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La Norma

Per non rimanere sotto la soglia della propria felicità possibile

Gruppo del venerdì
Ottobre 1995

* Il problema per noi interessante è come si individua il proprio livello di felicità possibile e come si individuano i punti in cui eventualmente vi si rimane al di sotto e perché.

Questa è la questione interessante; non il pensare “adesso mi impegno, sarò buono”, che finisce per non essere affatto risolutivo se non ho individuato la mia felicità possibile in alcune cose o se ho creduto che fossero altre, dunque se non ho percorso il rapporto fra il mio desiderio e la mia vita.

Da questo punto di vista, il cristianesimo è molto chiaro: quando ci viene insegnato dall’insegnamento tradizionale che la morale ci è data per la nostra felicità, e poi questo viene tradotto dicendo che se uno sta buono, poi si sente più contento e non ha sensi di colpa, allora la prima affermazione è assolutamente vera e la seconda è assolutamente falsa; volendosi infatti risparmiare la fatica (perché è fatica!) del procedimento complesso per trovare il proprio livello di felicità possibile, si semplifica in modo tale per cui alla fine si snatura anche la prima affermazione.

* Il procedimento più semplice è usare una specie di esempio da cui ricavare la regola generale. Il mio professore di morale faceva sempre questo esempio: una delle cose che succede più spesso nella vita delle persone normali è che uno dica “Mi sono comportato così, oppure ho trattato male qualcuno, ho reagito violentemente, perché sono molto stressato, molto teso”. Questa è una delle affermazioni correnti nella nostra realtà. Lui diceva: questo non è nè un peccato, nè un non peccato, non è ancora niente, questa cosa è un sintomo: io dico di me di essere stressato o teso e dunque di avere un certo comportamento non per mia libera scelta, ma come schiavitù condizionata da questa tensione. Allora il procedimento da fare è: che cosa mi dice questo sintomo, quale domanda pone alla mia realtà, qual è la malattia che questo sintomo esprime (esattamente come se uno avesse la febbre e si chiede: come mai, sarà una banale influenza o un’infezione più grave, perché diverso è l’intervento da fare).

Nell’esempio dello stressato, una delle cose che raramente viene posta come una domanda morale è perché sei stressato; cioè normalmente quello che si dice in termini di analisi morale della situazione, è sempre “E’ la vita moderna, succede così, capita a tutti, bisogna cercare di governare la propria aggressività”.

Questo significa semplicemente occuparsi del sintomo e non chiedersi da cosa viene.

* Allora il passaggio corretto da fare è “dal sintomo alla genesi del sintomo”, dunque perché io sono stressato. Ad esempio: qual è l’organizzazione del mio tempo e come è gestita la giornata, la settimana, per cui risulto stressato. Dietro a questa domanda, ovviamente, ce n’è un’altra: quanto dipende da me nell’organizzazione del mio tempo perché possono esserci situazioni oggettive per cui uno non può fare diversamente; ma qui c’è un altro passaggio importante da fare e cioè capire se è vero che tutte le condizioni oggettive sono veramente tali, o se non è piuttosto che mi sono posto in modo tale da essere uno SCHIAVO CONDIZIONATO DALLA MIA STORIA e qui incomincia veramente il discorso morale serio (tratto male perché sono stressato, sono stressato perché lavoro molto, lavoro molto perché ho fatto un mutuo, ho fatto un mutuo perché… queste sono reali condizioni oggettive, ma è vero che a monte sei stato tu a metterti in situazione tale da essere schiavo condizionato della tua storia).

Questo sembra banale, ma credo che le nostre scelte spesso sono percorsi di schiavitù condizionata; poniamo condizioni tali per cui anni dopo le paghiamo. A questo punto comincia il discorso morale in senso serio e la questione è: che cosa voglio veramente per me.

* Individuato ciò, il problema diventa molto serio in termini reali, non teorici, perché ci si domanda come si costruisce una CONTROSTORIA.

Uno ci mette anni per rendersi conto che è iper-stressato, che ha costruito un pezzo di realtà di cui si è reso schiavo consapevole, ma quella realtà poi esiste senza di lui, esiste nella sua oggettività e dunque per questo si dice che la CONVERSIONE E’ PIU’ DIFFICILE DEL PECCATO. E’ più facile peccare perché uno pecca all’origine di una realtà, ma per convertirsi deve fare i conti con una realtà cui ha contribuito ma che non è più in grado di dominare totalmente quando incontra un dato negativo e sta male. Il problema è cosa vuol dire costruire una controstoria.

