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L’Apocalisse (XI)

Gruppo del venerdì
Marzo 2000

Siamo nei capitoli dal dodici al diciassette, quelli che hanno maggiormente segnato la comprensione normale dell’Apocalisse con i flagelli, il sangue, la peste, con immagini di giudizio molto forte. Nelle lezioni precedenti abbiamo visto il capitolo della donna e del drago, poi quello delle due bestie del mare e della terra, la questione degli angeli con la falce, immagine della morte, ed il tino della collera di Dio con il sangue traboccante fino al morso dei cavalli.

Ora affrontiamo i due capitoli dell’Apocalisse in cui prevale un genere letterario “horror”. Dovremo cercare di fare uno sforzo di ricostruzione, in quanto noi stiamo leggendo il testo a pezzetti, sezionando unità letterarie e presentando ogni pezzo con una sua compiutezza letteraria in modo che abbia un senso e non lasci a metà una visione o un simbolo. Il difetto però, di questo tipo di lettura, è che le immagini finiscono di essere un po’ staccate dal quadro generale via via perso di vista. A questo punto, in cui l’immagine staccata, così come nella tradizione spesso è avvenuto, corrisponde esattamente all’immagine comune che abbiamo dell’Apocalisse, cioè fine del mondo, dramma, giudizio, a questo punto o si fa uno sforzo di tenere a mente il quadro generale o ci si ritrova dentro una lettura molto parziale.

Ricordiamoci sempre il quadro generale: Giovanni sta descrivendo dei circoli concentrici sulla storia; di ogni pezzo di percorso prende l’ultimo e fa uno zoom nel pezzo successivo, lo riamplia per andare verso un centro che è la morte di Cristo.

Il centro di questi due capitoli è il mistero di Dio, la morte di Gesù Cristo. Dunque l’aspetto apocalittico, la dimensione agonica della storia, non è il dramma della fine del mondo bensì il dramma della morte di Gesù Cristo. A noi fa molto problema il giudizio di Dio, la collera di Dio, quella che arriva addosso a noi e ci pare sempre molto meno drammatica la morte di Gesù Cristo, morto e risorto.

Giovanni invece prende sul serio la croce e tutto il tono drammatico si trova nel punto centrale della spirale che egli sta disegnando: la morte di Cristo è la vera e unica agonia della storia.

Dopo ciò ricominceremo i capitoli che di nuovo si allargano, attenuano il tono drammatico fino al capitolo ventuno con la Gerusalemme celeste e con l’altra metà della questione, cioè la morte di Gesù Cristo è un’esperienza storica, di dramma, ma il suo effetto sono il giudizio e la salvezza. Il giudizio ha due facce e non è sempre necessariamente negativo: condanna o libera.

Giovanni va fino alla crescita dell’acme drammatico che è la morte di Cristo, non la nostra; dopo presenta la doppia faccia del giudizio, della parola di giudizio sulla storia, quindi la salvezza, la Gerusalemme celeste, la sposa preparata per l’agnello, oppure la condanna. Giovanni prende sul serio tanto la morte di Cristo quanto la realtà della storia, quindi prende sul serio il fatto che non è vero che tutto è uguale a tutto.

Noi abbiamo in mente un meccanismo per cui, rispetto a questi temi, da una parte proviamo difficoltà con i testi in cui Dio è cattivo, giudice; dall’altra, sulla nostra vita, tendiamo a fare ragionamenti al ribasso, o colpevolizzanti o sminuenti. Alla fine usiamo un buonismo di fatto ed accusiamo Dio di una durezza eccessiva.

Giovanni fa esattamente il contrario: Dio è particolarmente duro nel giudizio, non tutto è uguale a tutto, perché prende sul serio la nostra storia che è una cosa seria e ciascuno, l’abbiamo più volte detto, nella battaglia che la storia è può mettersi dalla parte di Dio oppure no. Nella battaglia dell’Armaghedon, che noi chiameremmo del giudizio finale, ognuno deve decidere in quale esercito stare. E Giovanni ci mostra che Dio prende molto sul serio la nostra storia e che, da una parte, le cose non sono irrilevanti, non è che va tutto bene; ma dall’altra il giudizio che in Cristo si realizza fa sì che la drammaticità sta sulle spalle di Lui, non sulle nostre ed è strumento di salvezza per chi sta nell’esercito di Dio. Quindi è proprio una specie di rovesciamento.

I due capitoli 15 e 16 stanno dentro questa logica in cui la questione di Giovanni è la parabola degli interventi di Dio nella storia, interventi che hanno il loro centro nella morte e resurrezione di Cristo. Leggiamoli.

“Poi vidi nel cielo un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi si deve compiere l’ira di Dio.

Vidi pure come un mare di cristallo misto a fuoco e coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine e il numero del suo nome, stavano ritti sul mare di cristallo. Accompagnando il canto con le arpe divine, cantavano il cantico di Mosé, servo di Dio e il cantico dell’Agnello:

“Grandi e mirabili sono le tue opere,
Signore Dio onnipotente;
giuste e veraci le tue vie
Re delle genti!
Chi non temerà, o Signore,
e non glorificherà il tuo nome?
Poiché tu solo sei santo.
Tutte le genti verranno
e si prostreranno davanti a te,
perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati”.

Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza; dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli, vestiti di lino puro, splendente, e cinti al petto di cinture d’oro. Uno dei quattro esseri viventi diede ai sette angeli sette coppe d’oro colme dell’ira di Dio che vive nei secoli dei secoli. Il tempio si riempì del fumo che usciva dalla gloria di Dio e dalla sua potenza: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli.

Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio”.

Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna sugli uomini che recavano il marchio della bestia e si prostravano davanti alla sua statua.

Il secondo versò la sua coppa nel mare che diventò sangue come quello di un morto e perì ogni essere vivente che si trovava nel mare.

Il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. Allora udii l’angelo delle acque che diceva:

“Sei giusto tu che sei e che eri.
tu, il Santo,
poiché così hai giudicato.
Essi hanno versato il sangue di santi e di profeti,
tu hai dato loro sangue da bere:
ne sono ben degni!”.

Udii una voce che veniva dall’altare e diceva:

“Sì, Signore, Dio onnipotente;
veri e giusti sono i tuoi giudizi!”.

Il quarto versò la sua coppa sul sole e gli fu concesso di bruciare gli uomini con il fuoco. E gli uomini bruciarono per il terribile calore e bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali flagelli, invece di ravvedersi per rendergli omaggio.

