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Cristianesimo e modernità (IX)

Gruppo del venerdì
Marzo 2005

Continuazione dell’intervista a R. Panikkar

La prima domanda della quale ci siamo un po’ occupati l’ultima volta era quella sul significato di “credere in Dio”, “dire Dio”. Il brano che vorrei che leggessimo questa sera è quello che io definirei come il più inquietante della sua riflessione, che passa dal concetto di Dio in generale (su cui credo siamo più o meno d’accordo, e nel quale possiamo trovare unità anche con chi ha modi diversi di credere in Dio) a Gesù Cristo. E’ un passaggio delicato, nel senso che, mentre da una parte occorre cercare di mantenere aperti dei dialoghi, delle possibilità di incontro, dall’altra bisogna però prendere sul serio le eventuali differenze. 

 Ciò nonostante, il cristianesimo ritiene di poter fare delle affermazioni su Dio, spingendosi addirittura a dirne dell’intima vita, almeno quando ne parla come di Trinità di persone; e in ogni caso il cristianesimo è fede in Gesù Cristo. Cosa significa?

La domanda è essenziale e precisa e dice che almeno due cose caratterizzano il cristianesimo: la Trinità e Gesù Cristo.

Credere in Gesù Cristo è una seconda questione. La fede cristiana usa simboli, non concetti. Questo lento passaggio da simboli a concetti è responsabile della reificazione della fede, tanto che per molti la fede è diventata un’ideologia. Il simbolo non è solo oggettivo, né solo soggettivo. Il simbolo è una relazione viva tra la parola o icona che lo esprime e l’uomo per il quale è simbolo. Il simbolo è tale quando simbolizza, diversamente non è simbolo. Quando parliamo di una cosa che per me è simbolo e per un altro non lo è, non parliamo della stessa “cosa”. Un poeta non avrebbe forse fatto la sua domanda.

Qui la questione centrale è la parola “simbolo”. Noi abbiamo un’idea di sombolo molto parziale e molto particolare: di per sé, nell’uso corrente, “simbolo” sta slittando sempre di più verso un significato di “contrario di reale”. Quando diciamo: “non è un regalo: è un gesto simbolico” la traduzione è: “non ho speso abbastanza soldi perché sia un regalo”. Così come, che una cosa sia simbolica, per noi, vuol dire che rappresenta in modo teorico, ma sempre più verso l’intenzione di chi lo fa, o verso l’intenzione di chi lo guarda, un modo soggettivo. Nel nostro linguaggio, a strati diversi, si usa in modi molto diversi. Quando uno psicologo dice:”il valore del denaro è simbolico” sta dicendo esattamente il contrario, cioè non sta dicendo che il denaro è una cosa soggettiva, teorica, rappresentativa, ma sta dicendo che il denaro, al di là del fatto di avere una sua materialità, ha degli effetti diversi. Quando noi diciamo “uso simbolico del potere” diciamo esattamente il contrario di quando diciamo “non è un regalo, è un gesto simbolico”. Usiamo cioè la stessa parola con riferimenti opposti. Questo succede perché noi, rispetto a questa parola, siamo in un periodo di grande transizione, per cui come sempre in questi casi, convivono usi antichi con usi nuovi. Probabilmente fra cinquant’anni il termine avrà un significato più univoco e, immagino io, più slittato sul soggettivo. Di per sé, la radice antica, quella che usa Freud e quindi rimasta nell’ambito psichiatrico, è la radice medievale in cui il legame è sostanza-materia-forma. Ci sono delle res che hanno in sé sostanza, materia e forma. Noi diremmo che ci sono cose che stanno in piedi da sé e ci sono cose che necessitano di un interlocutore per avere sostanza, materia e forma. Ci sono cose che hanno sostanza e materia, ma non hanno forma propria, ad esempio le parole. Non hanno forma se non c’è un soggetto che le pronuncia o un soggetto che le ascolta. Le cose che non stanno in piedi da sole, che cioè non hanno sostanza, materia e forma in se stesse, ma necessitano di un’altra realtà per il medio evo erano simboliche. Alla discussione se l’Eucarestia è il corpo reale di Cristo o il corpo simbolico di Cristo, la domanda era: “l’Eucarestia ha in sé sostanza, materia e forma?” o ha bisogno di una comunità che la interpreti e dia forma alla sostanza e alla materia? Nessuno era sfiorato dall’idea di definire l’Eucarestia simbolica  nel senso che diamo oggi a questa parola.

