Skip to main content

Cristianesimo e modernità (VI)

Gruppo del venerdì
Ottobre 2004

Prima dell’estate stavamo leggendo l’intervista a Vergote. Riprenderei l’ultima domanda che avevamo visto ed in cui l’intervistatore diceva:

Le chiese si svuotano sempre più mentre l’interesse per un sacro non dogmatico continua a crescere. Cosa pensare?

Si tratta, a mio giudizio, di una reazione da un lato contro il razionalismo troppo stretto della nostra cultura che ha escluso la dimensione religiosa, dall’altro contro una chiesa che ha troppo spesso, regolarmente e con evidente impazienza, imposto una presentazione molto teologizzante della fede cristiana.”

* Questo passaggio è, secondo me, interessante. Dice che questa sorta di rinascita del sacro generico, diffuso, che noi chiamiamo “clima da new age”, è legata ad una situazione relativa che però ha due cause, non solo una reazione contro il razionalismo più o meno imperante o comunque una certa mercantilizzazione materiale legata al denaro in cui sempre più gente si sente giustamente soffocare, ma anche una reazione contro un’esperienza del cristianesimo diventata troppo razionalistica e troppo moralistica in quanto ha perso il suo potere vitale, il suo radicalmente popolare. Uso quest’espressione perché non vorrei entrare nel binomio molto pericoloso in cui il contrario di razionale sarebbe sentimentale, altra menzogna tipica della nostra cultura per cui ci sarebbe da una parte la ragione, anaffettiva aemotiva, fredda, lucida, oggettiva e poi, dall’altra, tutto il mondo emozionale, affettivo, femminile, oltre a tutto il sacro. Questo è un falso binomio perché intanto anche scientificamente dal punto di vista neurobiologico si va sempre più dimostrando che l’attività di ragione, della mente, ha una componente affettivo-emotiva, che il rapporto tra processi logici e percezione ha un processo privilegiatamene emotivo. Peraltro si va dimostrando che emotivo non è necessariamente irrazionale (pregiudizio di tipo romantico) e che non esiste un razionale freddo, oggettivo, puramente meccanico, perché il logico, ad esempio, richiede creatività e questa, come l’intuizione non è oggettivizzabile in senso freddo, immediato. La contrapposizione non è questa, dunque; piuttosto è quella tra un’esperienza della fede cristiana razionalizzata e moralizzata, dunque teologizzata nel senso negativo, cioè resa sapere specifico, specialistico, tecnico, riservato ad alcuni, contrapposta ad un sapere “popolare”, radicato nel linguaggio e nell’esperienza più diffusa.

Noi oggi, molto più che negli anni settanta, abbiamo chiara questa questione quando pensiamo ai mezzi di comunicazione di massa: la televisione è sicuramente un sapere popolare, nel senso che è un linguaggio, una serie di stereotipi, una logica, un insieme di immagini, di modelli che si è agganciata su una larghissima diffusione, comprensibile ai più e addirittura esportabile in modo transculturale per alcuni aspetti. È lo stesso target di gente in quasi tutti i paesi del mondo compresi quelli sottosviluppati, anche se numericamente più ristretti che vede la CNN, perché essa ha un tipo di linguaggio capace di individuare un target che si trova nei paesi occidentali, arabi, africani, dovunque, e, in modo analogo, c’è uno stesso target che recepisce le telenovele brasiliane nel mondo per cui, tradotto il parlato, si possono esportare dovunque. Questo dice che cosa vuol dire il sapere popolare, cioè una cosa che si aggancia su alcuni archetipi di fondo per cui il modo è sicuramente diverso, con reattività diverse perché diverse le culture e il livello di istruzione, ma tutti capiscono ciò di cui si sta parlando.

