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Cristianesimo e modernità (VIII)

Gruppo del venerdì
Febbraio 2005

LA LIBERTA’ NASCOSTA NEGLI ABISSI DELL’ANIMA
Intervista a Antoine Vergote
Ultima parte

Ritiene possibile – ed eventualmente come giudica – una religiosità che si sperimenti come apertura al divino più nella modalità del silenzio che non in quella della parola? Ossia una religiosità che ritenga di poter vivere e affermare soltanto – ma radicalmente – l’irriducibilità e la permanente apertura della domanda su/di/verso Dio?

Tutte le domande dell’intervistatore riguardavano essenzialmente la religiosità intesa come generico sentimento del sacro; l’esperienza generica di trascendenza che pare avere un certo successo oggi nei paesi occidentali, a differenza di anni passati, in cui c’era un certo tipo di polemica, non solo rispetto alle religioni organizzate, ma anche una insofferenza verso un generico sentimento del sacro. Oggi sembra tornato di moda il rispetto verso una religione come il cristianesimo, che è una religione organizzata.

Da questo punto di vista cerchiamo di capire le differenze, sia teoriche che reali, in quanto sempre più il cristianesimo sta diventando nell’esperienza reale coincidente ad un sacro generico; nei fatti si sta sempre più sganciando dalla sua realtà di religione istituzionale, storicamente collocata e visibile.

Tutta l’intervista dunque è organizzata sul tema dell’interiorità e dell’esteriorità religiosa.

L’ultima domanda si attacca alla risposta precedente, nella quale Vergote vi sosteneva il problema, il tema, di recuperare la dimensione simbolica. Il tema del simbolico è centrale. Tutto quello che nell’esperienza cristiana si chiama “sacramento” sostanzialmente sta sotto la categoria del simbolico.

Per noi, nel linguaggio comune, normale, simbolico è quasi il contrario di reale. Vergote e la teologia classica dicono che il cristianesimo è strutturalmente simbolico, nello stesso momento in cui dico che il corpo è irreale e l’io è reale, sto dicendo il contrario. Io divento incontrabile, riconoscibile attraverso il mio corpo; i miei occhi, i miei gesti dicono il mio io. In questo senso il corpo è più che la manifestazione dell’io. Così il cristianesimo è struttura simbolica, cioè nella sua identità più profonda resta ineffabile, indicibile: nella realtà più profonda è il Volto di Dio. Dall’altra parte l’io profondo del cristianesimo, che è il Volto di Dio, lo si incontra solo in un corpo che, come tutti i corpi, avendo una caratteristica, non le ha tutte. Il corpo è un principio di individuazione, di realtà, di parzialità, ma anche di sperimentabilità.

Il cristianesimo è l’esperienza che ci dà un luogo parziale di sperimentabilità, di un mistero ineffabile che non si può mai dire totalmente. Ma non c’è un altro modo di incontrare quel mistero. Questo sarebbe il senso di ciò che significa: “Gesù Cristo vero Dio e vero uomo”.

Gesù ha preso un corpo: o è un puro gioco magico, mitologico, oppure ha un peso reale: Dio sceglie di stare in un’individuazione parziale che, tanto è parziale, tanto è l’unico luogo nel quale si può raggiungere questo mistero ineffabile, per cui Gesù dice; “Voi, chi dite che io sia?”. Non si impone come una manifestazione. Resta ineffabile. Ma contemporaneamente ha un nome, una collocazione, parla, guarisce, nutre, ecc.

In questo orizzonte va posta la domanda che viene rivolta a Vergote.

Dovremmo imparare la dimensione del simbolico, perché non capiamo più il simbolico nella nostra vita, infatti noi intendiamo simbolico come contrario di reale, di serio: qualcosa di “poetico”. Se già nella nostra esperienza umana diciamo simbolico per dire il contrario di reale, chissà rispetto al cristianesimo….

In questo quadro del simbolico “silenzio” e “parola” sono decisive nel senso che il cristianesimo è l’unico silenzio che richiede la parola e l’unica parola che richiede un silenzio.

Siamo in una domanda, non c’è una risposta, ma c’è Gesù, che c’è, ha un corpo, è una realtà.