Il quinto versò la sua coppa sul trono della bestia e il suo regno fu avvolto dalle tenebre. Gli uomini si mordevano la lingua per il dolore e bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei dolori e delle piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni.

Il sesto versò la sua coppa sopra il gran fiume Eufràte e le sue acque furono prosciugate per preparare il passaggio ai re dell’oriente. Poi dalla bocca del drago e dalla bocca della bestia e dalla bocca del falso profeta vidi uscire tre spiriti immondi, simili a rane: sono infatti spiriti di demòni che operano prodigi e vanno a radunare tutti i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente.

Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andar nudo e lasciar vedere le sue vergogne.

E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Armaghedòn.

Il settimo versò la sua coppa nell’aria e uscì dal tempio, dalla parte del trono, una voce potente che diceva: “E’ fatto!”. Ne seguirono folgori, clamori e tuoni accompagnati da un grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa di vino della sua ira ardente. Ogni isola scomparve ed i monti si dileguarono. E grandine enorme del peso di mezzo quintale scrosciò dal cielo sopra gli uomini, e gli uomini bestemmiarono Dio a causa del flagello della grandine, poiché era davvero un grande flagello.”

Questa è veramente un’immagine “apocalittica” nel senso classico del termine, ma spero che voi abbiate ormai abbastanza consuetudine con la Scrittura per aver captato alcune cose. Ad esempio, nella settima coppa una voce dice: “E’ fatto!” e segue un terremoto: è esattamente la scena del calvario quando Gesù dice: “Tutto è compiuto”.

Nel racconto del calvario viene detto: “Si squarciò il velo del tempio”. Qui il tempio è già aperto e la voce esce dal tempio. Tutte le coppe che via via seguono, ricordano per assonanza: “Allontana da me questo calice”. Ed il continuo offrire la coppa a Babilonia e per tutte le coppe che vengono versate il dire che gli uomini bestemmiarono Dio invece di ravvedersi, è come affermare: la coppa offerta a Gesù che nell’obbedienza viene accettata diventa strumento di salvezza mentre le coppe rifiutate dagli uomini diventano strumento di bestemmia.

E’ abbastanza evidente il tentativo di Giovanni di mettere in scena il film che richiami immediatamente la centralità della morte di Gesù.

Intervento: questa bestemmia può anche essere disperazione per la dannazione?

Sì, credo che qui però la reazione sia molto forte per quanto abbiamo detto l’altra volta delle bestie, cioè che il problema della bestia politica è la menzogna, quello della bestia religiosa è la bestemmia. Siccome poi Giovanni prosegue con il castigo di Babilonia, cioè la questione politica, qui il retropensiero è la bestia religiosa, quindi la bestemmia è l’asservimento degli uomini al demonio ed il segno della ribellione.

Giovanni non ha una cultura psicanalitica, legge la realtà e su di essa dà chiavi di lettura: coloro che si sono asserviti alla bestia usano i suoi strumenti, dunque bestemmiano in quanto quella è la loro reazione. E’ la contrapposizione a Gesù che nell’orto degli ulivi dice: “Allontana da me questo calice, ma non la mia, ma la tua volontà si compia” ed è il contrario della bestemmia, cioè il riconoscimento del luogo corretto della creatura di fronte al Creatore e quindi l’obbedienza.

Allora, due ragionamenti.

Il primo sulla struttura. La questione di questi due capitoli è il mistero di Dio che Giovanni da lontano ha incominciato a tracciare e che poi, con segni più forti in questi capitoli centrali, mostra con evidenza. Il mistero di Dio ha due aspetti: l’instaurazione del regno messianico, cioè il disegno di Dio sulla storia, cieli nuovi e terra nuova; l’esercizio del giudizio, il prendere sul serio la realtà, dunque il discriminare, in quanto non tutto è uguale.

Nei capitoli: 17, 18, 19 e 20 c’è il tema del giudizio; nei capitoli 21 e 22 il tema del regno messianico. Questo è il punto crinale, poi succedono le due conseguenze di questi avvenimenti: la terra è redenta; il giudizio esercitato.

Filosoficamente si direbbe: bene e male non sono pari; il bene è un’azione positiva, il male non è il contrario del bene. Dio ed il demonio non sono due divinità paritetiche. Questo è molto presente in Giovanni: nel Prologo le tenebre non hanno accolto la Luce ma non hanno avuto il potere sulla luce. L’esempio tenebre-luce usato da Giovanni è molto chiaro perché una grande tenebra non è dissolta da un fiammifero acceso, ma è interrotta, cioè nemmeno una grandissima tenebra può contro un fiammifero acceso che non risolve tutta la tenebra, ma comunque un po’ di luce la fa. Non sono pari tenebre e luce.

Dunque Giovanni rispetto alla storia dice: c’è la morte di Cristo, il giudizio, buoni e cattivi, e l’instaurazione del regno messianico; cioè sull’oggettività della storia il bene è instaurato, cieli e terra nuova ci sono, c’è uno spazio in cui il bene è oggettivamente instaurato ed in cui, come si vedrà nel capitolo 21, “gli eletti non avranno più bisogno di luce, nè di lampada, né di sole, perché il Signore Dio li illuminerà”. Quindi non occorreranno più strumenti per cercare la verità, la luce verrà direttamente da Dio e tutto sarà reso visibile.

E questa non è solo la sorte dei buoni, ma il dato oggettivo sulla storia. Ciò che viene instaurato è il regno messianico in cui non tutto è uguale a tutto, dunque c’è un giudizio, una discriminanza rispetto al bene ed al male perché esiste una differenza, ma la potenza di realtà sta nelle mani del bene. Quindi il regno messianico non produce solo il giudizio, come sarebbe nella nostra logica in base ad un fatto discriminante che divide in buoni e cattivi, ma produce, da una parte, il regno stesso fuori dal giudizio in quanto la potenza amorosa di Dio comunque agisce, dall’altra il giudizio quanto agli uomini perché Dio prende sul serio la nostra soggettività.

Ricordo l’esempio di un mio professore che, scherzando, diceva sempre: “Quando la gente mi chiede se il proprio gatto ci sarà o no in paradiso, io rispondo che il suo gatto e tutti i gatti di sicuro sì, lei non so”. Rispetto a ciò che non ha una responsabilità soggettiva Dio ha sicuramente una volontà di bene, instaura una realtà positiva. E’ riguardo agli uomini che Dio rispetta talmente la loro libertà da esercitare un giudizio.

