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Il dolore (I):
questioni di filosofia

Gruppo del venerdì
Dicembre 1994

* All’interno del tema della salvezza la riflessione sul dolore dal punto di vista cristiano è sempre stata molto aperta, molto dibattuta, con mille soluzioni diverse, ma che, in sostanza, non sono mai diventate decisive; cioè non è una di quelle riflessioni intorno ai quali si può dire che su una soluzione particolare sta o cade il Cristianesimo, dal punto di vista teoretico.

Ovviamente il dolore, in tutte le sue forme, è uno dei punti limite, dove i problemi quotidiani, della storia, seri o non seri, diventano così lancinanti (o possono diventare così lancinanti) da essere invece spesso discriminanti soggettivamente, nella storia delle singole persone: un motivo per cui io resto o no nel Cristianesimo.

Questo tema è quindi immediatamente seguente in chiave logica a quello della salvezza: se la salvezza non è una risposta, è pur vero che ci sono situazioni in cui soggettivamente la vita che accade con il suo peso, con la sua fatica di vivere, ti travolge a tal punto da non riuscire più a stare in un orizzonte di salvezza, non avendo una risposta. Ma il contenuto “materiale” di ciò che si definisce o no dolore è mutevole dal punto di vista delle culture. Ad esempio, il denaro nel Medioevo era un tema limite (riguardava la sopravvivenza, il cibo) mentre per noi, che viviamo in una società opulenta, è molto più chiaro il fatto che esso dipende dal lavoro, dalla fortuna, dalla famiglia di provenienza… ma certamente non da Dio, e dunque non è più per noi un problema limite, anche per il semplice motivo che nel 90% dei casi non è una questione di vita o di morte. Questo non costituisce più problema su cui si decide la propria appartenenza o no all’orizzonte della salvezza.

Il dolore, nelle sue forme più esasperate, è forse una delle pochissime esperienze che nelle società opulente e moderne noi ancora viviamo come esperienza limite, su cui non riusciamo a governare niente e in cui ci sentiamo talmente impotenti che il fatto diventa un motivo per stare o non stare dentro un orizzonte di senso.

Già questo dato ci dovrebbe mettere in sospetto, nel senso che i problemi limite dipendono molto dall’auto percezione culturale che, non un singolo uomo, ma una cultura ha di sè e dunque sul livello di impotenza che sperimenta. Quindi ancora una volta la vera questione interessante per noi sul dolore è la questione culturale, non quella religiosa. La vera cosa di cui occuparsi è come questa cultura ci aiuta o no, ci rende difficile o no, vivere il dolore, dove lo mette dentro la vita, che rapporto si ha con la morte… Dio c’entra tanto come in tutte le storie e le vite degli uomini, ma la nostra tentazione di dire che se Dio c’è allora perché c’è il male ingiusto, non è forse un ragionamento così chiaro come sembrerebbe istintivamente. Questa è la premessa generale.

* Personalmente penso che il Cristianesimo non sta dalla parte delle risposte, dunque non sottrae nè aggiunge nulla alla fatica dell’umanità, di tutti i temi che l’umanità si trova a vivere. E’ una compagnia rispetto ai temi dell’umanità, è un “farci compagnia” rispetto alla fatica di esistere. Per il mio modo di vedere il dolore sta tra le fatiche di esistere, tra quelle della nostra civiltà più difficili, però all’interno stesso del Cristianesimo questa riflessione sul dolore, dal libro di Giobbe in poi, è stata molto percorsa, con tanti aspetti, tante soluzioni, molto caratterizzate filosoficamente e culturalmente, molto legate al periodo storico.

Sostanzialmente, tra tutti i pensatori da me esaminati, quelli più classici, ci sono tre modi sostanziali, tre livelli di pensare il male.

1/ La consapevolezza del male vissuta soggettivamente come sofferenza: si tratta di tutte le esperienze in cui siamo consapevoli di qualcosa di sbagliato, disordinato, ingiusto che viviamo come una privazione, una perdita.

2/ Ciò che è oggettivamente sbagliato o causa di oggettive sofferenze: ad esempio, un genitore anziano che muore è soggettivamente vissuto come una sofferenza, ma di per sè non come oggettivamente sbagliato, nel senso che è nell’ordine delle cose che il più anziano non sopravviva al più giovane; poi c’è l’esperienza di ciò che è oggettivamente sbagliato, un giovane che muore non torna nel conto di quello che sembra il ritmo naturale.

