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Felix Wilfred: “Il cristianesimo tra declino e rinascita” (I)

Gruppo del venerdì
Febbraio 2006

L’autore insegna pensiero religioso all’università statale di Madras, in India, cioè è quanto di più distante si riesca ad immaginare da un cattolico medio, in particolare da un italiano. Noi infatti non possiamo nemmeno immaginare che esista una tale cattedra; inoltre Wilfred è contemporaneamente sociologo e teologo. La sua analisi è molto interessante, ma altrettanto discutibile.

Paragrafo introduttivo

“Nessuno può seriamente contestare il fatto che, nelle ultime elezioni presidenziali americane, la religione e, più esattamente, i sentimenti e le convinzioni religiose cristiane hanno giocato un ruolo importante, segnatamente nelle forme evangelicali e neo-ortodosse di cristianesimo.”

Notiamo che nella nostra testa di cattolici italiani “evangelico” è equiparabile a protestante, che per noi funziona come valdese ma, peggio ancora, in genere funziona come progressista. In realtà questo è un pensiero che esiste solo in Italia, nel senso che gli evangelici, spesso, sono conservatori.

Gli europei abituati a pensare criticamente e secolarmente si sono sentiti senz’altro a disagio per quanto è successo, sebbene ciò non può averli sorpresi. Sull’altro fonte dell’Atlantico abbiamo avuto l’Unione Europea alle prese con una Costituzione in cui non viene fatta menzione del cristianesimo, nonostante la cultura e la storia europea siano impregnate da questa tradizione religiosa. Quando poniamo a confronto questi due avvenimenti, la domanda se il cristianesimo è in crisi diventa un quesito molto difficile e complesso a cui rispondere.

Se poi a quanto abbiamo appena detto aggiungiamo una rinascita del cristianesimo in Africa, in forme ed espressioni indigene, e l’emergere di un volto diverso di cristianesimo in Asia, con tratti assunti da esperienze religiose di altre tradizioni, la questione si fa composita e la risposta difficilissima. Parlando del cristianesimo in Africa, Lamin Sanneh nota che esso è “l’ironia dell’entusiasmo religioso di massa contrapposto al disincanto della maggioranza per le strutture politiche”. Se il cristianesimo sia in declino e dia luogo a una situazione post-cristiana, oppure se si tratti di una rinascita, dipenderà da come il suo stato attuale è visto e stimato nei differenti contesti mondiali.

Ogni tentativo di rispondere a questa domanda esigerebbe un certo chiarimento concettuale in merito a ciò che si intende per crisi.

Il quadro da cui lui parte è interessante per due motivi: uno perché sprovincializza, cioè ci fa vedere che le cose che stanno succedendo sono molte e molto diverse. Negli ordini religiosi nel mondo si è completamente capovolta la provenienza continentale tanto che siamo ormai nella media del 15% di europei. I gesuiti hanno il maggior numero dei loro novizi in India e in Africa, mentre in tutte le altre province hanno saldi passivi.

Il cristianesimo in crisi: tre diagnosi

Per la neo-ortodossia, che combatte su molti fronti, la diagnosi della crisi, la sua definizione e la sua soluzione sono caratterizzate da quel che si esige fare in esse, come “defensio fidei”: la difesa della fede e della sua integrità. L’ambito più estremo a cui la neo-ortodossia può arrivare è il riformismo (anche quello di propria definizione) Non è strano allora che nella chiesa cattolica romana, per esempio, la neo-ortodossia possa inventare bizzarre e sconcertanti interpretazioni del Vaticano II nel tentativo di ristabilire vecchie certezze e così rimettere a nuovo una corrosa fiducia in se stessa. Ironicamente, oggi questo fenomeno sfida il secolare, facendolo tremare agli assalti della religione e rovesciando così completamente i ruoli che hanno caratterizzato fino a non molto tempo fa il secolarismo e la religione. La stessa neo-ortodossia, con i suoi molteplici rami, come nell’immagine mitica di Ravana – il demone invincibile – nell’epica indù, non esiterebbe a demolire le emergenti teologie della religione. Per il suo profilo militante, potrebbe schiacciare con il suo potere istituzionale chiunque metta in discussione la sua guerra al secolarismo e alle altre religioni.