La fede cristiana, per secoli, aveva trovato, in quella che si chiamava la pietà popolare, almeno fino all’ottocento, (dopo non più e purtroppo la pietà popolare che noi abbiamo in mente è quella postottocentesca, tranne rare eccezioni) una formulazione popolare dove “popolare”non era dispregiativo, tutt’altro, era radicato nella vita della gente che recitava il rosario nello stesso modo in cui preparava la minestra e nessuno aveva bisogno di spiegarglielo perché la gente ci metteva dentro cose spesso diversissime tra di loro, ma con alcune dinamiche di fondo di cui tutti si sentivano padroni. Nessuna vecchietta normale, fino ad un secolo fa, aveva il minimo dubbio sul fatto di”guidare il rosario” e non diceva di essere incapace: prendeva la corona ed iniziava la recita perché la sentiva come una cosa del tutto ordinaria, che faceva con assoluta tranquillità proprio come il minestrone, naturalmente secondo il modo suo. Allo stesso modo, rispetto un certo modo di vivere la vita cristiana, la fede è stata geniale. Aveva costruito un insieme di saperi: gli elenchi di vizi e virtù, un certo tipo di agiografia legata ai santi, un certo tipo di conoscenza mnemonica della parola di Dio che nessuno leggeva, ma di cui tutti conoscevano una serie di frasi che addirittura diventavano proverbi.Tutto questo noi ce lo siamo giocato a partire dal cinquecento con la crisi della Riforma; ma poi molto più gravemente a partire dall’ottocento con la Modernità, ci siamo giocata la possibilità di tenere insieme ragione e sentimento in un’esperienza popolare, comprensibile rispetto alla vita. Questa questione è decisiva perché, dice Vergote, la reazione è la ricerca di sacro di altre culture popolari, dunque di un sacro gestibile, in qualche modo alla portata, con tutti i limiti ed i pregi che ne conseguono.

Per questo Vergote dice: ”Con un sacro non dogmatico ci si sente liberati dalla gabbia culturale ed ecclesiastica”. Qui dogmatico non vuol dire un sacro che ti dica ciò a cui devi credere, vuol dire purtroppo molto di più. Che per noi “dogmatico” significhi l’obbligo di credere alcune cose, è frutto della crisi ottocentesca; cioè per noi dogmatico è identificato con dei contenuti razionali da credere senza capire, ma perché questo è l’ultimo strascico della crisi generata dal contrapporre ragione e sentire. In realtà la radice è molto più grave perché se fosse solo un problema di cultura, di capire, si risolverebbe ancora, ma il problema è che noi, anche i più credenti, non abbiamo più la stessa manualità con la fede. Oggi si sente dire: ”Ma qualcuno deve spiegare le cose della liturgia”. Alle nostre nonne chi ha mai spiegato? Ne capivano pure meno di noi perché stavano di fronte ad un mondo in latino e molto più farraginoso; però non hanno mai avuto il problema di capirla in quanto avevano molto chiaro che stavano da un’altra parte: c’erano alcune cose che per loro avevano dei riferimenti precisi, giusti o sbagliati che fossero, e poi c’era un luogo, della Chiesa, dell’Eucarestia, del Vespro, del Rosario, dove ognuno metteva una serie di cose che restano quelle vere. Noi oggi recuperiamo queste cose solo con un passaggio razionale molto faticoso per cui uno dice: ”Forse posso anche accendere una candela a santa Rita” perché antropologicamente ciascuno di noi nella vita ha dei momenti in cui è talmente disperato che ha bisogno di fare qualcosa, ma sa perfettamente che non c’è nulla di utile che possa fare, dunque compie questo gesto che non riguarda per niente santa Rita e nemmeno il Padreterno, ma solo lui stesso. É un po’ come il gesto nostro di accendere alla finestra una candela dopo l’attacco terroristico di Beslan che ci fa sentire molto moderni, ma non risolve il terrorismo, però è vero che sono dei buchi tali che ognuno ha bisogno di sentirsi fratello con gli altri e in qualche modo sta dicendo al mondo di non essere d’accordo pur facendo un gesto che sa essere simbolico.

Noi pensiamo che la cosa fondamentale sia l’intenzione; loro erano molto più consci che l’universo è nella mani di Dio e dunque facevano un gesto assoluto di abbandono. Noi, con meno soddisfazione ed un sacco di fatica in più, abbiamo bisogno di tutta una giravolta razionalistica per poter concederci la stessa cosa che, radicata nel sapere popolare, era assolutamente un gesto di abbandono. Sarebbe però una menzogna dire che potremmo agire con la stessa semplicità perché non ci viene più spontaneo, non è più radicato; anche per noi il sapere cristiano resta un sapere dogmatico, anche se poi borbottiamo, ce lo sorbiamo, cerchiamo di capirlo, facciamo del nostro meglio. Dico questo per dire che anche chi sta dentro a tutto un percorso di fede non è diverso dagli altri; pur rimanendo dentro abbiamo perso un radicamento popolare per cui il gesto di accendere una candela non ci viene più con l’innocenza e se ci viene è frutto di un marchingegno di lavoro mentale.

