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Cristianesimo e modernità (V)

Gruppo del venerdì
Maggio 2004

Affronteremo in questo incontro l’intervista a Vergote, uno dei primi che, nell’ambito teologico, si è occupato del dialogo tra la teologia, l’esperienza del cristianesimo e la psicologia del profondo. Se ricordate, l’altra volta ne avevamo visto la citazione sul tema del desiderio.

La domanda dell’intervistatore dice:

“Oggetto di una lunga querelle che ha contrapposto protagonisti di primo piano della cultura del Novecento, il rapporto tra psicanalisi e religione ha conosciuto declinazioni assai diverse già a partire dai “padri fondatori” di questa nuova “scienza dell’anima”. Considerata da Freud come fenomeno regressivo legato all’illusione, la religione è stata invece riconosciuta come peculiare sfera della vita psichica dal più noto e geniale dei” figli degeneri” di Freud, lo zurighese Carl Gustav Jung”. 

Qui ci si riferisce al dibattuto all’interno della psicanalisi in cui, banalizzando, possiamo dire che per Freud la religione è una forma di patologia, di malattia: un’identità equilibrata non avrebbe bisogno di questa sorta di regressione infantile. Jung, uno dei discepoli di Freud, insieme ad Adler e ad altri, afferma che la religione non è una forma patologica dell’identità di una persona, ma invece una forma tipica con sue caratteristiche; è uno dei tanti modi in cui l’identità di una persona può realizzarsi, sostenersi. Questo dibattito è interno alla psicanalisi; poi, ovviamente, inizia ad essere problematico anche tra la psicanalisi ed il mondo religioso molto diffidente nei confronti della psicanalisi che si presenta come “scienza dell’anima”, cioè come la possibilità di dire in modo positivo le profondità dell’esperienza, attraverso regole, con terapie ed aiuti che non hanno nulla di divino.

Questo tema, secondo me, al di là dell’aspetto scientifico in senso stretto su cui ormai nessun teologo ha più pregiudizi a priori, nel nostro immaginario quotidiano ha pesato e pesa ancora molto. In qualche modo è ancora abbastanza tipico della nostra difficoltà perché in fondo noi, a differenza dei medioevali che pensavano l’anima come un luogo materiale (sezionavano i cadaveri cercando il luogo dove avrebbe dovuto essere l’anima), noi di questo sorridiamo sostenendo che l’identità spirituale della persona non è un organo come il fegato, ma abbiamo lo stesso una sorta di idea, non così materiale, come se ci fosse un “mondo spirituale”, un territorio del cuore, della mente. E ci fa impressione che sia sottoposto ad un’analisi che si pretenderebbe scientifica come quella della psicanalisi, così come quando facciamo l’esperienza degli antidepressivi in cui ci si rende conto che si può passare da uno stato di angoscia ad uno di ottimismo, e si ha la sensazione che tutto dipenda da un oggetto chimico in grado di cambiare le cose, e ciò ci disturba perché abbiamo una specie di presunzione sul fatto che ci sia una parte di noi che ci piacerebbe fosse inattingibile da ciò che consideriamo, volgarmente, scientifico. E questa resta una questione aperta, un problema reale.

Non è un caso che attualmente molti pensatori di un certo livello di teologia si stiano occupando di questa questione, del rapporto tra mente e cervello: esiste una cosa che si possa chiamare mente, cioè qualcosa di più ed intangibile, un sistema per cui la base materiale (il cervello) funziona, come in un computer, in cui senza il sistema operativo comunque non funziona nulla e non si può fare alcuna operazione? Si lavora dunque sull’idea se esista una differenza tra mente e cervello che per altro, anche dal punto di vista dei ricercatori, dei neurologi, è una questione aperta su cui si dibatte molto.

 Ho detto tutto questo in modo molto rozzo; il problema è molto più complesso. È indubbiamente innegabile che noi siamo un ammasso di dati biologici di cui conosciamo pochissimo, ma sempre di più. Questo tipo di dibattito è la questione che ha messo in crisi i rapporti tra psicanalisi ed esperienza religiosa la quale si era costruita su una filosofia ed un’antropologia medioevale molto lontana da questo tipo di problemi e dava per scontato tutto ciò che la psicanalisi e la psicologia mettono in dubbio. La religione si è costruita sul modo di concepire l’uomo, le sue percezioni, il dire reale, il dire vero-falso, molto precedente a tutte le questioni che abbiamo ormai interiorizzato circa questi problemi avendo un altro approccio rispetto a queste parole.