Primo: bisogna distinguere nella neo-ortodossia, ad esempio i movimenti per la difesa della vita americani, l’Opus Dei, Legionari di Cristo, ecc, mondi molto ampi. Qual è la loro analisi? E’, in fondo, un’analisi semplificatoria. Cioè: abbiamo perso la battaglia con il secolarismo, ma non abbiamo perduto la guerra; bisogna scendere in campo, non stare ad aspettare che il secolarismo ci eroda, né stare a chiederci che cosa significa teologicamente, ecc. Dunque dobbiamo avere un atteggiamento militante, con una gamma di metodi vari. Il modello italiano propugnato da Ruini è nell’ala moderata di questo fenomeno, per cui la sua idea è che la chiesa italiana deve costituirsi come una lobby, dunque un soggetto sociale, con militanza ristretta numericamente e di alta motivazione. Abbandonare il profilo di chiesa popolare innestata nel dato culturale diffuso che dunque non è mobilitabile, pur attraversando le vite delle persone; andare su una fascia ristretta di militanza attiva e fare un’attività di lobby, recuperando poi la pressione popolare non in modo diretto, ma attraverso la mediazione delle istituzioni e delle autorità.

Se l’unico modo di difendere il cristianesimo è difendere l’ortodossia della fede, allora la strada più efficace è questa.

A me non piace, però mi chiedo spesso se il mio modo di pensare come vada difesa la fede, come vada presentato il cristianesimo, un po’ pensoso, sempre con la faccia “preoccupata”, con molte più domande che risposte, ecc. potrei dire di essere assolutamente certa che il mio modo è evangelico e quello di Ruini invece no? Non potrei dirlo.

L’idea di una chiesa popolare interclassista e, in fondo, poco significativa, era in fondo anche un’idea molto paternalistica che misurava bene chi aveva accesso al potere e chi no, e così via.

Ciò che possiamo osservare nella neo-ortodossia è che essa ha progressivamente cambiato accento nella sua diagnosi sulla crisi, passando dalla secolarizzazione al pluralismo e, più in specifico, alla pluralità delle esperienze religiose, dal momento che queste sembrano mettere in crisi le certezze del passato in modi e ambiti che la secolarizzazione non ha fatto.

La pluralità delle esperienze religiose mette in crisi l’aspetto pubblico, mentre la secolarizzazione, tutto sommato, proprio perché ha tematizzato la privatizzazione teorizzando la tolleranza, ha in fondo aperto alla possibilità di poter essere spinta nel privato e fare la battaglia lobbystica sulla laicità.

Proprio mentre la neo-ortodossia lotta duramente per subordinare la cultura, la società e le religioni alla sua interpretazione di fede, il senso di crisi sta raggiungendo un livello elevato con la crisi di autorità nella chiesa – una preoccupazione cruciale, questa, che segna tutti gli atteggiamenti e le interpretazioni neo-ortodosse.

La battaglia finale si farà su questo che è il motivo per cui ad esempio l’accettazione del primato petrino non è marginale, ma non si vuole discutere perché si ha la percezione che se si intacca il principio dell’autorità personale assoluta non si tiene più niente.

La progressiva emarginazione del cristianesimo dalla coscienza d’Europa e dalla sua sfera pubblica sembra giganteggiare all’orizzonte della neo-ortodossia, accentuando il senso di crisi.

La teologia neo-liberale, fedele alla sua tradizione, ha dato rilievo all’esperienza, alla libertà e all’opera del soggetto. E queste, secondo essa, si accorderebbero con la modernità. La soluzione alla situazione di crisi del cristianesimo sarebbe così la sua completa secolarizzazione, abbandonando alcune delle sue datate visioni del mondo, le sue concezioni mitiche, le pratiche, l’orientamento all’etica, ecc. In altre parole, la forma del cristianesimo tradizionale è stata contestata per la sua incapacità di rispondere alle sfide della modernità, e la soluzione è stata scorta in un’accomodante secolarizzazione. E non c’è bisogno rientrare nei dettagli della teologia liberale.