Sì, la ritengo possibile, ed anzi bisogna tenerne conto; questa, peraltro, è proprio una delle conclusioni del mio ultimo libro, “Modernité et christianisme”. Tutto ciò ha anche conseguenze molto pratiche. Ad esempio, quando si insegna la religione, occorre presentare diverse concezioni – quelle dei non credenti, quelle indeterminatamente religiose, quelle delle religioni – e introdurre in questo panorama, con molta libertà, la concezione del cristianesimo e la relativa idea che la fede chiede coinvolgimento” 

Vergote dice che bisogna ridire la specificità del cristianesimo; riprovare a dire che cosa è una religione strutturalmente simbolica, rispetto a un panorama in cui diciamo la diversità delle forme religiose possibili.

 “Può esservi senz’altro, per qualcuno, un tempo di attesa, in cui non ci si decide, ma si prova comunque simpatia verso il cristianesimo: ciò addirittura fa parte del carattere progressivo della fede. Quello che a mio parere non è possibile, in merito alla sua domanda, è assumere sin dall’inizio l’atteggiamento di chi resterà sempre nella indecisione. L’attesa di cui io parlo è un’attesa che è al tempo stesso una ricerca. Aggiungerei anche che la non credenza fa parte in qualche modo della fede: ci si pongono degli interrogativi, si hanno dei dubbi, e tuttavia al tempo stesso si crede. Ciò del resto vale anche nel rapporto tra due persone che si amano; quando uno dice: «Ti amo, ti voglio» ad un altro, in realtà esprime una decisione che va ben al di là di sentimenti e convinzioni chiare. Una persona che dunque riflette sulla religione e sul cristianesimo, dicendosi non sicura di credere ed anzi non determinandosi in un senso piuttosto che in un altro, esprime una autentica religiosità se la sua apertura è davvero tale e se non pregiudica gli sviluppi della sua attuale situazione.”

 Altro tema caro a Vergote è quello di una progressività, una dinamica, nel fatto che la fede ha una storia, dunque non è mai uguale a se stessa rimanendo, paradossalmente, sempre uguale a se stessa. E proprio perché cambia, è fedele. Vergote è molto preoccupato della specificità del cristianesimo.


LA FEDE NON E’ UN’IDEOLOGIA
Simbolica cristiana ed esperienza religiosa
Intervista a Raimon Panikkar

«Nessuna religione vissuta in profondità si accontenterà di rappresentare una parte del tutto. Aspirerà piuttosto al tutto, sebbene in modo limitato e imperfetto. Ciascuna religione vuole mostrare un sentiero per “realizzare” la realtà, e la realtà è intera. Ma ogni persona, e ogni religione, partecipa, raggiunge, gode, arriva a, vive in quel tutto in maniera limitata. Nessuno ha il monopolio sul tutto, e nessuno può soddisfare completamente la sete umana di infinito e accontentarsi di una parte del tutto. […] Il fatto che i cristiani non abbiano piena conoscenza di quel simbolo che chiamano Cristo, rivela loro che essi , non sono i padroni di Cristo e conferma loro che Cristo sorpassa ogni comprensione».

«La parola “cristiano” potrebbe essere l’aggettivo di cristianità (una civiltà), di cristianesimo (una religione) o di cristiania (una spiritualità personale). Durante il periodo della cosiddetta cultura cristiana dell’Europa medievale era quasi impossibile essere cristiano senza appartenere alla cristianità. Non molto tempo fa era molto difficile professarsi cristiano senza confessare il credo cristiano (cristianesimo). Attualmente, tuttavia, c’è sempre più gente che considera la possibilità di essere cristiano come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire totalmente ai dogmi dottrinali del cristianesimo in quanto struttura istituzionale. Parlo di un atteggiamento personale e non di una posizione individualista, tenendo presente che “persona” implica sempre comunità. L’atteggiamento cristiano è ecclesiale, ma questa parola non è semplicemente sinonimo di una organizzazione costituita. Ecclesia, in senso stretto, implica un organismo, non una organizzazione. Un organismo necessita di uno spirito, di una vita. Un’organizzazione richiede solo un’idea, una ragione d’essere».