Il problema tra psicanalisi e religione non è tematico, cioè che riguarda solo il rapporto tra terapia analitica e fede religiosa, è un problema invece che mette in gioco indirettamente tutta la questione, le regole e l’idea di persona; e quindi chiaramente la psicanalisi viene vista come un pericolo mortale.

Dagli anni Sessanta ad oggi, dopo una lunga stagione di diffidenze e sospetti, anche negli ambienti accademici deputati allo studio della religione – sia laici che confessionali – sono stati attivati studi di psicologia della religione, oggi articolati in varie pratiche e indirizzi di ricerca (clinico, culturale, formativo ecc.). 

Professor Vergote, lei è universalmente riconosciuto come pioniere e maestro di questi studi: qual è il loro ambito e prospettiva specifica?

“La psicologia è una scienza empirica, che osserva e interpreta. Vari sono i modi dell’osservazione: si possono fare ricerche empiriche, poi rielaborate in chiave statistica, oppure osservazione critiche, prodotte per via di riflessione. In ogni caso l’interpretazione psicologica è sempre uno sforzo teorico per individuare leggi generali, a partire da osservazioni molteplici dalle quali emerge un’ipotesi esplicativa. L’indagine psicologica si applica così a qualunque ambito, religione inclusa. In tal senso la psicologia della religione studia l’atteggiamento – negativo o positivo – che una persona ha nei confronti di parole, segni, simboli religiosi. Sotto questo profilo anche l’ateismo convinto e l’ostilità verso la religione fanno parte dell’oggetto di studio di questa disciplina, perché esprimono comunque un’attitudine verso un messaggio religioso”.

 Questo per noi è chiarissimo: piccolo problema è che, per esempio, Ratzinger ha avuto molto da dire su questa questione, nel senso che viene messo su di un piano di parità l’atteggiamento dell’ateo e del credente quando il problema del cardinale sarebbe che viene relativizzata la questione della verità. Questo è il nodo grandissimo di scontro. Coloro che fanno questi studi dicono che l’unico modo per essere discorsivi, nella fede cristiana, è ridiscutere l’idea che si ha della verità, non negare la propria verità, ma provare a spiegarla partendo da un altro criterio e non dall’opposizione vero – falso. Nella pratica succede che il 90% dei nostri discorsi, in parrocchia, negli incontri, non sono più sul tema “questo è giusto, questo è sbagliato”, ma sul tema “questo dà senso alla vita e questo è insignificante”, ma la questione non cambia. Mediamente ormai il discorso è: “Questa cosa dà senso alla vita, è significativa, cambia l’esistenza, dà una forza, una speranza”, e ciò è una forma di ridefinire la verità.

 “Quali sono i temi e i simboli più interessanti per una psicologia della religione alle prese con l’universo simbolico cristiano?”.

“Temi importantissimi sono il rapporto tra amore e legge. Io distinguo due assi essenziali : quello del desiderio /godimento (jouissance) e dell’amore, e quello della legge / morale / rettitudine. Questo secondo asse mostra la presenza di una esigenza nel rapporto personale con Dio e dà a vedere che in ogni religione vi è sempre una legge morale. Nel cristianesimo si vive un rapporto personale con un Dio che è anche giudice; d’altra parte il Dio cristiano esprime anche ed essenzialmente – e ciò appartiene all’ordine del desiderio e dell’amore – una promessa di vita. un’accoglienza. Vi è dunque una polarità nel cristianesimo e la maggior parte delle ricerche psicologiche in tale ambito ruota attorno a questi due assi e ai loro legami e possibili contraddizioni. Facciamo un esempio: è noto che non c’è fede cristiana senza la fiducia in un Dio più forte della morte, senza riferimento quindi all’eternità e alla risurrezione come compimento della vita.Ciò indica il poter credere, senza difendersi contro la paura della morte. Ebbene vi sono persone che apparentemente manifestano disinteresse per il tema della morte, e che invece – come rivelano test proiettivi e ricerche empiriche – esprimono una grande attenzione inconscia al riguardo; il loro è pertanto un atteggiamento di difesa, che denota paura. Perché si ha paura? Sia perché si teme il giudizio (prodotto da una cattiva coscienza), sia perché vi può essere un certo orgoglio, che induce a non accettare quella dipendenza presupposta in ogni atteggiamento di fiducia verso una vita oltre la morte”.