Ciò che più preoccupa, tuttavia, è la nuova incarnazione della teologia liberale nella forma di una teologia della ricchezza e della prosperità. E’ una teologia che mi ricorda le espressioni critiche di Richard Niebuhr che ha evocato “un Dio senza ira che ha condotto gli essere umani senza peccato in un regno senza giudizio, attraverso il ministero di un Cristo senza croce”. Secondo la lettura liberale, la sopravvivenza del cristianesimo è legata al successo del capitalismo liberale e del liberalismo politico. Il capitalismo è per Michael Novak “un caso morale” per il cristianesimo, e il ben-essere un segno delle benedizioni di Dio. Per lui la politica democratica, l’economia di mercato e la cultura liberale tradurrebbero in pratica il cristianesimo. L’implicazione è che, nell’assenza di capitalismo e di ricchezza, il cristianesimo sarebbe immerso nella crisi e ciò, da ultimo, diverrebbe un fallimento. Questa versione della lettura neo-liberale della crisi del cristianesimo convergerebbe ironicamente con le posizioni neo-ortodosse come quelle sostenute da John Milbank, John Neuhaus e altri. Gli estremi si toccano!Per Neuhaus, per esempio, il problema della chiesa cattolica in america Latina è che essa si è messa in crisi rinunciando a infondere valori e atteggiamenti che promuoverebbero il capitalismo.

All’interno di questa diagnosi ci sono posizioni differenziate.

La matrice è quella di una teologia fatta in una situazione di benessere. A me interroga molto questo tipo di analisi sul sentimento che noi abbiamo di essere così democratici, secolarizzati, rispettosi della laicità dello stato, cattolici democratici e progressisti, perché è vero che nel tentativo costante di fare i conti tra la rivoluzione francese e il cristianesimo, alla fine non esercitiamo nessun potere, nemmeno quello di trasformazione del mondo.

 Per una lettura post-moderna la crisi del cristianesimo è parte della crisi generale di tutti i “grandi racconti”. Più specificamente, il destino del cristianesimo è segnato: si concluderà con l’avvento di un mondo e di una cultura post-metafisica, caratterizzati come “pensiero debole”. Il post-moderno, tuttavia, non è necessariamente anti-religioso e anti-cristiano. In effetti, in alcune sue versioni ha creato spazio per il riapparire della religione che si è dileguata nell’orizzonte della modernità e della secolarità. A questo proposito, un caso è quello dell’italiano Gianni Vattimo che afferma di avere ritrovato il suo cristianesimo grazie al post-modernismo. Il post-moderno e il cattolicesimo non sono estranei compagni di letto. La distanza del post-moderno dalla modernità (per non parlare in termini di opposizione tra i due, che potrebbe non essere una dicitura precisa) e l’anti-modernità del cattolicesimo convergono in certi punti. Non dovrebbe sorprendere allora che il post-modernismo abbia concesso spazio alla religione in genere e al cristianesimo in particolare. Con la crisi della modernità scoppiata in passato, il post-modernismo di Vattimo potrebbe trovare un posto per il suo cattolicesimo.

Per me ciò che emana da tutto questo è che, al fondo, il cristianesimo potrebbe essere identificato con l’Europa solo se la metafisica potesse essere considerata un presupposto inalienabile del messaggio cristiano. C’è, tuttavia, in pratica una sovrapposizione tra la prima identificazione e l’ultimo presupposto che si potrebbe vedere nel declino del cristianesimo in Occidente con la dissoluzione della metafisica nella cultura occidentale. Ciò che è detto ha implicazioni che vanno lontano per il cristianesimo nel Sud del mondo.

L’impatto del cristianesimo con l’Asia è omologo a quello che il cristianesimo ha avuto con il mondo greco e forse avremo, speriamo, duemila anni di mediazione asiatica del cristianesimo, perché no? Da questo punto di vista l’America Latina, paradossalmente, è europea.

Opus Dei, Legionari, comunità di Base non esistono più; il 90% dei cattolici dell’America Latina sono neo-ortodossi, perché l’operazione di normalizzazione è riuscita e perché loro hanno sentito la crisi molto peggio di noi. C’è un movimento tipico dell’America Latina, diffusissimo, che ha centinaia di migliaia di aderenti e che si chiama del Ninos, del bambino, che è un movimento di devozione a Gesù Bambino. La cultura indigena non è sopravvissuta; la cultura è quella dei meticci, importata dall’Europa. Esistono ancora le Comunità di Base come dato parziale, non significativo rispetto all’andamento generale.