L’autore si muove su distinzioni che, lette così, sono apparentemente molto convincenti, ma sono amche molto sottili. Come si organizza e si struttura un’ecclesia rispetto a una chiesa, a una organizzazione? Un’ecclesia è semplicemente una affinità elettiva, una comunione di posizioni nella quale ognuno ha il suo atteggiamento personale? Panikkar sostiene che troppo spesso noi pensiamo che “cristianesimo” o “cristiano” siano termini chiari, invece ”cristiano” è un termine stratificato: c’è un tipo di civiltà, un tipo di cultura, un tipo di organizzazione religiosa, un atteggiamento interiore, ecc. In alcuni secoli sembrava chiaro che ci fossero cose che andavano insieme e altre che non andavano insieme. Per esempio, per essere cristiano occorreva fare parte di una cristianità e chi non ne faceva parte, anche se si definiva cristiano era destinato all’inferno. Il fatto che molte accoppiate siano finite nel corso della storia ci dice che dobbiamo essere più diffidenti su di esse. Che cosa implica il fatto di dirsi cristiano? Non è un caso che molti teologi oggi non usino più questo termine, ma usino termini come “definirsi discepoli” o perifrasi varie. Personalmente ritengo che sia utile mantenere il termine facendo delle distinzioni. Mi convince il fatto che occorre andare adagio nella definizione di cristiano. La conclusione di Panikkar fra organismo e organizzazione mi lascia invece perplessa. Io penso che la questione sia da giocare più su termini come identità, appartenenza, ecc. Il problema è il rapporto tra ciò che io so di me e la mia vita, in relazione alle appartenenze che gioco, e che ci siano modi diversi di appartenere. Io credo che sia necessaria una chiesa come organizzazione, ma non è l’appartenenza all’organizzazione che definisce l’identità. Cadute le ideologie, pare chiaro a tutti che l’identità uno ce l’ha, sennò l’organizzazione non la tiene in piedi, ma fino a vent’anni fa bastava l’organizzazione. Rispetto all’esperienza cristiana qui c’è un passaggio complicato. il passaggio in cui la fede ricevuta diventa la tua fede e sta in piedi al di là della tua appartenenza e anzi diventa il motivo per un certo livello di appartenenza. Esempio: oggi il novanta per cento dei cristiani che bazzicano in parrocchia continuano a pensare che ci sono i cristiani normali e i cristiani impegnati (quelli che lavorano in parrocchia). Di per sé questo significa ammodernare il principio che è l’organizzazione che ti dà identità. Dunque: se fai catechismo sei un cristiano migliore di chi non lo fa. Panikkar ruota attorno a questa questione; non a caso il titolo dice che la fede non è un’ideologia.

«Dire “Dio” oggi: ha ancora senso? Le ermeneutiche atee della religione, pur avendo il merito di mostrare la realtà “umana, troppo umana” che spesso può celarsi in questa parola, finiscono poi per risolversi in ideologia. Al tempo stesso tentare di pronunciare in modo intellettualmente onesto la parola “Dio”conduce irrimediabilmente a sentirsi persi, smarriti, davanti a un abisso e in presenza di alcunché di riconoscibile. Cosa significa per lei dire “Dio”?»

Se uno dice “Dio” si trova di fronte a due possibilità: o a un’ermeneutica sostanzialmente religiosa, ma che può dirsi anche atea, che si attacca ad una serie di cose e diventa un’ideologia, oppure prendo sul serio l’abissale distanza che Dio ha da qualsiasi nostra esperienza e annego nella metafora, non ho più niente a cui appigliarmi. Per i cristiani ovviamente la questione è che ogni volta che dico “Dio” dico “il Padre di Gesù Cristo”. La cosa a cui mi attacco non è un ragionamento, ma l’esperienza di Gesù. Se non ci metti questo pezzo rimani sospeso tra i due aspetti: fare un’ideologia su Dio, oppure essere ubriacato da questa esperienza folle.

“Comincerei premettendo che un effetto collaterale della mentalità democratica, al di là del suo valore, è quello di dissolvere il senso della gerarchia della realtà. Non si, può parlare di Dio come si parla di Socrate o di Napoleone: si può solo invocarlo. Le mie risposte quindi alle sue domande, peraltro legittime, potranno essere soltanto reazioni intellettuali espresse con un certo disagio. Inoltre la brevità mi costringe ad imitare la Sibilla di Delphi, che soltanto allude.