Domanda La cosa ancora più semplice, fare il segno della croce passando davanti ad una chiesa o ad un funerale una volta era normale. Adesso lo si fa quando si gioca a calcio.

* Adesso è osceno, perché è fuori da ogni radicamento popolare, però noi siamo presi comunque in questa strettoia. Il mio professore dice sempre, e credo che Vergote lo sottoscriverebbe, che siamo dopo Freud, che lo sappiamo o no, e abbiamo perso l’innocenza, non ci riesce di tornare ad essere innocenti. Il che però non vuol dire che non ci dobbiamo interrogare forse in modo opposto, razionalistico invece che prerazionalistico su come un radicamento popolare è stato possibile e forse bisogna inventarne un altro, post Freud, ma senza illuderci che la gente alla ricerca del sacro altrove sia solo gente sentimentale o che ha un’idea magica della realtà. Questo è un bisogno, una dimensione reale che anche chi sta dentro alla chiesa avrebbe bisogno di trovare e che forse ritrova con forme diverse: il piccolo gruppo, la ritualità di Acceglio, cioè una serie di ritualità che ci siamo inventati attraverso una familiarità alla fede che a noi paiono più sane rispetto a quelle dell’ottocento perché, essendo le nostre, le capiamo.

Domanda  In Messico c’è una comunità che mantiene dei riti, una miscela di riti pagani e cristiani, però traspare un modo, un’immediatezza di lasciarsi andare. È una comunità che da secoli mantiene questi culti senza nessun problema.

*Anche i nostri nonni e bisnonni nelle valli avevano la bellezza di riti pagani intrecciati con quelli cristiani. Erano una meraviglia. Noi, di fatto, anche da questo punto di vista abbiamo perduto l’innocenza. Però il problema che io vorrei sottolineare è che resta la questione, un qualche modo non razionalistico, di agganciare una quotidianità della vita, per cui non è possibile che una fede significhi che ogni gesto ci costa ore di riflessione, di confronto, di esame morale, oppure semplicemente come in fondo facciamo tutti, cercando di essere brave persone, non fare azioni peggiori e poi, ogni tanto, avere un tema religioso. Per il resto il novanta per cento delle nostre azioni sono semplicemente le azioni tipiche di questa cultura cercando di essere una brava persona. Sbraitiamo tutti la giustizia, la carità e poi quando compiliamo la dichiarazione delle tasse ci aggiustiamo con un certo realismo perché non sopportiamo l’idea di dover sempre fare un esame e di arrivare sempre a conclusioni esasperate. Il problema dunque resta: quello di ritrovare un sacro maneggiabile nella vita quotidiana e sopportabile in ogni ingabbiamento del dualismo ragione-sentimento. Questo problema resta per il cristianesimo, è un dato reale.

“Occorre poi riconoscere che non si è sufficientemente rispettato il fatto che in una cultura critica (sotto il profilo ideologico, filosofico, psicologico, ma anche biblico) come la nostra, l’uomo viene in contatto anche con il messaggio di altre religioni ed è mosso a scoprire progressivamente il cristianesimo. La stessa fede, peraltro, è progressiva: quando non si rispetta questo elemento di fondo, sarà inevitabile una pronta reazione”.