Il regno messianico in cui il lupo pascerà con l’agnello, le falci saranno cambiate in vomeri, tutto questo è il contenitore e poi Dio invece prende sul serio la soggettività umana che sarebbe appiattita se egli dicesse: “Vi salvo tutti, non fa niente”, perché sarebbe come dire che la nostra vita conta zero in quanto siamo tutti promossi.

Questa è la logica del mistero di Dio ed era già stata annunciata nella settima tromba in cui i ventiquattro vegliardi cantavano: “Noi ti rendiamo grazie Dio onnipotente” e si aprì il santuario di Dio nel cielo ed apparve l’arca dell’alleanza. Ne seguirono polveri, voci, scoppi di tuoni ed una tempesta di grandine. Fine. Il settimo elemento è sempre breve con un senso di silenzio, di incompiuto. Ricordate che nel settimo sigillo ci fu mezz’ora di silenzio.

Qui invece arriviamo allo svolgimento del settimo elemento, quindi abbiamo la settima coppa lunghissima, ma tutto l’insieme del settenario delle coppe è in realtà lo svolgimento del settimo elemento che, dalla sua forma primitiva del giorno del riposo rispetto alla creazione, diventa l’atto redentivo del Cristo.

La settima tromba viene sviluppata e la centralità della morte di Gesù è incastrata tra i due elementi che essa annunciava e che Giovanni cita nel racconto della Passione: il velo del tempio si squarcia, il tempio si apre con i fenomeni che seguono immediatamente la morte di Gesù, terremoto e tempesta di grandine, chicchi da mezzo quintale. Ciò che nel racconto della Passione è in tre righe, nella settima tromba è in tre versetti, qui è in due capitoli.

L’idea è sempre la stessa del settimo sigillo, cioè Giovanni fa uno zoom non temporale nel senso che, dal punto di vista della cronaca, ammesso che sia accaduto, è accaduto come nel racconto dei Vangeli. Gesù spira e tutto succede contemporaneamente, ma qui noi siamo al settimo cielo dove Giovanni è stato rapito e tutte le visioni che sta raccontando sono quelle che ha sul cielo tranne quando la donna viene cacciata sulla terra. Quindi, dal punto di vista del cielo, dell’eternità, la cronologia, il tempo, cambia. Questo sta cercando di dire.

Il momento puntuale della morte di Gesù, le tre del pomeriggio del venerdì santo secondo la tradizione popolare, qui diventa un succedere di tutto in un tempo lungo, dilatato.

L’aprirsi del tempio significa almeno due cose in Giovanni: la fine del culto giudaico in quanto il tempio, giocato sul santa santorum segreto e nascosto, si svuota della presenza di Dio terminando la sua funzione; la pienezza della rivelazione di Gesù, perché, con l’aprirsi del tempio, ciò che non si poteva vedere, l’arca dell’alleanza riservata a pochi, è ormai visibile per tutti. I fenomeni legati ai terremoti sono tutto ciò che un buon ebreo di quell’epoca, un uomo della cultura di quel tempo, riusciva a dire per esprimere nuovi cieli e nuova terra, cioè cambia tutto e la creazione stessa partecipa a questo rinnovamento.

L’intenzione di Giovanni è dire con chiarezza che non si sta parlando di una cosettina: succede un terremoto, le città si spaccano in tre e non sono più le stesse di prima, c’è una nuova città e scenderà dal cielo la nuova Gerusalemme. E non è solo Babilonia, la cattiva, ad essere distrutta; anche Gerusalemme ha bisogno di diventare la nuova.

L’altra questione che si nota leggendo semplicemente questo testo è il fortissimo richiamo di immagini all’Esodo. Inizia dicendo: “Cantavano il canto di Mosè servo di Dio e il cantico dell’Agnello”. E’ un cantico letterariamente costruito in modo parallelo ad Esodo 15: “Voglio cantare in onore del Signore, egli ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere”. Nelle coppe versate si riconoscono benissimo le piaghe d’Egitto. Tutto il tema è inaugurato dal sangue del tino fino al morso dei cavalli che apriva l’immagine del mar Rosso in cui annegavano i cavalli del faraone. Poi c’è il cantico dei redenti.

Per un ebreo l’immagine immediata era l’Esodo, ma l’idea è che Cristo è il nuovo Esodo e ciò è detto ad un pubblico ancora per lo più ebraico, per il quale l’Esodo è l’atto fondativo dell’identità di Israele. A causa dell’Esodo sul Sinai si ricevono le tavole della Legge e si fa l’alleanza. L’Esodo è l’intervento che Dio compie perché ha ascoltato la povertà del suo popolo, lo ha liberato e da lì in poi inizia il rapporto di elezione e di privilegio.

Giovanni dunque sta dicendo che c’è un atto fondativo ed ha inizio un’altra storia. Nella morte di Gesù c’è di nuovo Dio che ha ascoltato il grido del suo popolo, di chi nell’agonia e nella battaglia che la storia è, rischiava di non farcela. E Dio è intervenuto. Chi è passato nel mare della tribolazione può cantare il canto di lode a Dio ed inizia una nuova alleanza.

Da qui parte la nuova Alleanza che da Giovanni e da Paolo viene chiamata Nuovo Testamento. E’ il nuovo Esodo, dunque ci sarà un nuovo Sinai, una nuova Alleanza, una nuova Legge. Allora Paolo spiegache avete ricevuto una nuova Legge che non è scritta sulla pietra, ma nel cuore di carne perché è la Legge della libertà dei figli di Dio.

Paolo spiega l’aspetto legale, Giovanni fa “l’apparato filmico”, la narrazione immaginifica, ma è chiaro che qui, nel punto centrale, da un lato c’è dietro l’Esodo come atto fondativo dell’autocomprensione del rapporto tra Dio ed il popolo; dall’altro c’è dietro il racconto della Passione di Gesù. Queste sono le due trame narrative. Perciò il racconto che, letto così, mette paura su quanto succede a noi, in realtà è un racconto oggettivo che narra ciò che Dio compie per l’umanità.

Intervento: Paolo e Giovanni si sono frequentati?