Detto questo capisco la sensazione di smarrimento che lei prova e aggiungerei anzi alcune immaginbi tradizionali che mostrano come lo smarrimento sia proprio dell’approccio al divino. Nebbia, deserto, disorientamento, pelagus, mare senza fondo … Tutte le religioni dicono che il primo peccato è l’idolatria, cioè il farsi di Dio un’immagine, un’idolo, peggio ancora un concetto. Ricordo che un grande monaco cristiano, Evagrius Ponticus, scrisse: ‘Beati coloro che hanno raggiunto l’ignoranza infinita’. Lo stesso san Tommaso afferma che il massimo che possiamo conoscere di Dio è che non lo possiamo conoscere. Meister Eckhart dice testualmente che «è meglio tacere su Dio che parlarne» – ma si deve anche saper “cogliere” il silenzio. Dio, ridotto alla stregua di un oggetto, è una delle cause dell’ateismo moderno. Di un Dio così non vale la pena occuparsi. Dio non è una cosa e non è nemmeno una sostanza. Pensare dunque di poter afferrare Dio con la nostra mente è un errore intellettuale e un’eresia teologica.

Noi abbiamo con la realtà due tipi di relazione: o razionale o sentimentale. Semplificando: o con la ragione, o con il cuore. Ma dietro a questo c’è un presupposto non detto: io di fronte ad un tu, che è la realtà, ecc.: con la ragione o con il cuore. Quello che dice Panikkar è che, nel caso di Dio, Dio non è mai un “tu”; siamo noi che siamo un “tu” davanti a Dio: la questione è rovesciata. Lui dice “io”; Lui è “io”, noi siamo “tu”. Ed è il presupposto a priori. Quali strumenti abbiamo per essere un “tu” davanti a Dio? Questo è il problema. Quando Panikkar dice “si può solo invocarlo” dice questo: noi non siamo mai un io, e questo è il problema perché tutto l’occidente è costruito sulla centralità del soggetto (cogito ergo sum). Tutto si discute, tranne una cosa: l’io. Panikkar praticamente dice che se uno si mette così va verso l’ateismo, inevitabilmente. L’unica possibilità di salvezza è che tu sei un “tu” di fronte all’unico “io” che è Dio. Questo fa tremare le fondamenta dell’occidente. E’ un po’ quello che è successo nel novecento con la rivoluzione femminista: prima l’universale soggetto occidentale era il maschio bianco produttivo, ecc. Quando i non maschi, non bianchi, non sani di mente, non produttivi, ecc. (e stiamo parlando degli aggettivi intorno a “io”, non ancora dell’”io” ma degli aggettivi che lo definivano) si muovono siamo alla crisi. Andare a toccare gli aggettivi impliciti, già scalfiva l’io e veniva il panico a tutti.

Quello che Panikkar dice è che se si vuole parlare di Dio bisogna uscire da questa logica. Noi siamo tutti “tu”. Che cosa vuol dire stare dalla parte del “tu”? Tutto da inventare, tutto da riscoprire, per l’occidente.

Dopo il Vaticano II cambia anche il modo di leggere la Scrittura. Noi abbiamo l’abitudine di chiederci: ”che cosa mi insegna, che cosa mi dice Dio?” Solo nella liturgia noi diciamo correttamente: “Parola di Dio” Ma non a caso la liturgia è un grande problema per tanta gente: una grande fatica a capire la dinamica e la logica della liturgia. Nella liturgia l’agente principale è Dio; l’atto liturgico è fatto da Dio. Dopo ci sono gli agenti secondari, cooperanti, come la comunità, il presbitero, ecc. Nella logica liturgica il soggetto dell’operazione, l’”io” è Dio, e tutti gli altri sono quelli che ricevono questa operazione. Non a caso nella riforma liturgica, dove siamo messi al centro delle azioni, ci sembra di partecipare di più perché facciamo delle cose, come suonare, leggere, ecc. Ma questo è il contrario della logica della liturgia.

Il punto di partenza di Panikkar è: l’unica cosa che si può fare su Dio è invocarlo. E’ normale incontrare disorientamento, nebbia, deserto, ecc.