Costruire una controstoria implica un tempo almeno lungo quanto il tempo di costruzione della situazione di peccato e, spesso, di più. Allora l’esame di coscienza consiste nel MONITORAGGIO COSCIENTE sulla propria vita, di a quale livello di storia o di controstoria si è, nell’individuazione degli strumenti necessari per costruire una propria controstoria che, in genere, è sempre parziale, mai risolutiva della totalità del problema in una volta sola, ma costruisce un itinerario che inverte la costruzione della realtà in cui si costruisce un’altra realtà.

* Fin qui anche la psicanalisi: un minimo di percorso di coscienza della propria psiche si costruisce. Cosa c’entra allora il tema religioso, del peccato? Il problema è quello della potenza, cioè Dio ha potere sulla realtà, è Onnipotente e noi no. (Il sacramento della Confessione è l’atto di consegna della realtà fallimentare perché sia trasformata in una realtà non più fallimentare anche attraverso di me, attraverso il mio percorso).

Di solito la nostra operazione, quando va bene, è l’esame del sintomo, molto più spesso è al di sotto del livello del sintomo, cioè non dice niente del fatto che io sto bene o male rispetto ad alcune cose, ma dice della mia congruenza rispetto ad una pretesa norma che è, di per sè, di felicità possibile, ma che io non elaboro nemmeno se è di felicità possibile per me o no, ma semplicemente dico se sono o no congruente rispetto a questa norma.

Il corrispondente del riconoscimento, per il credente, che Dio ha un potere sulla realtà, dunque che noi possiamo non essere mai schiavi della nostra realtà, è l’esperienza della verifica con la norma; quando noi diciamo di credere che Dio ha un potere sulla realtà, l’esperienza che ne possiamo fare concretamente è l’esperienza di confrontarci con la norma che ha una sua oggettività, un suo potere, in quanto riconduciamo la norma a Dio. La norma morale è l’esperienza del non essere tutto lì dove sono, capisco e sento, non essere costretto ad essere schiavo del reale che capisco. Il credente ha un elemento in più rispetto al percorso umano: in questa fatica di una controstoria in cui uno ha costruito pezzi di realtà che non sono più suoi, lui sa che, comunque, quella realtà E’ TUTTA DI DIO; anche lì dove lui non può più ricondizionare la realtà o non totalmente; questa realtà è nelle mani di Dio e nel gesto sacramentale un credente fa questa operazione. Quando uno si confessa, non è che confessa i peccati. I Santi confessori non sono quelli che confessavano, ma quelli che hanno confessato LA FEDE. Quando uno si confessa, confessa di credere che Dio è più grande della sua realtà, fa un atto di fede che la realtà che lui ha costruito e non può più cambiare, posta nelle mani di Dio, può essere trasformata, redenta. Però noi non facciamo l’esperienza di questo (Dio prende la realtà e la gira), possiamo dire che crediamo in questo. Facciamo l’esperienza concreta di questa cosa, cioè che c’è una realtà più grande di noi, ma non per SCHIACCIARCI, ma per SALVARCI, nel confronto con la norma.

La norma ci è data come l’esperienza di un più grande di noi; per questo il dire di un cristiano “questa norma non l’accetto perché non la capisco, non la condivido” è un’imbecillità perché se uno capisce le norme non ne ha bisogno (es.: se il comandamento è ìnon uccidereî e uno dice ìci credo perché sono proprio convinto di non uccidereî, vuol dire che lui di questa norma non ne ha proprio bisogno perché comunque non ucciderebbe). Le norme di cui abbiamo bisogno sono quelle che non condividiamo, su cui non arriviamo da soli, che ci dicono una cosa della realtà che è quella che di per sè noi non capiamo dal nostro sforzo. La norma è l’esperienza concreta che noi facciamo della signoria di Dio sulla realtà e per questo le norme, in ambito morale, hanno un ruolo serio per il cristiano e liberatorio: se io posso verificarmi su una norma, vuol dire che io non sono l’unico costruttore della mia realtà, dunque non sono dannato.