Paolo incontra Pietro, lo cita per motivi simbolici in quanto Pietro ha un primato e Paolo intende dire che c’è una continuità tra lui e l’insegnamento dei dodici. Certo che, per stile letterario e sensibilità culturale, Paolo e Giovanni sono molto diversi. Entrambi hanno lo stesso problema di difficile rapporto con la sinagoga, con il giudaismo, di complesso rapporto di rispetto e di amore, di appartenenza e di separazione, ma sono proprio diversi. Paolo è un fondatore di Chiese, si occupa di casi concreti, scrive lettere; Giovanni è un intellettuale.

Una delle cose più interessanti, da noi mediamente sottovalutata, è che tutte le diversità fanno parte di un unico Nuovo Testamento canonico: ciò vuol dire che il pluralismo non è un problema moderno e le chiese sono fatte dalla somma delle diversità altrimenti ci sarebbe un Vangelo solo e non quattro. Käsemann dice che l’unità del Nuovo Testamento, il fatto che i libri siano tutti insieme, dimostra la diversità delle chiese, non la loro unità. C’è una chiesa di Matteo, una chiesa di Marco, una chiesa di Luca, una chiesa di Giovanni, poi c’è Paolo, cioè c’è lo spazio per essere tutti canonici e tutti diversi.

Vediamo in dettaglio alcuni segni. “Poi vidi nel cielo un altro segno grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli, gli ultimi, poiché con essi si deve compiere l’ira di Dio”. Questo inizio ci dice che Giovanni è giunto al dunque: tutto si compie. Al fondo dei due capitoli c’è la voce che dice dal tempio: “E’fatto”.

Un altro segno grande e meraviglioso è nel cielo; un altro perché gli altri due già citati sono la donna e il dragone. Prima erano visioni poi, con la donna, c’è un segno. Per Giovanni la visione è sempre rivelativa, è spiegazione; il segno è fattivo, è intervento di Dio. La donna deve partorire l’umanità, è la creazione, segno in quanto intervento di Dio creaturale. Il dragone è la legge ed i profeti dati all’umanità per combattere la battaglia nel mondo, noi diremmo l’Antico Testamento. Dei tre segni quello dei sette angeli con sette flagelli è l’ultimo. I sette angeli sono la vicenda storica dell’Incarnazione, sono il segno definitivo: quando furono compiuti i tempi Dio, dopo aver parlato per mezzo dei profeti, parlò per bocca di suo Figlio.

Parallelamente ai tre segni ci sono i tre “Guai!” dell’aquila, cioè l’aspetto pericoloso dei tre segni: in corrispondenza alla dimensione creaturale dell’uomo, la non sintonia con il segno è l’orgoglio; rispetto alla legge, la non sintonia è l’idolatria, rispetto al Cristo, è la disobbedienza. Al segno, che è l’intervento di Dio, c’è dunque la possibilità di risposta che può sempre travisare.

Intervento: non capisco la disobbedienza.

Perché Cristo è l’obbediente, è Colui in cui la natura divina e la natura umana si con-formano. Traduzione: se io mi metto al posto di Dio, se decido che sono Dio a me stesso e dunque obbedisco ai miei istinti ed alle mie passioni, non mi con-formo al segno che in Cristo è venuto da Dio. “Obbediente fino alla morte e alla morte di croce”.

Poi ci sono il mare di cristallo e coloro che avevano vinto la bestia e la sua immagine, cioè la statua e il numero del suo nome che era l’orgoglio. E’ come dire il meglio possibile, i santi dell’Antico Testamento che hanno vinto la bestia e stanno davanti al mare di cristallo misto a sangue. L’anziano aveva solo il mare di cristallo, loro sono sporcati dalla storia, non sono una pura divinità e cantano il cantico di Mosè e dell’Agnello. Sono ritti in piedi sul mare, quindi come l’Agnello sgozzato e ritto, il segno della resurrezione, della vita piena, del martirio.

Questo, nella testa di un buon ebreo, faceva un immediato cortocircuito perché per un ebreo era chiaro l’Esodo, Mosè condottiero che fa sgozzare gli agnelli per segnalare le porte all’angelo sterminatore. Qui il cantico è di Mosè e dell’Agnello ed il cantico di vittoria diventa anche il suo.

C’è un midrash in cui si dice che l’angelo degli egiziani si infuria dicendo: “Gli ebrei cantano mentre gli egiziani sono morti”. Commentando questo il mio professore diceva: “Chissà se c’era un angelo degli agnelli. Avrebbe dovuto infuriarsi due volte perché almeno gli egiziani erano i cattivi, gli agnelli nemmeno cattivi, quindi sgozzati gratis, per dipingere le porte”

E’ vero che nella storia dell’Esodo ci sono vinti e vincitori ed è molto chiaro che Giovanni usa l’immagine dell’Agnello per Cristo perché Egli, con la sua morte, si consegna mite come un agnello, ma è anche l’agnello dell’Esodo, in quanto è il modo in cui possiamo salvarci. Come gli ebrei sono stati risparmiati mediante il sangue sulle porte segnate, così noi, segnati dal sangue di Cristo nuovo Agnello, attraverso un nuovo esodo siamo salvati.

Intervento: Quindi non è l’agnello sacrificato sull’altare.

Quale agnello? Quello viene da un mondo pagano. Leggendo di Isacco si sa che era caprone. Nei sacrifici che gli ebrei facevano o fanno usano sempre capri, da cui “capro espiatorio”. E’ quello di Yom Kippur cui noi, senza sapere, facciamo riferimento. Alla lana di un capro venivano legate delle striscioline con i peccati del popolo e poi era mandato nel deserto a perdersi come capro espiatorio.

L’agnello è tipico invece dell’Esodo ed è tutto il contrario del caprone brutto. E’ l’innocente, tenero. Giovanni applica l’immagine dell’agnello a Gesù, agnello del nuovo Esodo in cui Gesù non è né un egiziano né un ebreo, ma l’Agnello che viene mangiato nell’eucarestia.

Il segnare le porte con il sangue era un atto dell’Esodo storico mentre l’atto simbolico di ricordo era il mangiare l’agnello. Gli ebrei che escono in Esodo 15 non mangiano l’agnello, ma gli azzimi; il mangiare l’agnello diventa memoriale dell’agnello sgozzato per segnare le porte. E’esattamente il principio dell’eucarestia. Noi celebriamo l’eucarestia memoriale della morte e risurrezione di Cristo. E la rappresentazione classica dell’agnello pasquale è il Cristo dell’Apocalisse, l’Agnello ritto con lo stendardo della vittoria perché lì la stratificazione è l’Agnello ritto in piedi dell’Apocalisse che raccoglieva il simbolo dell’Esodo, a cui nel medioevo viene aggiunta l’immagine della vittoria mediante il palio.