Devo immediatamente aggiungere che il rinascere del cristianesimo nel Sud del mondo mostra che né la crisi del cristianesimo in Occidente, né la sua metafisica costituiscono una minaccia per il messaggio della buona novella ai poveri o alla realtà dell’amore, che costituiscono entrambi il nucleo del vangelo. Ciò che sta accadendo nel Sud è espressione di un cristianesimo non legato ad una metafisica e quindi aperto a una pluralità di nodi e di espressioni nello sperimentare e nel vivere il vangelo. Un messaggio che ci è pervenuto attraverso Gesù Cristo è credibile non a causa del suo presunto fondamento metafisico, ima a motivo del suo appello radicale alla nostra più profonda umanità e alle contingenze – individuali e collettive – della nostra vita, e anche a motivo dell’amore e della grazia incondizionata di Gesù, e grazie al suo divenire una cosa sola in solidarietà con i poveri e grazie all’incarnazione in se stesso dell’alleanza di Dio in difesa dei poveri. Un tale messaggio di amore e di difesa dei poveri difficilmente potrebbe essere in crisi, soprattutto quando l’asse del cristianesimo sta spostandosi verso il Sud del mondo con sempre più cristiani tra i più poveri dei poveri. Se vogliamo mettere le cose diversamente, coloro che hanno meno di cinquecento dollari statunitensi di reddito annuo sono quelli che saranno, se già non lo sono, i più numerosi discepoli cristiani nel nostro mondo. Lo spostamento non è solo dall’Occidente al Sud, ma è pure quello del cristianesimo dai ricchi e dalla classe media ai poveri. Un cristianesimo che sta diventando una fede dei poveri del mondo d’oggi, ricordando le sue origini, difficilmente si Può considerare in crisi in qualsiasi senso negativo.

Nessuna delle tre diagnosi viste sopra (quella neo-ortodossa, quella neo-liberale e quella post-moderna) sembra capace di rispondere alla nuova forma del cristianesimo nel Sud del mondo. Esse sono fondamentalmente ottiche eurocentriche che considerano la crisi del cristianesimo (la una prospettiva particolare e sullo sfondo di un’esperienza storica definita. Inoltre, tutte e tre sono similmente cattivi strumenti per diagnosticare la crisi del cristianesimo nel Sud del mondo. Le opportunità per il cristianesimo sembrano immense, non nel senso della missione concepita in Occidente e imposta nel Sud, ma come risultato di un impegno creativo da parte della stessa gente del Sud nell’incontro con le realtà sociali, politiche e culturali del loro contesto. Ovviamente, ci sono molti aspetti di questo impegno che non possono essere trattati qui. Permettetemi di mettere in rilievo soltanto uno o due aspetti che ci chiariranno come la crisi del cristianesimo significhi nuove opportunità nel Sud del mondo.”

Il cristianesimo futuro: un discepolo alla scuola della tolleranza

 “Il futuro del cristianesimo dipenderà dalla misura in cui avrà posto una metamorfosi del cristianesimo stesso come religione di grande tolleranza e come promotore di comprensione, capace di creare comunità nel nostro mondo frammentato. Questo può succedere, tra le altre cose, attraverso un efficace impegno teologico con altre tradizioni religiose.

Qui c’è la grande questione della teologia delle religioni. Il cristianesimo ha faticato molto ad accettare il fatto che ci potesse essere una teologia della religione e delle religioni, nel senso che la religione, non tanto la religione cattolica, ma la religione tout-court, essendo il soggetto che fa teologia, non può essere teologizzato. E’ un po’ quello che è successo con la grande crisi che c’è stata in Europa alla fine dell’ottocento con la psicanalisi.