 Così Vergote chiude il cerchio. Ridice che la polarità simbolica fondamentale del cristianesimo è nella tensione tra la legge dell’amore, del desiderio/godimento e la legge morale. Il luogo dove questo si vede benissimo è nell’atteggiamento rispetto alla morte perché non vi è cristianesimo se non c’è fiducia in una risurrezione, in un Dio della misericordia, dunque la certezza che, nei conti finali, prevale nella polarità il polo dell’amore e del desiderio. Eppure moltissime persone in modo inconscio mostrano una difesa, una paura rispetto alla morte profondissima perché hanno paura del giudizio ed hanno “l’orgoglio che non accetta la dipendenza”. E questi atteggiamenti sono due facce della stessa medaglia: o io ho paura del giudizio o ho paura di me stesso che non me lo sono guadagnato, poiché devo guadagnarmelo per poter affermare che non devo dire grazie a nessuno. Ma dato che nella vita ciò non è possibile, altrimenti non ci sarebbe il vangelo con la buona notizia che dice: “non lo meriti ma fa lo stesso”, abbiamo comunque paura della resa dei conti.

 Domanda: Non sono molto d’accordo con questa conclusione. Mi sembra che la paura della morte diventi troppo riduttiva. Con la morte tu cambi lo stato di vita e, come ogni cambiamento che può anche essere dalla vita di single a quella matrimoniale, o l’affrontare un intervento chirurgico, induce un senso di panico, ma è una sana paura per un istinto di conservazione.

* Qui Vergote non sta facendo una riflessione generale, sta parlando dei credenti e di coloro che apparentemente manifestano disinteresse per  il tema della morte e in cui dunque la paura rivelata dal test proiettivo è una paura inconscia. Questa intervista è un po’ sbrigativa; il suo pensiero nei saggi è molto più articolato, più ampio. Qui usa le cose per poter spiegare alcune sue tesi con cui si può essere d’accordo anche se il percorso non è sempre convincente. Per esempio, secondo me, sottovaluta tutto il tema della separazione che invece ha una simbolica molto forte. Trovo invece molto interessante che la polarità tra il tema del desiderio positivo, dell’amore come esperienza di fiducia, di affidamento all’altro ed il tema della legge siano una questione complessa, seria, da tenere presente e su cui ragionare a vari livelli. Per quanto riguarda il ragionamento sulla paura della morte credo che, anche qui, varrebbe la pena di riflettere, perché è un tema molto rimosso nell’esperienza umana, culturale e religiosa di questi tempi; non percorriamo le parole riguardo alla paura che questa esperienza ci fa, perché ci fa paura e di cosa veramente abbiamo paura.

Domanda: Perché paura? Personalmente non ne ho.

* Meno male. Per me invece è un tema che ricorre, anche in vista del giudizio.

 Domanda: Se tu credi che ci sia Dio ed hai paura del giudizio vuol dire che hai una grande fede, no?

* Non so se ho una grande fede però, sicuramente, nel mio mondo psichico, per come io sono cresciuta, il tema del giudizio è stato molto forte e dunque anche nella mia simbolica religiosa occupa un grande spazio. Sono una persona con un forte tema di perfezione, necessità di essere “perfettini”, e ciò mi gioca, da una parte, sul piano religioso, dall’altra su quello della responsabilità, di ciò che ti è dato e ciò di cui ti sarà chiesto conto.

 Domanda: Ricordo che negli anni sessanta uno dei temi nuovi che circolavano era più o meno questo: non devi immaginare un Dio che giudica; sei tu che, liberato dal corpo nei confronti dell’eternità, capisci di essere inadeguato o adeguato, cioè sei tu che ti dai il giudizio.

* Questo sarebbe anche peggio per me. Non so voi, ma su questi temi penso molto, non per paura del giudizio come da bambino (adesso mi puniscono perché ho preso la marmellata), ma per l’idea che c’è un bilancio e ci saranno alcune cose su cui, comunque, non si potrà tornare indietro.