Ma nel cantico dei salvati, che non è più soltanto il cantico di Mosè servo di Dio bensì anche dell’Agnello, cambia pure il contenuto. Nel primo: “Voglio cantare in onore del Signore; Egli ha mirabilmente trionfato e gettato in mare cavallo e cavaliere”, si diceva male degli egiziani e meraviglie di Dio. Ora si canta una prima parte uguale: “Grandi e mirabili sono le tue opere o Signore Dio onnipotente”, quindi una lode a Dio, poi immediatamente si passa a “giuste e veraci la tue vie, re delle genti”. Contrapposto a noi ed Egitto, diventa re di tutte le genti. Poi si dice: “Tutte le genti verranno a te e si prostreranno davanti a te perché i tuoi giusti giudizi si sono manifestati”.

Il cantico inizia come quello di Mosè, raccoglie tutte le genti ed arriva al tema del giudizio. Mentre là era una pura lode di gratitudine perché erano stati liberati, qui il passaggio è un po’ più complesso: Dio opera meraviglie per il suo popolo, ma le opera in quanto re di tutte le genti che andranno a Lui; quindi nessuno perde, perché giusti sono i suoi giudizi. Si introduce il tema che in Esodo non c’è perché, con la questione dell’elezione, il giudizio era a priori: il popolo eletto è eletto, gli altri no, quindi c’era poco da giudicare. Il popolo eletto può, come nel deserto, mormorare, costruire il vitello d’oro e far inquietare Dio, ma resta eletto. Qui invece tutte le genti sono intorno al re ed allora diventa decisivo prendere sul serio la storia in quanto c’è su questo un giudizio.

Poi c’è la questione che inquieta molto: “Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene la Tenda della Testimonianza; dal tempio uscirono i sette angeli che avevano i sette flagelli, vestiti di lino puro, splendente, e cinti al petto di cinture d’oro (…) con le coppe dell’ira di Dio”.

Giovanni tende a sottolineare una differenza tra i flagelli e le coppe: gli angeli hanno i sette flagelli, poi l’essere vivente dà loro le coppe, essi versano la coppa e succede il caos. I flagelli sono già nelle mani degli angeli fin dal loro primo apparire; le coppe verranno consegnate loro per mano di uno dei quattro esseri viventi nel momento in cui essi escono dal tempio che si apre.

Un autore come Giovanni ben difficilmente si abbandona al capriccio dell’improvvisazione. La ragione della distinzione tra flagelli e coppe si può forse trovare se riflettiamo sul contenuto di queste ultime. Esse sono colme della collera di Dio. La collera di Dio, analogamente a quella di Dio e dell’Agnello di cui si parla nel sesto sigillo, ed al grande tino della collera di Dio in cui sono gettate le uve vendemmiate del capitolo 14, è semplicemente un’espressione per indicare il suo giudizio: collera è sinonimo di giudizio e quello di Dio è anche condanna e distruzione dei suoi nemici. In questo senso il contenuto delle coppe versate coincide con i flagelli che gli angeli tengono già in mano. Potremmo intendere così: per il giudizio di Dio, in quanto condanna e distruzione dei malvagi, basta la legge di cui gli angeli sono i rappresentanti. Ma il giudizio di Dio, soprattutto agli occhi di Giovanni, ha anche un aspetto positivo, vale a dire il conferimento della salvezza ai giusti e ai servi di Dio per la quale non basta la legge. Ciò vale in particolare per il giudizio di Dio di cui si parla qui, cioè quello che avviene alla morte di Cristo. Il suo aspetto positivo consiste nella redenzione, nell’offerta della salvezza a tutti gli uomini, impresa che solo Cristo può compiere attraverso il sacrificio della propria vita, aspetto che Giovanni ha sottolineato prima con il simbolo dell’agnello e qui riassume nel simbolo delle coppe.

Spiegazione: gli angeli hanno in mano i flagelli che sono come il piccolo libro in mano all’angelo, cioè la legge la quale dice cosa è il male e cos’è il bene, ma se si è dalla parte del male, non dà alcun aiuto per spostarci dalla parte del bene. La legge distingue, condanna, dà giudizio. I flagelli sono l’immagine della legge, in mano agli angeli che per Giovanni rappresentano l’antica alleanza, dunque sono il contenuto delle coppe, il giudizio esercitato. Ma le coppe vengono ricevute dal tempio e sono il segno della morte di Cristo il cui obiettivo non è tanto quello di indicare cos’è il bene o il male, bensì dare la possibilità di fare il bene. E’utile, come per la salute o nella scuola, fare la diagnosi per individuare i problemi ma poi occorre trovare i rimedi. Allora la legge funziona da diagnosi, secondo Giovanni (e questo è un problema della legislazione moderna: le leggi degli stati per molto tempo, in società strutturate sul principio di autorità, funzionavano perché comportavano una sanzione che veniva percepita come certa e vergognosa. Ora, in un gruppo vagamente deviante di adolescenti, per i quali l’aver già fatto il giro dei carceri minorili è un vanto, la legge non solo non aiuta a rimettersi in sesto, ma aumenta la tendenza alla devianza perché per essere un duro bisogna aver tenuto un certo comportamento).

Secondo Giovanni il superamento della legge antica sta nel fatto che la legge è puramente descrittiva.

La coppa consiste invece nell’obbedienza del Figlio e quando si parla della coppa della collera di Dio si dice che è esattamente come nell’annuncio della festa di Natale: “Quando il tempo della pazienza di Dio fu colmato, Egli mandò suo Figlio”, cioè quando la coppa della collera di Dio è colmata, deve prendere una decisione radicale in quanto la legge non basta più, non dà niente.

Intervento: Il massimo della collera coincide con il massimo dell’amore?

Con il massimo della sua misericordia, perché in Dio giustizia e verità si baceranno, misericordia e grazia si incontreranno. Solo in Dio il massimo della collera non corrisponde al massimo dell’ira, ma il massimo della collera richiede il massimo dell’amore e dunque manda suo Figlio. Gli uomini hanno avuto la legge, i profeti, tutte le indicazioni, ma si sono ugualmente confusi e quindi non resta che il Figlio che è il compimento.

