro al desiderio. Ma la questione interessante è la domanda: ”Ma è davvero Dio?”).