 Domanda: Dico un ragionamento mio, riguardo a come ho impostato la mia vita: io faccio ciò che in questo momento, in base alla verità che conosco, sono in grado di fare e non è la verità mia di giorni passati da poco o da molto tempo. In questo sono nella pace più assoluta nel senso che, se morissi in questo momento, mi presenterei a Dio nella situazione in cui mi trovo. Non esiste “giudizio” perché c’è una coerenza che uno si porta dietro: se penso che darti una sberla sia giusto, cristianamente, fraternamente , te la do.

 Domanda: Ma non è un impiantare tutto l’universo intorno a quello che uno pensa? È vero che il confine di verità è molto labile, ma alcuni dati oggettivi ci sono; nel vangelo è detto chiaramente: “Ero nudo e mi avete vestito, avevo fame e mi avete dato da mangiare […]” E se qualcuno crede sia giusto poter torturare pensando di costruire una società migliore, personalmente ritengo che non spetti a lui dare il giudizio ed ho qualche dubbio che possa poi giustificarsi dicendo che così sentiva.

* Su questa questione a me resta un dubbio previo: più vado avanti, sempre di meno e sempre con minor certezza so qual è la mia verità. Ci si trova in situazioni in cui non si è più bambini, non ci si può appoggiare ad altri oppure si è vincolati da chi ha deciso per noi, quindi bisogna assumersi la responsabilità di decidere, magari pure in fretta e non resta che rivolgersi allo Spirito Santo affinché se ne occupi, però non sono quasi mai convinta che la mia reazione o le cose da me dette, l’ascolto o il soccorso offerto, siano esattamente ciò che andava dato. Anch’io cerco di regolarmi con la logica di fondo che è di disponibilità a Dio e spero che questo mi sia computato a giustizia. A volte però ci “mangiamo” qualcosa di così prezioso che sono le vite e il cuore delle persone che incontriamo

“Avevo fame, avevo sete…”, credo sia un principio critico fondamentale del cristianesimo, cioè il contrario di ogni fondamentalismo. Esercitarsi nell’esperienza del cristianesimo fa sì che sempre meno ognuno possa prendere se stesso radicalmente sul serio. Nei giorni scorsi riflettevo che, in fondo, la paura del giudizio è la grande vaccinazione contro ogni forma di idolatria. Mi spiegava un ragazzino ebreo che la kippà  portata dagli ebrei maschi è per ricordare sempre che c’è qualcuno al di sopra di loro; il simbolo è carino in quanto ricorda che non sei tu l’ultimo referente, non puoi prenderti così sul serio da pensare che ciò che tu sei, pensi, dici, pur con la migliore delle intenzioni, con il massimo rigore dell’intelligenza, sia il criterio ultimo. Non c’è un’idolatria possibile e per questo, forse, sia l’ebraismo che il cristianesimo, considerano l’idolatria il peggiore dei peccati possibili.

 Domanda: Forse per questo il cattolicesimo ha poi tolto la kippà ai maschi ed ha messo il velo alle donne per ricordare che c’erano i mariti al di sopra di loro ?

* Ahimè, credo di sì.

 Domanda: Comunque io, se dovessi pensare che una volta morta, essendo cristiana e credendo in un Dio padre, dovessi annullarmi, cambierei religione subito.

* Non di annullarti nel senso che non ci sei più, ma che non puoi più esercitare libertà e quindi non hai più scelta.

 Domanda: Ma se è vero che siamo tutti salvati, perché avere paura? Quando tu fai una certa scelta, cerchi di rispettare gli altri, perché avere paura se Dio è buono? Io non ho paura!

* Sono assolutamente convinta che Dio raccolga nelle sue mani ciò che noi siamo, soprattutto se c’è l’opzione di fondo nei confronti di Dio: fin dove capisco, come riesco con tutti i miei limiti, mi metto da questa parte. Per me, questo tema, non è tanto la paura di un Dio cattivo, giudice, ma di un io inadeguato.

 Domanda: Secondo me vuol dire anche non aver fiducia in Dio, di sottovalutarlo. Pensiamo alla parabola del Padre misericordioso: quale figura più bella di un Padre che ti viene incontro nonostante tu ti sia fatto dare l’eredità in anticipo e lo abbia lasciato e deluso?