Non esperienzialmente, ma teologicamente è vero: la questione del peccato non è il centro del cristianesimo; la salvezza non è data dal fare o no i peccati, dall’osservare o no la legge. Paradossalmente i peccati, in fondo, sono irrilevanti rispetto al cristianesimo. Non è più quello il problema. La venuta del Figlio è definitiva perché sposta la questione in quanto non ha più il fuoco d’interesse sull’osservanza della legge, che comunque rimane inosservata, ma utile nel senso che è meglio non peccare piuttosto che peccare, andare d’accordo anziché picchiarsi, essere sinceri piuttosto che mentire. Resta comunque sempre meglio compiere il massimo possibile della legge, ma quanto a noi, non quanto alla salvezza perché se la gente non è malvagia, nè egoista, si vive un po’ meglio. Ma il problema è che, rispetto alla venuta del Figlio, tutto è già compiuto. Il male del mondo c’è ancora perché la legge continua a non essere adempiuta.

Normalmente nell’esperienza l’idealizzazione e la realtà non solo non coincidono ma sono all’opposto e questo si può riscontrare spesso in un rapporto di coppia o di amicizia, nel quale si registra un racconto di diversità perché in teoria si pensa a tutta una serie di caratteristiche e poi nella realtà, fortunatamente, entrano in gioco altri fattori che spostano su un altro problema la fiducia e l’affidarsi.

Intervento: Ma quella collera che fine ha fatto, è ancora arrabbiato?

La collera in Dio non corrisponde all’ira. Certamente Dio non smette di giudicare la storia, soprattutto nel giudicare nell’ultimo giorno, ma, come diceva Mario Picco: “Dio sempre guarda la storia giudicando, solo che, dopo Gesù Cristo, ogni volta in cui guarda la storia, vede il volto del Figlio crocifisso e dunque il suo giudizio è di salvezza e di risurrezione”.

Intervento: In questa visione che per l’Apocalisse è simbolica, noi abbiamo pensato la collera di Dio come vera e definitiva senza riuscire più a vederla in senso positivo. Abbiamo ancora in mente un Dio infuriato che ha mandato suo Figlio per farsi pagare i guai compiuti dagli uomini.

Il problema sollevato è reale. In questo senso non si può rialzare la posta. Gesù è la parola definitiva poiché, dalla sua morte obbediente in poi, tutte le volte che Dio guarda giudicando l’umanità è come se suo Figlio crocifisso fosse un paio di occhiali per cui, messi quegli occhiali, tutto quello che Dio vede è suo Figlio crocifisso e quindi è sempre un giudizio di resurrezione.

Intervento: Noi non siamo assolutamente cambiati ma è cambiato Lui?

No, noi siamo cambiati nella misura in cui siamo incorporati in Cristo.

Intervento: C’è la redimibilità dell’uomo. Anche nel tema della legge laica non è che finisce con il carcere ma esiste il carcere affinché il soggetto venga redento.

Il problema è un po’ diverso. La questione di Dio, quando si parla del giudizio finale, non finale degli ultimi tempi, ma del dato definitivo di tutta la storia, è diverso: è che tutto questo funziona a partire da quei centoquarantaquattromila incorporati in Cristo. Cioè quello che è il nostro cambiamento possibile non è diventare bravi osservando la legge, ma scegliere se essere incorporati in Cristo oppure no. Questo è il nostro cambiamento possibile, non è che noi non siamo cambiati. Noi da incorporati in Cristo possiamo anche, tutto sommato, sbagliare, fare confusioni, ma a quel punto Dio sana quello che non c’è: il giusto giudicato giustifica molti, cioè rende giusti coloro che giusti continuano a non essere dal punto di vista della legge. Se ci si mette dall’altra parte nella battaglia dell’Armaghedon, allora il criterio diventa quello della legge, o giusto o sbagliato a seconda di come sei stato.

Intervento: In Esodo l’essere salvato dipende dal fatto se sei ebreo e l’essere condannato se sei egiziano, perché è l’appartenenza a stabilire. Con Cristo non è l’appartenere ma il scegliere da parte nostra?

Sì, ma c’è un passaggio in più. Non è solo il fatto che non è più un’appartenenza etnica, un popolo, ma è proprio che se bene e male sono giudicati sulla qualità delle opere, come dice Paolo, noi saremo tutti trovati mancanti. Di fatto non c’è salvezza possibile. Quello che ci dice Giovanni, ed è un passaggio chiave, duro da digerire perché elemento di individuazione per cui non si può dire che tutto è uguale e va tutto bene, è un aspetto specifico del cristianesimo e si potrebbe definire un concorso riservato. O il concorso è uguale per tutti, nonostante l’esperienza acquisita, oppure si è già incorporati nel mondo scolastico ed allora conta il peso del fatto che si conosce già quel mondo. Questo esempio, forse non molto adatto, per dire che il problema non sta più sulla qualità oggettiva del comportamento rispetto ad un criterio astratto di bene o di male stabilito dalla legge, ma sull’incorporazione a Cristo perché se siamo incorporati a Lui ciò che il Padre vede in noi è suo Figlio crocifisso, dunque la sua parola di giudizio è la resurrezione.

Intervento: Sembra quasi che convenga di più.

Certamente conviene. L’incorporazione a Cristo è la questione qualificante; non è solo che noi ci autodefiniamo cristiani e siamo quindi nel concorso privilegiato con maggiore probabilità di entrare in ruolo. Ricordate che all’inizio delle sette lettere alle chiese mi ero fermata molto su quella della tiepidezza, la lettera a Laodicea. Adesso faccio un riassunto mio, sintetico, che con il testo in questo momento non c’entra, ovviamente basato sulla Scrittura, ma non di commento letterale a quanto dice Giovanni, solo per dare un’indicazione del percorso.

Incontrare Cristo vuol dire sostanzialmente due cose: prendere sul serio la vera umanità e la vera dignità di Cristo e propria, cioè prendere sul serio il percorso della propria interiorità, quindi la propria umanità, non narcisistica, ma nel senso dell’allenamento, del lavorio ad allargare la propria casa interiore più di ciò che uno sa, sente immediatamente, capisce di sé, e del proprio avere una vita in più rispetto a quello che pensa regolarmente di avere per diventare un umano un po’ più umano.

E prendere sul serio la propria divinità, cioè l’incorporazione battesimale, non giuridicamente del battesimo in senso stretto, ma dell’ordine battesimale che si manifesta nel sacramento ma anche, secondo lo Spirito di Dio, in altri modi: l’incorporazione dello Spirito di Dio che ci è dato per essere profeti e sacerdoti e re come Cristo, manifestando lo sguardo di Dio sul mondo.