La domanda era: ha la sua totalità di res o ha bisogno di un interlocutore? Vincerà la posizione realista, Berengario sarà condannato e la definizione sarà ribadita dal Concilio di Trento, perché il problema rimane. Infatti, in quanto opera di Dio l’Eucarestia sicuramente sta in piedi per conto suo, ma in quanto opera di Dio per noi, se non c’è una comunità non ci raggiunge. Lutero riproporrà la questione della necessità della comunità e del discorso simbolico, e negherà il reale, ma non per dire che non era vero. Il Concilio Vaticano II afferma che, quanto a potere, sta in piedi da sola, quanto ad atto, dato che è per noi, sta in piedi se ci siamo noi.

Il termine simbolico o reale ha un peso notevole in teologia. Panikkar dice che la fede cristiana usa simboli, non concetti. Una delle sue tesi è che il concetto uccide il simbolo, perché è la forma autoreferenziale della conoscenza, cioè “pensare per concetti chiari e distinti” significa supporre di avere sostanza, materia e forma di ogni conoscenza presso di sé. Allora da “concetti chiari e distinti” di Cartesio, nel ‘900 si arriva all’ermeneutica che, secondo Panikkar, è la versione secolarizzata dei simboli

Un altro problema di cui Panikkar parla spesso è: noi occidentali, dopo il ‘500, siamo abituati a pensare su due: bianco-nero, oggettivo-soggettivo, razionale-sentimentale, ecc. Il problema è che la realtà andrebbe letta non a coppie, non a due, ma a tre. Non c’è solo oggettivo-soggettivo, ma oggettivo-soggettivo-simbolico, come non c’è niente di solo razionale o sentimentale, ma c’è razionale-sentimentale-antropologico, dice Panikkar. Il simbolo è una relazione viva tra la parola o icona che lo esprime e l’uomo per il quale è simbolo. Il simbolo non sta solo nella mia interpretazione, ma ha una sua oggettività in ciò che lo esprime; ciò che lo esprime ha una portata, un peso, che non è cancellabile; poi ci sono io che posso capirlo o non capirlo, lo interpreto, gli attribuisco dei significati, ecc. Il simbolo è la relazione tra queste due cose: non è né la cosa, né la mia intenzione, ma è le due cose insieme. E si dà simbolo solo laddove la cosa sta in una relazione viva con la mia interpretazione e, aggiunge in altri testi, io sto in una relazione viva con la mia storia, col passato e col futuro che io ho nel tempo. (Es.: un mazzo di fiori è simbolico dentro una relazione, dipende da chi lo manda, a chi lo manda, quando lo manda, ecc., sennò rimane un mazzo di fiori).

Io penso che Panikkar, da una parte, prenda alcuni elementi della teologia medievale, i più classici, con il coraggio di guardare sul muso tutta una serie di cose che troppo velocemente nell’800 e nel ‘900 sono state buttate via, filosofia vecchio stile, ecc. e invece sono strumenti di comprensione e di chiarificazione molto sottili. Bisturi delicati che i medievali hanno usato trattando problemi diversi dai nostri, ma che ci servono anche per i nostri problemi attuali.

Panikkar prova ad usare quegli strumenti intellettuali per capire questa questione complessa che è l’assolutezza e l’universalità di Gesù. Ci troviamo comunque in un grande pasticcio perché dal punto di vista mentale (concettuale) si può dire solo che Gesù è l’unico salvatore o non è l’unico salvatore. Non è possibile trovarsi altro che in un vicolo cieco, l’ecumenismo è una cosa seria, ecc. e Panikkar, proprio perché crede che Gesù Cristo sia l’unico salvatore prova a usare degli strumenti per poter pensare questo in modo convincente.(secondo me, con scarso risultato, personalmente non ne sono convinta; il problema è che questo tipo di ragionamento che lui fa, in questo momento, è troppo conforme a una sorta di deriva di moda soggettivista, un facile irenismo. Panikkar è stato condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede). Secondo me, una delle cose interessanti della sua posizione è che, invece di risolverla a “pizze e fichi” prova a usare degli strumenti raffinati.

Quando parliamo di una cosa che per me è simbolo e per un altro non lo è, non parliamo della stessa “cosa”. Cioè: quando si parla di una persona che uno conosce e l’altro non conosce non è la stessa persona di cui parliamo; uno può avere un passato con quella persona, una storia, degli affetti, e l’altro non avere relazioni, di nessun genere, perciò quello che si dice riguarda la stessa sostanza: un essere umano, ma non è la stessa persona. Uno sta parlando di qualcosa che, rispetto a lui, ha una storia e l’altro sta parlando di un signor nessuno. Per uno quella persona è “simbolo”, per l’altro no.