* C’è un doppio percorso: un anello che è quello della storia e della controstoria psichica ed un secondo anello che è quello dal punto di vista del rimanere in una referenza che è al di là del mondo, di una realtà che sta nelle mani di Dio e dunque di una norma più grande di quello che io capisco. Questo doppio anello è l’ESAME DI COSCIENZA. Il piccolo particolare è che raramente i cristiani medi sono in grado di fare già il primo anello (coscienza di sè), quasi mai ricevono la spiegazione del secondo anello, come umanamente ci fermiamo ai sintomi, dal punto di vista di fede ci fermiamo alle norme. (In confessione ci vien chiesto: quante volte hai fatto questo, quello, e la nostra insofferenza diventa altissima).

* Domanda: “se io avessi seguito la norma non avrei fatto le cavolate che hanno prodotto del male?”

Il problema per noi è sempre cronologico: se facevo in modo diverso c’era un’altra storia. Ma la storia che ti è data è una sola e dunque tu non hai fatto altro che quello. La norma è un KAIROS, un tempo di salvezza e tu la incontri là dove la puoi sopportare, nè prima nè dopo. Ci sono alcune norme che ciascuno non ha mai trasgredito, ognuno ha le sue, perché le ha incontrate fin dall’inizio del suo percorso, perché, rispetto a quella dimensione di sè, è stato in grado di stare all’altezza della sua felicità; ci sono invece alcune dimensioni di noi, ciascuno ha le sue, su cui noi possiamo incontrare delle norme solo ad un certo punto della nostra vita, perché ci mancano dei pezzi e non siamo in grado di rimanere al livello della nostra felicità possibile.

La norma non entra mai nella storia, ma sempre solo nella controstoria: non scelgo in nome delle norme, ma in nome di me, del mio percorso, dei valori, dei desideri. E’ nel momento dell’esame di coscienza che io lavoro sulle norme. Ad esempio: cosa deve fare un cristiano in una certa situazione politica, qual è la norma che aiuta; quello che succede normalmente è che chiunque ha una norma buona per sostenere una posizione perché in termini giustificativi di una storia le norme vanno bene per tutto, tranne cose clamorose (omicidio, furto plateale), generazioni di credenti hanno frodato lo stato, fatto cose che noi oggi consideriamo assolutamente gravissime, molto tranquillamente; perché in termini positivi della costruzione della storia, la responsabilità è nostra, non della norma. La norma entra nel percorso di verifica, nella costruzione di una controstoria e a quel punto lì se incontro la norma nel momento giusto la faccio talmente mia che poi diventa elemento positivo di costruzione senza più bisogno della norma stessa, diventa una parte di me conformata a Cristo, l’habitus, la virtù.

In questo senso la norma non è l’equivalente di legge ma di misura, di canone, di cartamodello, non di prescrizione. Se utilizzo la norma in senso prescrittivo (es.: la proprietà è un furto) sono comunque in peccato, non ho possibilità: o faccio la scelta drastica o sono tagliato fuori. La norma funziona nella costruzione della controstoria: cioè quando sento un sintomo di malessere sul mio possedere, entra in gioco il ripensamento sulla mia collocazione nel possedere e cerco gli strumenti per una controstoria non come una norma esterna, ma come lo strumento che uno si dà per un percorso diverso. Noi cresciamo in queste cose un po’ scompensati, un pezzo alla volta. Solo Gesù Cristo cresceva in età, sapienza e grazia. Dunque nelle varie fasi della nostra vita rarissimamente ci accade di poter tenere sotto controllo tutte le dimensioni della nostra esistenza (noi oscilliamo perennemente tra privato e pubblico, tra l’investimento sul nostro essere privati, la nostra identità, la costruzione di noi e l’investimento sul nostro essere razionale, sui rapporti, l’immagine… ed anche il nostro esame di coscienza oscilla in questo senso). Questo è un dato di realtà, NON SIAMO DIO, per cui non è detto che uno possa pagare l’Iva, essere un buon marito, … tutto contemporaneamente, come punto di partenza, e tutto insieme. Aggiustando un pezzo alla volta, forse, se è molto fortunato, uno riesce prima di morire a non essere troppo in debito su tutti i piani dell’esistenza.