Incorporazione a Cristo significa prendere sul serio queste due cose e già incomincia a convenire un po’meno nel senso che la legge è più sicurizzante in quanto dice cosa e come si deve fare: questo è giusto, questo è sbagliato, ci si comporta così o non così e ciascuno sa dove si mette; può trasgredire oppure obbedire, fare l’eroe o rifiutare tutto e sentirsi alternativo.

Prendere sul serio la propria umanità e la propria divinità e quella di Cristo è un percorso che richiede una sottigliezza d’animo. Questo è il primo filone di incorporazione a Cristo.

Il secondo è prendere sul serio il proprio tempo, unica caratteristica che attiene solo agli uomini e non a Dio. Noi pensiamo sempre a quello che ci manca rispetto a Dio: Dio è onnipotente, noi no; Dio è onnisciente noi no, e ci piacerebbe essere come Lui, potere tutto, sapere tutto, vedere tutto. Non prendiamo mai in considerazione ciò che abbiamo noi e Dio non ha. Noi abbiamo il tempo, Dio è eterno. L’unica cosa che noi abbiamo ed “Egli non ha”, nel senso che ce l’ha tutto, ma non come noi, e ci caratterizza di fronte a Lui, è il fatto che abbiamo un passato, un presente ed un futuro, abbiamo delle stagioni e non tutti i tempi sono uguali nella nostra vita. Allora il secondo filone di incorporazione a Cristo è prendere sul serio la storia, cioè il tempo.

Intervento: Ma anche il nostro stato creaturale!

Questo è conseguente ai due aspetti esaminati prima, cioè prendere sul serio l’umanità e la divinità e prendere sul serio il tempo significa, dal punto di vista teologico, consapevolezza e dignità della propria condizione di creatura, cioè abbandonare ogni delirio di onnipotenza adolescenziale, abbandonare i volontarismi moralistici e stare nella propria vita come una cosa seria, allegra ed anche l’unica che si ha.

Intervento: Il passaggio è proprio duro. Per gli ebrei era il popolo eletto, ora è per tutta la specie umana. Se si fa la trasposizione dal popolo eletto a tutta la specie umana vale sempre lo stesso problema perché tu sei dalla parte di chi è eletto e si chiama specie umana.

Quello che salta è il contenuto di questa legge. Per un popolo il principio è l’elezione; per tutte le genti non c’è più questo principio perché il principio è l’incorporazione a Cristo. E’ diverso e la Scrittura su questo è chiara. Può non piacere, ma sono due criteri diversi, non solo un problema di spazio.

Il cristianesimo non ha detto: invece di un popolo eletto ne facciamo cinque, trecento o più.

Intervento: Ciò presuppone il fatto che l’uomo abbia il predominio sul resto, cioè che sia qualcosa di più rispetto all’animale.

State mettendo dei problemi che in questo contesto non c’entrano e non si può trovare qui la risposta. E’ veramente un altro problema. Il rapporto tra l’uomo, l’umanità e le altre realtà della natura è una questione e non si chiama elezione. L’uomo non è eletto rispetto al creato; l’uomo è partner di Dio rispetto al creato. Non è un dato di elezione. Non è che tra Israele e tutte le genti esisteva il rapporto che c’è tra l’uomo ed il creato; no, sono proprio due problemi diversi.

Quello che succede nel passaggio tra ebraismo e cristianesimo è proprio il principio di elezione che non funziona più come criterio, cioè non c’è più un rapporto tra uno eletto e tanti non eletti oppure tanti eletti ed altri non eletti. Nel cristianesimo il problema non è di quantità ma di qualità diversa di rapporto: al principio di elezione si sostituisce il principio di incorporazione che funziona come un’altra epistemologia.

Intervento: Benissimo, ma l’incorporazione non necessariamente deve avvenire proclamando che si è incorporati in Cristo.

No, l’evangelo qui è chiaro: “Non chi dice Signore, Signore”. Però non è generico, ci sono dei criteri di realtà, non di nome.

Intervento: Quindi tutti coloro i quali nella propria umanità riescono ad elevarsi…..

No, no. Questo è il principio della legge che dice: “Se tu riesci ad elevarti usando i binari della legge….” E fa parte dell’antica alleanza. Il problema del cristianesimo non è l’elevarsi, è un altro. Il criterio su cui saremo salvati non è se abbiamo rispettato o meno la legge. L’incorporazione a Cristo è il Cristo “offerto” a tutti. Poi l’evangelo è molto chiaro: “Non chi dice Signore, Signore”. Non è un problema di formalità, ma non è che non siano dati criteri.

Alcuni criteri, un po’ sconcertanti, sono, ad esempio che sia i buoni che i cattivi in Matteo 25 dicono: “Quando, Signore, ti abbiamo visto affamato, assetato e ti abbiamo o no dato da mangiare e da bere ?”. Questo certo dice la carità, ma non solo: dice anche che nessuno aveva capito, cioè che uno dei criteri è il mistero, il fatto che saremo misurati, in questa incorporazione, su realtà che non avremo riconosciute, né i buoni né i cattivi, come religiose.

Intervento: Né i buoni né i cattivi, ma coloro i quali hanno fatto delle cose hanno pescato nella propria umanità, non in altro.

Questo il vangelo non lo dice. Se ragioniamo sul dato rivelato non troviamo ciò nel vangelo. Che poi l’abbiano pescata nella loro umanità, nei loro difetti, nel fatto che non sapevano come altro cavarsela, nella buona educazione ricevuta, in un’idea della legge, non ha importanza: l’hanno pescata dove l’hanno pescata. E non è un caso che questo vangelo non lo dica perché non è rilevante per la salvezza; non è che sia importante perché uno è incorporato a Cristo, per quali motivi, con quali ragionamenti. Questo non conta perché altrimenti sarebbe scritto nella Scrittura.

Intervento: Sarà ben rilevante aver dato da mangiare….

La realtà sì è rilevante, il perché no, non si dice.

Intervento: Secondo me l’aspetto sconcertante di tutta la questione, mi pare di capire dalle cose che emergono, é che non è così importante quanto noi decidiamo e questo crea problema perché ci si sente spiazzati. Sarebbe naturale pensare : “Io mi guadagno il paradiso, ma come?. Diventando una persona per bene, altruista, imparando delle cose “. Nel momento in cui tutte queste azioni c’entrano quasi nulla, oltre a sentirci spiazzati, ci si indispone per il fatto di non sapere cosa metterci di proprio.