3/ Il male morale, ciò che costituisce un abuso sul piano morale e che può anche non essere una causa di oggettiva sofferenza, nè al limite, di soggettiva sofferenza, ma che viene individuato come un male dal punto di vista dei credenti e che, dunque, nell’economia generale della storia della salvezza, ha un peso negativo. Ad esempio: a noi suona molto chiaro un peccato del tipo “non pagare le tasse”, è una cosa ingiusta, anche perché ne vediamo le conseguenze di furto alla comunità. E questo tipo di peccato ci funziona bene. Poi non ci funziona invece molto bene capire perché la Chiesa insegna che è peccato non andare a Messa la domenica, nel senso che non succede niente, non si causa sofferenza ad alcuno, è una decisione personale che in fondo riguarda (apparentemente) solo il soggetto. Questa terza categoria, dal punto di vista della riflessione cristiana, è una cosa seria perché per un cristiano è un problema serio sapere (come dice S. Paolo) “perché voglio il bene e faccio il male”. Personalmente mi scandalizza molto di più il mio peccato, anche quando eventualmente non ha riflessi nè conseguenze, perché se si pensa alla fede come ad un rapporto la cosa più grave è il mio “chiamarmi fuori” da una storia.

* Ci sono allora tre modi per affrontare il problema.

1/ Il livello pratico-esistenziale, cioè la soggettiva consapevolezza di come io, in quanto singolo soggetto, vivo di fronte alle cose che percepisco come sofferenza nella mia esistenza, come mi do o no ragione della fatica che faccio a vivere. Questo livello è il più discusso, quando si parla del male, in genere, si parla sempre a questo livello; però è anche il meno utile nel senso che ha una carica tale di soggettività che è difficilissimo ragionarci. Si possono trovare alcuni criteri, non delle soluzioni. Si può cadere nella rassegnazione passiva, nella ribellione, si può reagire con lotta fiduciosa.

2/ Il livello teorico, la riflessione su ciò che è oggettivamente sbagliato, un problema teorico, filosofico, che sfida la ragione a neutralizzare o, comunque, a comprendere lo scandalo di un mondo che non è ordinato nonostante tutti gli sforzi di pensarlo come tale.

3/ Il livello dell’esperienza del male come mistero, riflessione sul male morale, quello su cui si discute meno, apparentemente meno rilevante ma, dal punto di vista del credente, radice anche degli altri due. E’ il problema del male come interrogativo che riguarda la salvezza globale e finale dell’uomo, la possibilità di una via d’uscita dal male, la possibilità di stare in un altro luogo che non sia il male. Da questo punto di vista ci sono state innumerevoli posizioni filosofiche, teorie, religioni, pseudo-religioni ed ognuna ha detto la sua. Ho pensato di proporre tre modelli che danno un certo quadro di come ci si è mossi a questo riguardo perché sono modelli di tre epoche storiche molto diverse.

A) INTERPRETAZIONI MITICHE sul male, il modello più antico (che sta ad esempio a sottofondo, culturalmente alla Bibbia) che abbiamo in qualche modo tutti dentro attraverso le frasi delle nonne, ed è quello archetipico, non socializzato, che non passa attraverso una riflessione di ragione. Funziona come nelle favole, con dei modelli non culturalizzati, che passano attraverso atteggiamenti primari. Queste interpretazioni hanno una serie di schemi molto fissi e molto alternativi, non conciliabili.