In secondo luogo il cristianesimo è una religione della parola, non della scrittura; il cristianesimo non è una religione del libro. Al riguardo vedo come una sorta di ironia dello Spirito Santo il fatto che abbia permesso che la Scrittura non riporti praticamente nessuna parola originale di Gesù, figlio di Maria. Tutto è traduzione: Gesù non parlava greco e neppure gli apostoli; degli evangelisti  non si sa bene, e comunque il greco non era la loro lingua madre. La parola è tale quando la si ode, quando dunque è un’esperienza. Decisiva è l’esperienza diretta di questa parola che mi parla, mi scopre, e questa è dal punto di vista cristiano l’apertura costante alla fede.

Primo punto: il simbolo.

Secondo punto: la questione della parola. Panikkar dice che non c’è nessuna codificazione, nessun fondamentalismo possibile. La parola è parola quando ha un destinatario.

Terzo punto: la religione.

La religione non è soltanto mistica, ma senza mistica non è religione.”

Senza un’esperienza dei singoli, chiamati in prima persona, non c’è esperienza religiosa, noi diremmo che c’è un formalismo.

Fede è più che fiducia; quando io scopro in e attraverso Gesù, figlio di Maria, il mistero di Cristo, allora mi posso confessare cristiano. Cristo però è un simbolo  non identico a Gesù: Gesù è Cristo, ma Cristo è molto di più.”

Gesù, uomo storico, figlio di Maria, è sicuramente il Cristo di Dio, è sicuramente il Figlio di Dio, Messia, Salvatore, ma lo è come simbolo, perché io e molti, uniti alla tradizione, in quel Gesù oggettivo, avendo una relazione con Lui, riconosciamo il Cristo di Dio per noi.

L’aspetto interessante del discorso di Panikkar è: noi abbiamo, attraverso lo Spirito, i Sacramenti, la Scrittura, ecc., una relazione al Gesù storico e, attraverso questo, abbiamo un’esperienza mistica di relazione a Gesù, cioè un’esperienza diretta, quella cosa che ci hanno insegnato: uno fa la comunione e ha Gesù in sé (detto in modo semplice). Attraverso questo Gesù storico, rabbi, le cose che ha insegnato, i suoi segni, i miracoli, ecc., con cui noi abbiamo una relazione, noi riconosciamo in quel Gesù il simbolo del “Cristo di Dio”. Cioè diciamo: in “quel” Gesù è il Figlio di Dio, messia e salvatore. Quanto alla fede non c’è differenza l’essere vissuti al tempo di Gesù o il vivere oggi. Si poteva allora dire: “Non è costui il figlio di Giuseppe il falegname?” e si può oggi essere credenti.

Panikkar fa poi un passaggio ulteriore: il Cristo di Dio è molto di più che quella sostanza e materia che è il Gesù storico. E anche qui lui riprende una dottrina antica, una dottrina dei Padri che dice che c’è un Cristo pre-esistente (col Padre ha creato il mondo), un Cristo esistente nella storia (in Gesù di Nazareth) e un Cristo glorificato. Gesù è figlio di Dio perché c’è un Cristo da sempre nella Trinità.

Il Cristo è molto più ampio che Gesù e dunque le altre vie religiose, in altre sostanza e materia, riconoscono lo stesso simbolo: il Cristo di Dio. In questo senso si può capire la dottrina di Vaticano II che dice: “in tutte le religioni gli uomini di buona volontà, là dove c’è la carità, ci sono semina Verbi“; i semi del Verbo di Dio, che non passano nel Gesù storico, ma che sono presenti dove c’è la carità, dove c’è buona coscienza, una vita religiosa secondo coscienza piena, ecc.

Vaticano II fa una distinzione: ci sono i semina Verbi e i semina Christi: i primi sono dovunque c’è qualcuno che lavora per la giustizia, la pace, la carità, ecc, i secondi sono dove c’è una via religiosa, dove c’è un riconoscimento di un Dio, ci sono i segni del Cristo di Dio. In nessun caso si parla di Gesù, perché evidentemente non c’è una tematizzazione di Gesù. Il ragionamento è complesso, ma è da prendere molto sul serio. Non si può dire che va tutto bene e il criterio di fondo è la carità; oltre a volerci tutti bene, come si fa a dire contemporaneamente che Gesù è l’unico salvatore del mondo, dire che in Gesù tutti siamo salvati e poi dire che, in fondo va bene tutto.

Panikkar fa un ragionamento molto raffinato e molto complesso dal punto di vista teologico: attraverso i tre elementi del simbolo, della parola e del rapporto mistico, diretto, senza mediazioni, noi abbiamo un rapporto con la sostanza e materia del Gesù storico in cui riconosciamo la forma del Cristo di Dio (quindi Gesù è il Cristo, vero uomo e vero Dio), ma il Cristo non è solo Gesù: è molto di più che Gesù (su questo Panikkar è stato condannato). Panikkar non dice che Gesù è simbolico, intendendo il termine come lo usiamo noi abitualmente. 