Il periodo della nostra vita nel quale siamo radicalmente dei “tu” è solo quello dell’adolescenza, nel quale dipendiamo radicalmente dallo sguardo dell’altro su di noi. Questa età nell’occidente è considerata un periodo di confusione, di insicurezza, di paure, ecc perché ci si sente in mano a qualcun altro. Noi non siamo preoccupati di essere in mano a Dio, non ne siamo ansiosi, perché, in realtà, non ci sentiamo mai nelle sue mani. Tutti i mistici testimoniano la nebbia, lo smarrimento, che in realtà corrispondono al momento di massimo affidamento. Quando capiamo di essere un “tu” retto da un altro e che la nostra felicità dipende da un altro possiamo reagire come degli adolescenti e disperarci. Bisognerebbe saper cogliere il silenzio. (Come nel caso dell’adolescente innamorato che scruta e interpreta ermeneuticamente ogni gesto o parola soffre e non sa cogliere il silenzio). 

Credere in Dio allora cosa significa?

È ben nota la distinzione che già gli scolastici facevano tra credere Deo, credere Deum e credere in Deum. Con l’espressione credere in volevano spiegare il fatto che nell’uomo c’è la consapevolezza ma non l’intelligenza della realtà divina, di qualcosa differente ma non separato dal mondo. La fede è costitutiva dell’essere umano: ogni uomo ha fede. Che poi questa fede io la formuli in un modo o in un altro, secondo la rivelazione, secondo una tradizione o secondo quello che ho studiato e intuito, questa è altra cosa: non si deve confondere “credenza” con “fede”. Credere in Dio esprime la consapevolezza che c’è un mistero al quale molte tradizioni religiose danno il nome di Dio. Da questo punto di vista una prova dell’esistenza di Dio apparirebbe come una bestemmia. Lo stesso Tommaso d’Aquino non parla di prove ma di vie, e l’unica cosa che egli vuol provare è che la fede in Dio non è irrazionale. San Tommaso non è così ingenuo da pensare che Dio si possa “provare”, alla stregua di una dimostrazione matematica o razionale. Dio non è un ente matematico né un “ente di ragione”, per così dire.”

Panikkar dice che ci sono almeno tre livelli possibili di fede; c’è poi ancora la differenza tra fede e credenza. La credenza è il modo in cui esprimo religiosamente il luogo della mia fede: fa parte comunque sempre del soggetto occidentale, io sono, io scelgo, ecc. La fede è un’altra cosa: ciascuno ha fede (non una fede), cioè ha una consapevolezza di qualche cosa di differente, ma non separato dal mondo. Nessuno di noi è radicalmente materialista, nessuno pensa che l’unica realtà delle cose sia nelle cose, per quello che sono. “Credere in Dio esprime la consapevolezza che c’è un mistero al quale molte tradizioni religiose danno il nome di Dio”.

Intervento: “Questo annegarsi, la fiducia totale è quella del povero di Javhè”

Sì, questa è una caratteristica costante del cristianesimo fino a metà dell’ottocento. Ci siamo persi questa idea solo da un secolo circa. Per noi è una opzione etica ragionata. Da questo punto di vista gli ultimi due secoli hanno spezzato, almeno in occidente, il rapporto diretto di dipendenza dalla natura che era uno dei luoghi dove il soggetto occidentale si sperimentava come un “tu”. C’era una natura che agiva e lui poteva reagire, poteva agire. Pensate che cosa significa aver sganciato le nostre sorti dal ritmo della natura: non c’è più alcun luogo della vita in cui si fa esperienza di un “io” che ti mette nelle condizioni di un “tu”.

La questione non è se io credo in Dio oppure no. La questione è: io penso che Dio creda in me?

Per il cristianesimo l’unica domanda interessante è: tu pensi che Dio creda in te? Se Lui crede in te e tu ci conti, è una cosa; è la questione della Grazia. La Grazia è che Dio crede in noi e Gesù Cristo ce l’ha mostrato; questa è la grande opera della Grazia. Quello che siamo noi a decidere è quello che noi pensiamo, viviamo, ci mettiamo, di fronte a questo fatto che Dio crede in noi e noi non ci preoccupiamo del resto. Noi pensiamo che la questione fondamentale è se crediamo in Dio o se facciamo dei peccati, se viviamo la carità, tutti gli annessi e connessi nei quali il soggetto sono io; la Grazia è: Dio crede in noi e, in Gesù Cristo, ha detto che non smetterà più di credere in noi.