 Domanda: Ma ci sono anche i capri da una parte e gli altri dall’altra.

* A citare per immagini c’è un po’ di tutto nel vangelo ed il tema del giudizio c’è. Ma io sto dicendo che per me, Stella Morra, la fiducia in Dio è un punto di arrivo, non di partenza. Spesso noi parliamo di questi temi come se fosse assolutamente normale e spontaneo dire: “Ho scelto di credere e dato che così ho scelto, mi fido di Dio.” Non è vero. È come quando uno si innamora di un altro ed impiega una vita a fidarsi fino in fondo. Poi certamente vuoi fidarti perché sei preso da quella persona e ti piacerebbe poter fidarti immediatamente di lei, ma non è così, perché uno impara progressivamente con una serie di aggiustamenti. Per me, nella mia vita di fede, a partire dalla mia educazione, dalla mia storia, è assolutamente la cosa più difficile al mondo l’esperienza di fidarmi di Dio da questo punto di vista: il non pensare che devo arrivare fin lì con centodieci e lode.Credo che questo sia semplicemente la storia di cristiani adulti i quali sanno che, sull’una o sull’altra dinamica dell’esperienza di fede nella loro vita, fanno più o meno fatica. Per me, questo, è un tema forte, ma non da generalizzare; vuol dire reimparare a confrontarsi sulle proprie esperienze di fede, sullo scambiare quali sono i nostri temi, riconoscerli e dar loro un nome.

Però è vero, ed in questo ha molto ragione Vergote, che, rispetto al cristianesimo questa cosa è una polarità: c’è l’asse della fiducia e l’asse del giudizio ed entrambi vanno presi sul serio. L’ultima parola è la fiducia, è la sovrabbondanza di vita della risurrezione, ma non si può prenderne una sola delle due: né solo il giudizio con una moralizzazione del cristianesimo, né solo una sorta di faciloneria a buon mercato. Esistono i due temi e imparare a tenere insieme questa polarizzazione è complicato.

 Domanda: Questo è il vivere quotidiano, come in altri aspetti per cui tu fai sempre l’equilibrista. Personalmente sento che più passano gli anni più voglio addolcire, non esasperare.

Domanda: Su queste logiche, in base alla mia esperienza, per me, non è tanto il problema del giudizio, della paura, quanto del tempo che manca per fare ancora questo o quello.

Domanda: Su queste cose ognuno ha la sua sensibilità.

 “Le chiese si svuotano sempre più mentre l’interesse per un sacro non dogmatico continua a crescere. Cosa pensare?

“Si tratta, a mio giudizio, di una reazione: da un lato contro il razionalismo troppo stretto della nostra cultura, che ha escluso la dimensione religiosa, e dall’altro contro una chiesa che ha troppo spesso, regolarmente e con evidente impazienza imposto una presentazione molto teologizzante della fede cristiana. Con un sacro non dogmatico ci si sente invece liberati dalla gabbia culturale ed ecclesiastica. Occorre poi riconoscere che non si è sufficientemente rispettato il fatto che in una cultura critica (sotto il profilo ideologico, filosofico, psicologico, ma anche biblico)come la nostra, l’uomo viene in contatto anche con il messaggio di altre religioni ed è mosso a scoprire progressivamente il cristianesimo. La stessa fede, peraltro, è progressiva: quando non si rispetta questo elemento di fondo, sarà inevitabile una pronta reazione. Le persone non vogliono essere soffocate dai dogmi, vogliono piuttosto una certa libertà. D’altra parte è vero anche che, pur nella migliore delle situazioni pedagogiche che la chiesa possa creare, vi sarà sempre una ragione di difficoltà, perché il proprium del cristianesimo è che Dio viene all’uomo, mentre tutta la cultura moderna, soggettivista, vuole piuttosto che sia l’uomo a scoprire Dio e a costruire la propria idea di Dio. In filosofia il tema dell’Homo faber è stato fortemente criticato da Heidegger, severo verso la centratura antropocentrica del pensiero, secondo la quale l’uomo non è colui che deve ricevere e scoprire bensì colui che mira a costruire. Questa visione in fondo applica alla religione ciò che è proprio dello spirito tecnico e delle costruzioni teoriche scientifiche. Ma rispetto all’amore, alla natura, a Dio, l’uomo deve scoprire e lasciarsi interpellare da ciò che giunge a lui. È una disposizione di accoglienza, che è insieme attiva e passiva, perché si tratta di ricevere e appropriarsi attivamente”.