* Questo è di nuovo un altro problema che noi ci trasciniamo in modo drammatico dall’ottocento perché il cristianesimo si è trasformato in una forma di appartenenza la quale non è mai progressiva: o è sì o è no. Questo ha marcato il cristianesimo perché esso, tanto per fare l’esempio di sempre, come una logica amorosa, nel novanta per cento dei casi, è no per dire sì, sì per dire no, non so ancora, forse sì, domani forse più sì di oggi, perché un amore non funziona secondo una logica di appartenenza; ha alcuni picchi in cui uno prende delle decisioni, alcuni punti crinali in cui poi dividere i due percorsi oppure fare un passo avanti. Da lì in poi, però, al successivo punto di chiarezza, è un progresso con tentennamenti fino ad un altro punto critico che in genere non è più posto a tavolino, ma proposto, da un lato da chi si ha davanti e dall’altro dalla realtà delle cose. Una fede funziona in questa logica non in quella di un’appartenenza. Questo elemento di progressività, nella reale vita di fede, ce lo siamo giocato totalmente. Al massimo capiamo che quando uno ha detto sì, cioè sta dentro ad un’appartenenza, poi, comunque bisogna continuare a convertirsi, a migliorare, ma a partire dalla logica che ci sarebbe un crinale iniziale: sì – no. Se dico sì, poi c’è una via in salita, una conversione. E questo ragionamento non mi torna, perché mi aspetterei che se dico sì (se do la risposta giusta) al limite poi mi dovrebbero dare un premio. Il meccanismo è totalmente sballato.

Per i cristiani si dovrebbe trattare invece un’esperienza progressiva dove tu, come in ogni rapporto umano tra marito e moglie, tra genitori e figli, in un’amicizia, e, paradossalmente anche in esperienze professionali, hai dei punti di chiarezza che sono bivi decisivi, ma sono sostanzialmente pochi perché non è che metti sempre tutto in discussione altrimenti diventa un incubo. Intorno a questi bivi decisivi dopo si realizza un tempo in cui sei anche un po’ premiato e in cui progressivamente comprendi e vivi di più.

Domanda Ma ….. migliorare ha una forte connotazione moralistica.

* Sì,volutamente, proprio in termini negativi. È vero che il vangelo dice sempre che dobbiamo convertirci, ma noi nella nostra testa traduciamo: fare grandi sforzi, che non c’entra con il cristianesimo. Noi pensiamo appunto l’idea di un dato di appartenenza e quindi all’interno del sì bisogna migliorare, detto in termini negativi, mentre la logica è la conversione in una situazione relazionale.

Questa questione è, per il cristianesimo, antica quanto il suo impatto con il mondo greco che, nel mescolarsi, al tempo dei Padri con il cristianesimo, ha finito col rendere quasi indistinguibili gli elementi greco – ellenistici ed il mondo cristiano. Una delle doti portate al cristianesimo dalla filosofia greca è la comprensione dell’ascesi che già nel mondo greco si presentava con due facce:

v     quella più platonica che era l’idea dell’ atleta il quale per ottenere risultati deve fare esercizio; è l’ascesi come allenamento e dietro questo c’era un’idea molto concreta, quella che noi non attribuiamo al platonismo ma invece è proprio platonica e cioè che, essendo una dualità di spirito e corpo, dobbiamo allenare l’uno e l’altro in quanto entrambi sono l’elemento con cui noi viviamo. Per questo l’ascesi aveva una grande connotazione anche fisica, di digiuni, perché era il corrispondente a un’ ascesi dello spirito non essendo noi puri spiriti;

v     l’ascesi del mondo gnostico in cui, appunto, il modello è lo gnostico che noi oggi potremmo dire colui che interpreta il mondo, il corpo, la carne come illusione, caduta, peso; in questa logica migliorare significherebbe spiritualizzarsi, e dunque fatica, combattimento contro le proprie tendenze e i propri piaceri.

Queste due sottolinature nel cristianesimo sono sempre stato compresenti, cioè ci sono sempre state tutte e due perché sono state portate in dote dal mondo greco con oscillazioni in un periodo o in un altro sull’una o sull’altra interpretazione. L’ascesi ottocentesca era nettamente di tipo gnostico: sessuofobica, anticorpo… mentre ad esempio nei secoli dal IX al XII, fino alla crisi riformista, la grande prevalenza, per cinque – sei secoli, era l’ascesi di tipo platonico, cioè pedagogica con l’idea che, come ogni grande impresa, una vita non è inventabile su due piedi..Dunque: servono i digiuni, sì se servono, no, se non servono, altrimenti è una dieta oppure anoressia. Il problema non è il cibo ma che cosa io posso ottenere da me e dalla mia vita rispetto all’obiettivo che mi do; allora devo avere un obiettivo, sapere chi sono io e come arrivo all’obiettivo; dunque si può digiunare del pane ma anche delle parole ed anche dell’eucarestia. Tutto questo era figlio della Regola di Benedetto che aveva un’idea di questo genere e per cinque – sei secoli l’ha irradiata sul cristianesimo.