Se uno accetta l’idea che ci sia una teologia delle religioni accetta che ci sia un soggetto esterno ad una religione che possa fare una teologia su questo. Questo, per il cristianesimo, era impensabile ed è il grande motivo dei problemi di dialogo interreligioso, infatti non si riusciva a capire come questo potesse essere oggetto di riflessione di terzi, cioè da fuori, che coinvolgesse il fatto religioso come un oggetto, non solo con il cristianesimo, ma anche con altre religioni. Fino al Vaticano II il concetto di ermeneutica non era pensabile. In parte la difficoltà rimane tuttora…

Ciò che qui è implicito non è che le altre tradizioni religiose siano esempi di perfetta tolleranza, ma che proprio l’impegno aperto del cristianesimo con le altre tradizioni religiose sia esso stesso un processo capace di mettere allo scoperto le sue più profonde verità sulla tolleranza, la giustizia e la pace. Il superamento della crisi e la riaffermazione del cristianesimo potrebbero avvenire, specialmente in Asia, attraverso il processo descritto prima, e ciò contribuirà a rinvigorire il cristianesimo. Di crisi del cristianesimo si potrà parlare nel Sud del mondo, specialmente del cristianesimo asiatico, nel senso positivo di opportunità.

Il cristianesimo, malgrado questa nuova situazione che conosce nell’emisfero meridionale, deve lottare con molti aspetti del suo passato, specie con la fobia neo-ortodossa del pluralismo religioso. Anche Wolfhart Pannenberg, non noto specialmente per le sue idee liberali, non esita a nominare dove stia il «peccato più disastroso» nel cristianesimo, che è importante in questo frangente per redimere il futuro del cristianesimo globale.

Il dogmatismo intollerante è stato probabilmente il peccato più disastroso del cristianesimo tradizionale dai primi secoli fino agli inizi dei tempi moderni. L’intolleranza ha contribuito all’ambiguità

del passato cristiano più di altri fattori, ed è pertanto necessario comprendere le radici del fenomeno. Dobbiamo chiederci se l’intolleranza dogmatica, con tutte le sue ignobili conseguenze, appartenga all’essenza della passione religiosa per la verità, almeno nella stia forma cristiana. Se la risposta fosse sì, l’esclusione della religione dall’arena della cultura pubblica  un’esclusione introdotta nella prima modernità dopo le guerre confessionali del periodo che seguì la Riforma  sarebbe giustificata allora come ora. Ma il dogmatismo religioso, che è emerso da subito durante l’era costantiniana, può anche essere visto come una alterazione, come una affezione, della mente religiosa. Se è così, può in linea di principio essere superato senza eliminare l’impegno religioso per la verità.

Qui il problema è gravissimo per la sopravvivenza del cristianesimo, nel senso che la questione della tolleranza non è una questione di stile. Possiamo dire che Dio, nella sua infinita misericordia, salva anche i peccatori e dunque anche gli eretici, ecc.; ma un conto è dire questo, e cioè avere un atteggiamento non condannatorio, ma definendo con ciò gli eretici, ecc e un conto è dire che le tradizioni religiose non sono eresie, scismi, errori: sono legittime vie di salvezza, perché questo, ed è l’affermazione che fa Vaticano II, questo pone il problema nel cuore centrale della religione monoteista, che è il tema della verità

Siccome tale è stata anche l’impressione a riguardo del cristianesimo di molti asiatici, Arvind Sharma è stato spinto a chiedersi in che misura in Asia dovremmo essere «tolleranti verso l’intolleranza» e se non dovremmo sviluppare un’«intolleranza verso l’intolleranza»”. Se l’impegno per la verità può essere praticato senza ricorrere al genere di dogmatismo e di intolleranza che è certo renda inefficace il cristianesimo nella sfera pubblica del mondo in via di sviluppo, allora il modo saggio di procedere è quello di aprire nuovi approcci alla verità in cui il cristianesimo darà per primo il proprio contributo alla tolleranza e alla comprensione. Ciò è importantissimo per superare la crisi del cristianesimo e far sì che risponda alla riaffermazione del cristianesimo nel continente asiatico.

Ma ciò che dà consolazione e speranza è che l’Asia, per esempio, non sta aspettando il permesso di qualcuno per trasformare il cristianesimo in una religione di tolleranza – non almeno dal cristianesimo occidentale e dai suoi centri di autorità. Il dialogo con credenti di altre fedi, la sfida del creare comunità di amore e riconciliazione e l’azione di appropriarsi del messaggio e dello spirito cristiano da parte delle persone – queste cose stanno reinventando il cristianesimo come religione della tolleranza. A questo riguardo mi piacerebbe notare che il miglior commento che ho letto sul Discorso della montagna è di un autore indù. Ciò mi porta alla prossima considerazione.