Questo passo spiega in poche righe tutta la fatica che abbiamo fatto in questi anni sul tema :”Ho scelto di credere o di non credere” e su tutto il tema delle due logiche: una tecnica scientifica (utile rispetto a tutta una serie di questioni) e l’altra con le questioni che non funzionano con quella logica. E l’esempio dell’amore è quello più quotidiano che abbiamo, di una cosa che non funziona in quella logica, perché il rapporto tra fare e ricevere, scegliere ed essere scelti, è diverso rispetto alla logica scientifica, concettuale, tecnica in cui ognuno può scegliere, fare, disfare. Nel rapporto interpersonale, nelle amicizie, negli amori, nelle famiglie, così come nella fede, è proprio una logica diversa. E rappacificarsi con l’idea di avere due logiche coesistenti non vuol dire che una è sbagliata e l’altra giusta ma che hanno ambiti diversi di applicazione, è un fatto secondo me è fondamentale.

 Domanda: Tutto quello che ci è dato, i nostri cromosomi, la nostra determinazione biologica, deve pur contare qualcosa anche alla luce della fede. Voglio dire: se uno è generoso di natura non è meritevole e invece chi è tirchio, poveretto, se si sforza e combatte ha fatto un percorso di miglioramento.

* Questo è sempre nella logica dell’homo faber, che però è la logica della legge ebraica in cui ci sarebbe uno standard e, siccome tu parti da svantaggiato, ti premiano anche se non arrivi allo standard. Nella fede non è che ti modifichi, perché in realtà, è Dio che ti modifica. Se tu vivi quotidianamente con una persona, è dalla presenza stessa di questa persona che ti trovi modificato e non perché tu ti sei sforzato; certamente c’è anche una parte tua. La logica della fede è la stessa: se tu accogli Dio nella tua esistenza, questa presenza ti modifica, certo non senza di te.

 Domanda: Non riesco a spiegarmi. Ad esempio: tu hai delle ricchezze e ne fai parte ad altri e questo potrebbe costarti poco; se invece ti viene chiesta attenzione al dialogo agli altri e tu non hai mai tempo, non lo dai. Evidentemente questo è il tuo limite.

* Sono un po’contraria a questa logica nel senso che se tu la porti all’estremo, sarebbe che è meritevole solo ciò che ti disturba, principio che nel cattolicesimo è stato molto usato: ciò che ti faceva piacere contava zero, quello che ti stava sui denti era prezioso, come con la medicina che se non è amara non fa bene. Questa cosa non è tanto vera. Il problema rispetto a Dio è proprio un altro: se tu accogli Dio nella tua esistenza, poi succedono delle cose, come sempre quando tu accogli una persona viva e che fa la sua parte, imprevedibile a priori perché ha la sua libertà che gioca giorno per giorno, dunque alcune cose sono secondo le tue aspettative, altre no. Dio che entra nella tua esistenza è come se costruisse continuamente uno scenario diverso su cui tu giochi la tua parte, un po’ cedendo, un po’ scegliendo, un po’ inventando e di queste cose alcune ti piacciono sono belle, ti vengono spontanee, altre non ti piacciono e ti sono difficili. Quindi il criterio non è nella fatica che tu hai fatto per modificarti.

 Domanda: Allora qual è?

* Non è quello dell’uomo faber. Quello che conta è ciò che tu riesci a fare con la buona volontà, ma se non c’è la dimensione di Dio, il fatto che non dipende da te…..” Senza di me non potete far nulla” è il centro della questione. Quindi non c’è un criterio meritocratico.

Io non credo che in chi è insieme da tanti anni come voi, il giudizio su come ha funzionato questa storia stia su quanto uno è cambiato rispetto ad alcune cose che magari danno fastidio, anzi in genere queste sono proprio le cose in cui non si cambia; però tutti gli anni insieme hanno una ricchezza. Mi pare che la questione rispetto a Dio sia che se Dio entra nelle nostre vite, le modifica con un gioco quotidiano che non è quello che io sono o non sono, ma è l’obbedienza alla storia per come mi si propone giorno per giorno, perché questa storia che io vivo è proposta da un Dio presente nella misura in cui ho una scelta di fondo nella ricerca di riconoscerlo nella mia vita, nelle cose che mi capitano.