Tutto questo ragionamento per dire che, quando noi diciamo conversione, nel novanta per cento dei casi abbiamo ancora in testa un modello gnostico ottocentesco in cui l’idea è, banalizzando: se c’è una cosa che ti fa piacere è male, perché l’unica cosa virtuosa e meritoria è ciò che ti costa, è la medicina giusta, altrimenti che merito c’è. Anzi, se ti piace, diffida! Ancora oggi, quando diciamo migliorare o convertirci, come ha cercato di metterci in testa Vaticano II, quello che intendiamo è migliorare nel senso gnostico, mentre convertirci a me sembra più consona all’idea platonica dell’atleta. Paolo dice: ”Ho corso la buona corsa, ho combattuto la buona battaglia”. Allora se, come dicono tutti: ”Per i figli si fa qualsiasi sacrificio”, alla fine, malgrado non sia una passeggiata, non è che pesi perché si fa per loro; oppure se uno decide di fare la casa e si impegna con un mutuo per trent’anni, fatica non poco perché deve rinunciare a molte cose, ma poi è contento perché ha usato una logica atletica nel senso che ha messo in ballo una serie di costi che non tutte le sere gli sono graditi, però poi, nel bilancio globale, alla fine ha compiuto un’impresa raggiungendo uno scopo.

Domanda E questo è il paradiso?

* Esatto. La logica cristiana sarebbe di più in termini platonici, cioè l’idea che il paradiso vale qualsiasi battaglia, non per guadagnarselo, ma perché uno costruisce il proprio sé, diventa se stesso in Cristo fino al punto che è talmente pieno …….. che è in paradiso.

Domanda Questo atteggiamento traduce, secondo me, la parola greca “metanoia”, proprio un cambiamento di mentalità, un’altra visone delle cose.

* Metanoia è un termine neutro in greco, può essere letto sia in termini gnostici sia in termini platonici perché è un cambiamento

Domanda Però è nel termine stesso, greco, che si spiega l’ambivalenza.

* L’ambiguità esiste, è interna al cristianesimo fin dal suo impatto con il mondo greco. Un po’ meno forte è l’ambiguità nel mondo semitico che però, da questo punto di vista, ha uno spessore storico troppo ristretto per poter dire con certezza “Gesù intendeva questo….”. Di per sé il cristianesimo si è talmente ed immediatamente innervato sull’ellenismo che, come tutti coloro che io ho letto e con i quali sono d’accordo, dicono che per aver interiorizzato così fortemente queste due facce, significa che anche il substrato semitico non era così chiaro da una parte o dall’altra. Nei primi quattro secoli tutta una serie di questioni greche che erano state interiorizzate, ma erano radicalmente contrarie al mondo semitico di provenienza, sono state espulse. I primi quattro secoli sono il grande tempo delle eresie in cui è stata fatta la prova di tirar dentro dei concetti greci che sono stati estromessi perché non quadravano. Su questo è sintomatico che non c’è mai stata una dichiarazione di eresia né sull’una nè sull’altra comprensine dell’ascesi perché probabilmente, dicono gli studiosi, c’era già una base che conteneva tale ambiguità che, in qualche modo, è la nostra profonda ambiguità umana, quella che tutti abbiamo nel dire “Questa cosa me la sono meritata, questa cosa mi è stata regalata”. L’essere umano, per sua struttura, è sempre oscillante tra l’idea di aver migliorato se stesso oppure di essere stato baciato dalla fortuna. Dunque la doppia anima dell’ascesi è in qualche modo costante.

Da questo punto di vista, però, il problema è che noi, avendo perso l’idea di progressività della fede come una pedagogia, una metànoia nel senso pedagogico, atletico, siamo veramente persi perché siamo rimasti solo con il carico moralistico ottocentesco ed un po’ gnostico, con un’apparentemente insanabile rifiuto, conscio o inconscio che fosse, del mondo del corpo.

Domanda La chiesa l’ha comunque ridotto ai miseri dieci centimetri sotto l’ombelico.