a) Primo schema: il dramma della creazione. Il male è il caos con cui il Creatore deve lottare, quello della cosmogonia greca precedente a Giove, Saturno e Urano, la lotta tra Cronos, il tempo, e la Terra, che è il caos. Il mondo è disordinato in sè, e l’atto creativo degli dei (e quindi degli uomini) è un atto di ordinamento conflittuale, è una madre che riordina casa con tre figli che continuano a buttar fuori giocattoli dalla cesta, ed è questa l’opera infinita di riorganizzazione. Questo tipo di archetipo sta dietro a tutte le ideologie del progresso, per cui “dateci un po’ di tempo, stiamo lavorando per voi”… Dunque ci si affanna. Nella nostra cultura questo schema funziona moltissimo: il male funziona come la resistenza del caos che non vuole essere riordinato, la medicina fa grandi progressi e nessuno osa sostenere che un girono non si morirà, però ci spera, si agisce come se fosse possibile. Questo mito è molto pericoloso, ha una serie di implicazioni: autopercezione totalmente eroica, per cui alla fine, credenti e non, ci sentiamo ordinatori del caos; problemi di sovraresponsabilità. Molti dei nostri sensi di colpa, di cui diciamo di soffrire a causa della cattiva educazione cattolica, ci vengono invece per deliri di onnipotenza, quindi tutto un sovraccarico di responsabilità e di non sopportazione al primo livello soggettivo del dolore che è l’annuncio della nostra impotenza. Questo mito presuppone inoltre che la natura sia caos, e dunque mal si concilia con dei post-ottocenteschi come noi che abbiamo l’idea di Rousseau, che la natura è buona e dunque non ci tornano i conti, perché da una parte viviamo il mito del naturale e dall’altra la retroimmagine di un caos originario che va ordinato. Nel mito originario la lotta è tra la materia terrestre e Cronos: la materialità ed il tempo cozzano, ed è la nostra esperienza quotidiana. Noi corriamo sempre, non abbiamo mai tempo, la nostra lotta perenne è con Cronos, ma Cronos battuto, morente, genera figli che si divoreranno.

b) Secondo schema: la caduta originaria dell’uomo. La salvezza diventa un problema storico; è uno schema usato dalla Bibbia e dalla cosmogonia assiro-babilonese. Il mito precedente, di area greca, darà origine al mondo dei filosofi, che noi conosciamo, e chi parte da lì pensa cos’è il bene, il male, fa classificazioni, cioè deve sistemare.

C’è però un altro mito, che è quello dei mondi semitici, quindi anche biblico, e assiro-babilonese, che caratterizza un altro mondo (e noi siamo figli di queste due culture insieme). Questo mito ha l’idea della caduta: c’è una creazione, una nascita originaria che è buona, positiva, non nasce da una guerra ma da un disegno ordinato, dove non c’è male, e poi c’è un problema d’origine per cui questo meccanismo, pensato per funzionare perfettamente, si inghippa e di lì c’è confusione perché il problema si moltiplica ed ha una serie di conseguenze ( cfr. Genesi); così succede che il bene slitta verso lo sfondo, l’età dell’oro e/o la salvezza, e la lotta al male diventa un problema storico. Per i greci non c’è differenza fra Urano, Giove e l’agorà, è tutto piatto, non c’è tempo; invece l’idea della caduta implica che c’è un punto in cui c’è qualcosa di stupendo che sta lassù, poi c’è una caduta e in mezzo c’è questo tempo, dove il male è un problema e dunque bisogna darsi da fare, non basta pensare tutte le idee in fila, bisogna contrastare il male. Di per sè, però, l’accoppiata di questi due archetipi di cui il mondo cristiano è figlio (mondo greco – mondo ebraico) raddoppia il problema della responsabilizzazione, cioè del soggetto che non solo si sente in dovere di riordinare tutto ma anche di doverlo fare adesso, dentro questa storia.

c) Terzo schema: il mito tragico. E’ perdente rispetto all’occidente, perché i due precedenti modelli incrociandosi nel Cristianesimo l’hanno schiacciato come modello di spiegazione. E’ il modello seduttivo, che persiste in modo sotterraneo in tutto l’Occidente, da Nietzsche alle sette sataniche, è tutta l’estetica del male possibile. Questa tragedia che è vivere il male e il dolore ha una sua componente di tragica necessità, per cui l’unico problema è viverla esteticamente, conservarsi eroi in questo meccanismo che, sostanzialmente, ci è indifferente. Questo modello rispunta a tratti in Occidente.

d) Quarto schema: il mito dell’anima esiliata. Ha funzionato in alcuni periodi: di per sè l’anima sta bene ma è esiliata in questo luogo temporale, carnale. E’ il mito della grande svalutazione del corpo, del tempo, delle cose. Questo mondo è malvagio e dunque il problema della liberazione è il ritorno da questo esilio. Tra il ‘400 e l’800 questo modello ha funzionato ma soprattutto come modello linguistico: era il modo di spiegare, e non tanto di pensare il male. Questa è un’idea solo occidentale, una distorsione del Cristianesimo, figlia di questi modelli archetipici; conseguente è l’idea del Paradiso perduto e che nostro diritto sia star bene. Solo l’occidente ha questa presunzione, nessun’altra cultura ha mai elaborato l’idea che sia un diritto che il male non esista.