 La presenza di Dio non deve essere limitata quando incontro una persona o quando devo prendere una decisione importante. Il problema è di riuscire a farLo compenetrare nel tessuto di tutta la vita da quando ti alzi al mattino a quando vai a letto e magari dici le preghiere; lo stesso mettere il caffè nella tazzina, se non c’è questa presenza di Dio, il caffè non è buono. E questo è comunque il gioco di tutta la vita. Ecco perché poi uno dice “giudizio di Dio”. Dio ogni istante dà il suo giudizio che non deve essere però un’idolatria in quanto mi creo un Dio, piuttosto questo Dio mi viene fuori dai due polmoni che possono essere lo studio della Parola e la preghiera. Però, secondo me, se in ogni azione che tu compi, in ogni respiro che fai, non hai Dio presente allora sì che poi ti diventa difficile.

 Domanda: Però c’è anche il rischio che tu te lo crei e te lo plasmi. Invece se tu lo lasci entrare nella tua vita poi, secondo me, proprio un dialogo non è e quindi senti che Lui fa delle cose che tu non riesci a capire e allora magari hai sbagliato nell’interpretarlo.

* Però c’è uno spazio che forse ignoriamo: stiamo parlando nell’ambito del cristianesimo dove noi non siamo io e Dio e null’altro. Noi siamo all’interno di un popolo, di una chiesa che ti aiuta altrimenti non c’è più alcun riferimento.

 Domanda: Io pensavo: diamo per scontato che crediamo in Dio e Dio è nella nostra vita ma davvero penso che se non fossi nutrita dalla Parola e dalla preghiera non so come farei.

* Trovo bellissimo che questa sera, dopo tanti anni, forse per la prima volta, siamo entrati in un mondo molto concreto. Personalmente, costretta a fare l’intellettuale per mestiere per di più sulla teologia con un lavoro mentale su svariate questione, nella vita quotidiana cerco ossigeno nelle cose semplici. Per me tutti i discorsi che avete fatto sono il referente quotidiano che mi manca moltissimo; rispetto alla presenza di Dio sono quello che l’evangelo chiama i “poveri” che non vuol dire necessariamente solo quelli che non hanno soldi, vuol dire gli altri con i loro bisogni più disparati: da quelli molto concreti agli altri quale il tempo, l’ascolto. A me pare che questa dimensione fa stare con i piedi abbastanza per terra rispetto a tutti i rischi possibili in cui secondo me non si cade facilmente dentro, però esistono, anche perché il bisogno dell’altro mostra sempre il tuo bisogno. Per me in questo tempo, ma anche come nei rapporti umani ci sono stagioni, fasi della vita in cui è più importante una cosa e fasi in cui è preminente un’altra, la presenza quotidiana dell’altro, con il telefono che squilla dal mattino alla sera, veramente, l’esperienza del bisogno dell’altro, mi sembra il luogo dove Dio mostra il suo livello di esigenza che in questo tempo mi pare alto. Ragionando con Manuela lei diceva che non si può insegnare ai nostri corsi di teologia, ma bisognerebbe farlo, avere il coraggio di dire che l’ottavo sacramento sono gli altri, in particolare gli amici che rappresentano il luogo in cui ti nutri dell’esperienza di Dio.

 È che Dio è fortemente strano. Più tu riempi le brocche che gli altri ti danno, più arrivi al punto in cui non ce la fai più, non ne hai più e ne hai bisogno tu stesso, ma, inspiegabilmente Lui le riempie di nuovo. E c’è questo travaso….

Domanda: Non sono ancora arrivata a questo punto, ma sostanzialmente è vero.

Domanda: Io ho una vicina che aiuta sempre tutti, mette gli altri prima di sé anche se fa fatica e le costa. Non so come faccia.

* Da un decennio ho maturato l’idea che noi possiamo giudicare solo la nostra fatica e la nostra fede e non possiamo neppure credere troppo alle parole degli altri sulla loro fatica e sulla loro fede nel senso che, veramente gli altri sono un mistero, soprattutto su queste questioni.

 “Mistero è l’uomo ed il suo cuore un abisso”.
”Colui che sta nei cieli se ne ride”