C’è un piccolo libro di Karen Blixen intitolato “Capricci del destino” dentro cui si trova il testo letterario di “Il pranzo di Babette” da cui è tratto il film. Lì c’è il discorso del generale quando, facendo il riassunto della propria vita con tutti i tormenti delle sue scelte, dice che uno pensa di dover decidere ed ha pure l’angoscia di dover decidere giusto, poi ad un certo punto gli occhi gli si aprono e scopre che ciò che ha scelto gli è stato dato e ciò che ha rifiutato gli è stato concesso, cioè ha avuto tutto. Ed egli conclude che non sai se arrabbiarti o essere lieto e capisci che verità e giustizia si baceranno; misericordia e verità si incontreranno. E’ il regno messianico. L’ossessione del decidere è compensata dal sovrappiù che viene dato. Il racconto è bellissimo; la pagina del generale assolutamente magistrale.


Estratti da”Il pranzo di Babette”

SALUTO DEL GIOVANE UFFICIALE A MARTINE

(baciamano) “Me ne vado per sempre e non vi rivedrò … Mai più. Qui ho imparato che il destino é duro, é crudele, e che in questo mondo ci sono cose impossibili”.

LA SCELTA DEL GIOVANE UFFICIALE (in dialogo con un ufficiale amico)

“Laurence, come può un luogotenente degli Ussari essersi lasciato sconfiggere ed umiliare …

“… da una setta di melanconici devoti che non hanno neppure il sale nella zucca … (sospiro) Non posso dimenticare il volto di quella dolce fanciulla. “

“Tu sei un sognatore, Laurence!”

“Non voglio essere un sognatore! Voglio essere come te! Mi sono imposto di dimenticare ciò che é accaduto sulla costa occidentale. Da ora in poi guarderò avanti non indietro. Mi concentrerò sulla mia carriera e un giorno sarò una figura brillante in un mondo brillante!”

IL GENERALE ALLA RESA DEI CONTI

(guardandosi allo specchio) “Vanità … vanità … tutto é vanità. (ora rivolgendosi alla sedia su cui é seduto lui stesso da giovane) “Ho esaudito i tuoi desideri e soddisfatto la tua ambizione. A chi ha portato giovamento tutto questo? Alla vanità! ‘Stanotte, noi due dobbiamo chiudere i conti. Dovrai dimostrarmi che all’epoca feci una scelta giusta.”

COMMENTO DEL GENERALE SUL CAFE’ ANGLAIS

“Quando ero a Parigi, una volta, vinsi una corsa di cavalli, e dopo fui festeggiato dagli ufficiali della cavalleria francese con un pranzo in uno dei più raffinati ristoranti della città, il Cafè Anglais. Lo chef, cosa piuttosto sorprendente, era una donna. Mangiammo Quaille en Sarcofage, un piatto che aveva creato lei stessa. Il Generale Galiffè, nostro ospite, quella sera spiegò che quella donna, quell’insolito chef, era capace di trasformare un pranzo in una specie di avventura amorosa, nobile e romantica, in cui non si é più capaci di distinguere tra l’appetito del corpo e quello dell’anima. Il Generale Galiffè mi disse che in passato egli si era battuto in duello per amore di una donna bionda ma che ora non c’era più una donna a Parigi per la quale avrebbe versato volentieri il suo sangue, a parte questo straordinario chef: era considerato il più grande genio culinario dell’epoca.

… Uhm! Ma questo piatto non é da meno delle Quaille en Sarcofage… Sì, ma questo é veramente Quaille en Sarcofage!!”

DISCORSO DEL GENERALE

“Misericordia e verità si sono incontrate, amici miei! Rettitudine e felicità debbono baciarsi!

Nella nostra umana debolezza e miopia crediamo di dover scegliere la nostra strada e tremiamo per il rischio che quindi corriamo. Abbiamo … paura!

Ma no, la nostra scelta non é importante.

viene il giorno in cui apriamo i nostri occhi e vediamo e capiamo che la grazia di Dio é infinita: dobbiamo solo attenderla con fiducia ed accoglierla con riconoscenza.

Dio non pone condizioni. Non preferisce uno di noi piuttosto che un altro.

Ciò che abbiamo scelto ci viene dato e, allo stesso tempo, ciò che abbiamo rifiutato ci viene accordato.

Perché misericordia e verità si sono incontrate, rettitudine e felicità si sono baciate.”

SALUTO DEL GENERALE A MARTINE

” Ho trascorso con voi ogni giorno della mia vita. Ditemi che lo sapete …”

“Sì, lo so …”

“… Ditemi che sapete anche che sarò ancora con voi ogni giorno che mi é dato da vivere; siederò a pranzare con voi non con il mio corpo, che non ha importanza, ma con il mio spirito, perché ‘sta sera ho imparato, mia cara, che in questo nostro splendido mondo tutto é possibile” (baciamano)

DIALOGO DI BABETTE CON PHILIPPA E MARTINE

” Babette, é stato davvero un ottimo pranzo, davvero ottimo: hanno pensato tutti la stessa cosa! “

” Una volta sono stata chef al Cafè Englais…”

“Ci ricorderemo tutti di questa serata, quando sarete tornata a Parigi.”

” Io non tornerò a Parigi!”

” Non tornerete a Parigi?”

” Non ho niente che mi ci faccia tornare, li ho persi tutti e non ho più denaro.”

” Niente denaro ??! E i 10.000 franchi?”

” Li ho spesi!”

” 10.000 franchi !!?!”

” Una cena per 12 al Cafè Englais costerebbe 10.000 franchi!”

” Cara Babette, non dovevate dare via tutti i vostri averi per amore nostro … “

” No, non era solo per amore vostro …”

” Così sarete povera per il resto dei giorni vostri …”

” Un’artista non é mai povero.”

” Era questo tipo di cena che faceste per gli ospiti del Cafè Englais?”

(annuisce) ” Potevo renderli felici, quando davo tutto il meglio di me. Papin lo sapeva! “

” Achille Papin? “

” Sì! Lui disse : “Per tutto il mondo risuona un unico grido che esce dal cuore dell’artista.” Consentitemi di dare tutto il meglio di me! “

” Ma questa non é la fine, Babette, sono certa che questa non é la fine: in paradiso voi sarete l’artista che Dio intendeva foste … oh …! Come incanterete gli angeli ! “