B) L’Ottimismo di Leibnitz, modello di tutt’altro periodo ed è il modello del tempo della nascita del mondo scientifico, dopo 1500-1600 anni di Cristianesimo, quando l’occidente comincia a pensare che i miti non bastano più e nasce la necessità di dare delle spiegazioni scientifiche. E’ Leibniz il primo in assoluto, in termini storici, che da credente tenta di discolpare Dio della colpa del fatto che esiste il male, il primo che sente Dio come colpevole: com’è possibile che esista un Dio buono se esiste il male? E’ però il primo che crea confusione, che comincia a far pensare che forse è colpa di Dio. Il suo è un ragionamento molto raffinato: ogni nostra esperienza di male o di sofferenza non è un’esperienza di sofferenza in sè, ma esperienza di una privazione di un bene. Noi non sperimentiamo mai la sofferenza, ma la privazione di qualcosa che ci faceva piacere e dunque non si può incolpare Dio di una “non azione”, di qualcosa che non esiste. Dietro a questo ragionamento stanno due aspetti abbastanza interessanti e notevoli anche per noi:

1) un ottimismo sostanziale: il male come entità non esiste, noi avremmo “diritto” a star bene, ad essere felici (il che è tutto da dimostrare perché non c’è alcun elemento nella natura, biologico o psichico, che faccia pensare a ciò).

2) la nascita dell’idea di un Dio che esiste in quanto fa, caratterizzabile dalle sue azioni, e da azioni positive, e dunque di un “Dio ingegnere” che ha fatto il migliore dei mondi possibili nel migliore equilibrio tra costi e ricavi (i costi che sono non evitabili, sono del sistema, ma il risultato è massimizzato rispetto ai costi); in fondo è l’idea di un Dio calcolatore, scientista, e tutte le volte che permette che liberamente un uomo compia un male è per un maggior bene che è la libertà umana. Non a caso incomincia a nascere la questione della libertà, sconosciuta nell’antichità cristiana, dunque la libertà come massimo bene pensabile. Leibniz sostiene “non è che da un male che ci accade si possa ricavare un bene maggiore, perché questo è già dato in anticipo ed è la nostra possibilità di scelta”.

Domanda: è un luogo comune che dall’esperienza del dolore si può avere un bene?

Questo non è detto, accade che delle sofferenze diventino feconde. Per un credente questo sta sotto il segno della Resurrezione di Cristo, ogni morte nella pace di Dio è un completamento della passione di Cristo, verso la Resurrezione di Cristo, dunque una morte feconda, non c’è mai dolore sterile. Detto ciò, il problema non è questo. A livello di consapevolezza del singolo soggetto spesso accade questo e tra l’altro è un meccanismo paradossalmente molto chiaro, ormai molto spiegato: ogni lutto, ogni perdita, anche simbolica, produce un riassestamento degli equilibri psichici, personali e relazionali. A volte accade che delle morti scatenino squilibri enormi, altre che riassestino in positivo. Che a livello pratico esistenziale tutto ciò accada certo che sì, perché quando si dice che dalla sofferenza si cresce più in fretta si dice una cosa che Freud ha spiegato molto bene e cioè: ogni meccanismo di rielaborazione della propria identità passa attraverso delle esperienze di perdita. Siccome rielaborare è psichicamente faticoso, uno non si mette a rielaborare la propria identità se non gliela smuovono, se non gli tolgono un pezzo che deve rimettere a posto in tutto l’insieme e cercare altri spazi, trovare altri equilibri. Dopodiché può succedere che la gente dà di matto su un’esperienza di una perdita che non riesce a rielaborare.