Prima di Abramo io ero…” si legge nel Vangelo. E l’Eucarestia è la presenza reale di Cristo, non di un ebreo di nome Gesù: non si mangiano proteine umane, bensì Cristo. Gesù risorto è Cristo e Cristo non è né ebreo o cristiano, né maschio o femmina.  In questo mistero di Cristo uno scopre tutta la realtà; i cristiania scoprono in e attraverso Gesù di Nazaret. Non sto dunque parlando di uno gnosticismo disancorato dalla storia, privo di carne e di ossa: la parola che Gesù usava era la parola del suo tempo, peraltro pronunciata in forma eretica, visto che irritava i buoni e intelligenti ebrei, i quali lo condannarono non perché fossero cattivi o perché Gesù costituisse per loro un pericolo, ma proprio per ragioni di coscienza. Tutti fecero il possibile per salvarlo, da Anna a Caifa, Erode, Pilato…

Trovo geniale che Panikkar dia una rilettura tutto sommato veramente contraria al nostro sostanziale pregiudizio semita. Gesù ha pronunciato la parola eretica, cosciente di farlo, è andato incontro al suo destino.

Gesù sarebbe il nome che i cristiani danno al mistero di Cristo?

 Cristo è il nome che i cristiani danno del mistero che hanno scoperto in Gesù e che chiamano messia, l’Unto”

Panikkar rigira la domanda. Cristo è il nome di quel pezzo di mistero di Dio, che riguarda noi e la nostra salvezza, che noi, in Gesù, riconosciamo. 

Gesù – gli esegeti concordano al riguardo – non si dichiara “messia” nel senso ebraico: se così fosse, sarebbe stato un fiasco totale, poiché il messia per gli ebrei è il signore della storia, anche se escatologicamente, mentre Gesù è vittima della storia.

Pur non condividendo tutte le conclusioni di Panikkar una della cose che mi piace tantissimo di lui è il suo non cercare scorciatoie. Trovo che di questi tempi avremmo di nuovo bisogno di un po’ di lucidità mentale, di prendere sul serio le cose e di affrontarne le conseguenze. Per noi tolleranti, dialogici, con la paura dell’integralismo sarebbe opportuno prendere sul serio le questioni e vedere dove ci portano, lasciarci anche scandalizzare. Panikkar dice che Gesù nella storia ha fallito, non ha risolto il problema dell’indipendenza di Israele. Panikkar è molto preparato sulla vecchia teologia, e fa un ragionamento che, di per sé, è corretto. La critica che io faccio a questo ragionamento, che pure trovo limpido e serio, è di essere uno di quei ragionamenti che però regge solo lui, nel senso che richiede talmente tante sfumature, precisazioni, comprensioni, complessità da essere esoterico, da non poter diventare patrimonio comune. I casi sono due: o è semplicemente immaturo, dunque forse fra cinquant’anni avremo un altro linguaggio, ad esempio sarà finito l’uso di simbolico, ecc e sarà spiegabile nelle omelie domenicali, oppure c’è qualcosa che non torna, qualche inghippo. Secondo me, una prudenza rispetto a opinioni di questo genere va tenuta, perché è una cosa calibratissima al millimetro e non su cose marginali, ma su temi centralissimi del cristianesimo che, in men che non si dica, ti ritrovi con un’altra religione. Capisco la necessità di prudenza. E’ in seguito alle sue tesi e a quelle di Dupuy che è uscita, come correzione, quella istruzione criticatissima della Congregazione per la Dottrina della Fede, la Dominus Jesus

Ciò apre la strada a una miriade di considerazioni circa la presenza del mistero di Cristo nelle altre religioni, come pure riguardo al rapporto tra cristianesimo e religioni, inclusa la cosiddetta pretesa alla verità assoluta avanzata dal cristianesimo

La verità assoluta è, a mio giudizio, una contraddizione filosofica: la verità è relazione,come sosteneva anche Tommaso d’Aquino. Siamo di nuovo nella “concettolatria”. Circa il rapporto con le altre religioni, osserverei in primo luogo che queste hanno un diverso linguaggio: perché allora utilizzare il linguaggio cristiano? Non mi riferisco qui tanto alla lingua, bensì alle forme di intelligibilità che ogni linguaggio usa per esprimere l’apertura al mistero.”

Noi parliamo di Cristo come simbolo e va bene, ma perché dobbiamo trasferirlo ad altri che hanno un’altra logica? Ma proseguiremo la prossima volta.