* Sì, certamente. L’operazione che dal settecento viene fatta, fino a Vaticano II, è un’operazione terribile da questo punto di vista, è un errore clamoroso della mediazione culturale della chiesa che casca completamente nella logica neoromantica, vittoriana, con tutti i problemi connessi alla cultura borghese di quel tempo e vi rimane nonostante Vaticano II abbia detto in termini di principio che non è così, ma in fondo tutti noi ce l’abbiamo ancora in mente.

“Le persone non vogliono essere soffocate dai dogmi, vogliono piuttosto una certa libertà. D’altra parte è vero anche che, pur nella migliore delle situazioni pedagogiche che la chiesa possa creare, vi sarà sempre una ragione di difficoltà, perché il proprium del cristianesimo è che Dio viene all’uomo, mentre tutta la cultura moderna, soggettivista, vuole piuttosto che sia l’uomo a scoprire Dio e a costruire la propria idea di Dio”.

* Qui Vergote riconosce che questa reazione è legittima però c’è un dato, una pietra d’inciampo, costruita dal cristianesimo che ti dice: il nucleo centrale del cristianesimo è che Dio si è fatto carne e dunque che tu vai a Dio non può importare a nessuno. E oggi, tra tutte le questioni, questa è la questione dura, insopportabile, del cristianesimo.

Domanda Con un desiderio del Dio che viene all’uomo, ma con la paura di essere perduti se per caso non sono io che costruisco Dio….

* Sì, con l’idea teorica di aver accettato che sarebbe Dio a venire all’uomo e poi con una costruzione reale dell’esistenza che è tutto il contrario. Con Vaticano II abbiamo messo al centro questo aspetto e poi, oggi, nelle nostre parrocchie la questione chiave è che la gente si impegni. Qualsiasi parroco a cui tu dici: ”È vero che Gesù nell’incarnazione si è fatto Uomo?”, dato che il linguaggio di Vaticano II è entrato nella testa di tutti ti risponde: ”Sì”, però, quando lui ha un problema rispetto alla parrocchia, quando ragioniamo tra di noi confrontandoci, il problema è sempre su chi si impegna o no, è coerente o no, fa questo o no e così via, cioè è esattamente il contrario. Se Dio si è fatto uomo, si è fatto prossimo per noi, se penso di impegnarmi perché è una forma per esprimere la carità, se penso che mi fa sentire meno solo, allora vado perché ho voglia di andare anche perché serve a me. Per quanto riguarda gli altri, Dio si è fatto prossimo a loro come a me. Noi, nella perenne preoccupazione di attirare i lontani, non curiamo quelli che ci sono. Negli incontri della parrocchia tutti gli anni si è sempre da capo, agli abc, perché, dovendo sempre parlare a dei lontani, a tutti, alla fine ci sono sempre gli stessi ai quali da più anni si parla del senso della vita, di Gesù Cristo, senza mai farli crescere in una fede più adulta.

“In filosofia il tema dell’homo faber è stato fortemente criticato da Heidegger, severo verso la centratura antropocentrica del pensiero, secondo la quale l’uomo non è colui che deve ricevere e scoprire bensì colui che mira a costruire. Questa visione in fondo applica alla religione ciò che è proprio dello spirito tecnico e delle costruzioni teoriche scientifiche. Ma rispetto all’amore, alla natura, a Dio, l’uomo deve scoprire e lasciarsi interpellare da ciò che giunge a lui. É una disposizione di accoglienza, che è insieme attiva e passiva, perché si tratta di ricevere e appropriarsi attivamente.

Domanda Quindi non faber, ma ricettore.

* Sì. Ma anche appropriatore

Domanda Ma anche nell’amore noi abbiamo quasi avuto l’atteggiamento di costruire l’altro per noi.

* Infatti quello è in genere uno dei primi scorni di ogni reale passione amorosa che nasce sotto il segno “io ti salverò o ti cambierò” ed in genere la prima cosa su cui si misura un rapporto e su cui regge o cade, è se, dopo essersi scontrati su “tu sei perfetto”, che vuol dire io ti cambierò, uno dice: ”Va bene, tu forse non sei perfetto, ma sei così”. Se si arriva lì, si è già fatto un passo avanti. Questo è lo stesso problema, con la differenza che Dio non ci strilla nelle orecchie e non ci manda al diavolo; così uno riesce ad andare avanti tutta la vita con io ti cambierò o mi cambierò.