Nella spiegazione globale di Leibniz ci sono alcune cose da notare:

a) Leibnitz è il primo che fa confusione fra singolo uomo e storia generale, cioè comincia a scompaginare le carte tra il singolo percorso e la spiegazione universale e questo noi ce lo portiamo dietro tragicamente. Qui c’è il segno della presunzione scientista dell’occidente che ci fa avere proiezioni di onnipotenza per cui da una parte quello che vale per me spiega tutto il mondo, dall’altra qualsiasi spiegazione del mondo deve riguardarmi direttamente se no non funziona.

b) Il Dio che viene discolpato da tutto questo procedimento non è il Dio della Bibbia, è un altro Dio, e non si capisce più cosa c’entra con il Dio di Gesù Cristo, nel senso che è l’ordinatore universale, ma appare non aver alcun rapporto personale con gli esseri umani.

c) Questa spiegazione di Leibnitz sottovaluta radicalmente il male morale, prende in considerazione i primi due livelli di cui si è parlato: l’esperienza soggettiva e quella oggettiva della sofferenza, ma non c’è più posto per il peccato nel suo ragionamento, non c’è più un luogo per il male come mistero proprio, perché tende a non considerare la responsabilità. Questo modello è un po’ l’origine di una serie di questioni su cui noi ci confondiamo, questa confusione tra singolo e storia, questo non trovar un posto, se non solo meccanico, per il male morale, per cui io faccio il male e Dio mi punisce mandandomi una sofferenza e se poi non riusciamo più ad accettare questo ragionamento che ci sembra giustamente idiota, non sappiamo più dove sta il male morale.

C) IL DIALOGO TRA DIO E MATERIA IN THEILLARD DE CHARDIN. E’ il contrario di Leibnitz, cioè il primo che dopo diversi secoli cerca di rimettere a posto alcune questioni rispetto al Dio cristiano, conosciuto come il modello evoluzionistico di Teillhard De Chardin. E’ di questo secolo, la sua grande intuizione teologica è di aver abbattuto l’idea di creazione come atto puntuale, cioè l’idea che ci sia stato un momento, una creazione, e poi ci sia una storia, che è il modo in cui anche noi pensiamo sempre la creazione. Invece per Theillard de Chardin. la creazione è un progresso, dunque c’è l’intervento di Dio, come un atto dialogico in un processo evoluzionistico, con caratteristiche che possono essere descritte più o meno raffinatamente dalla scienza. E’ molto bello perché lui, a partire dalla sua competenza, ha fatto un grande discorso sulla Creazione come dialogo tra Dio e la materia, quasi come la materia fosse un’entità animata di fronte a Dio e dunque tutta la creazione, i percorsi erronei dell’evoluzione, il senso che hanno nel dialogo, le prove che Dio fa nel rapporto con la materia. Poi giustamente ad un certo punto si pone il problema: “ma l’uomo in questo dialogo da che parte sta?” e ci sono un paio di testi molto belli in cui spiega che in questo dialogo tra Dio e la materia, in questa continua opera di creazione che è il rapporto tra Dio e le forze fisiche, le leggi della scienza, l’uomo sta a fianco di Dio, cioè non sta semplicemente di fronte a Lui con tutta l’altra materia, non è uno dei bracci possibili di questa evoluzione più o meno ben riuscita, ma è il partner di Dio, dunque ci mette le mani anche lui (esempio: come un padre artigiano il quale, al figlio che gironzola per la bottega, ogni tanto, lascia fare alcune operazioni che a volte riescono bene, altre volte risultano goffe).

In tutto questo il male dove sta? L’immagine che ne risulta ha la sua debolezza perché l’uomo è un collaboratore di Dio non totalmente adulto, perennemente sotto tutela e dunque anche Theillard de Chardin. finisce di sottovalutare il mistero del male mostrando come il male sono gli errori di percorso. Questa immagine ha comunque il grande pregio di rispostare alcune questioni:

a) riportare la centralità sul Dio della Bibbia, sul Dio cristiano, personale, non solo dei filosofi;

b) risottolineare la questione, per secoli dimenticata, della storia non come un paradiso perduto, poi un tempo in cui c’è lotta e poi un altro paradiso se la lotta è vincente, ma come il luogo del dialogo costante, la creazione continua, non puntuale e dunque la possibilità, paradossalmente, da parte dell’uomo e delle cose, di essere “correttivi” dell’azione di Dio; in qualche modo, momento per momento, con le proprie risposte “costringere” Dio a nuove vie, a disegnare altre porte su muri di per sè chiusi, quindi la possibilità di un dialogo reale, non solo una finzione.