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L’Apocalisse (III)

Gruppo del venerdì
Dicembre 1998

Dopo l’introduzione e la riflessione sul Prologo, sull’indirizzo e sulla visione preparatoria, inizia la parte conosciuta come “i quattro settenari dell’Apocalisse”, cioè tutto il testo, diviso in quattro parti, in ognuna delle quali succedono sette cose. Il primo settenario, i capitoli 2 e 3, contiene sette lettere alle sette chiese.

Poi seguono il settenario dei sigilli, altra immagine abbastanza conosciuta, con un discorso per ogni sigillo; il settenario delle sette trombe; il settenario delle sette coppe del sacrificio che vengono bevute.

Come già si diceva nei precedenti incontri, è abbastanza difficile pensare che tutto questo sia casuale, cioè che non ci sia un’organizzazione del testo. In alcuni casi il settenario è un po’ forzato. Ad esempio il discorso si chiude al sesto racconto e poi ne compare un settimo, ripetitivo, per far tornare il conto. Quindi è sicuramente intenzionale.

Ovviamente ci sono svariate interpretazioni di ogni genere e grado, perché l”Apocalisse funziona come un film: non vi è un’interpretazione unica. Forse ci sono uno o più significati pensati dall’autore, ma un conto è ricostruire l’intenzione dell’autore, un conto è vedere come funziona il libro che vive, in un certo senso, di vita propria. Tanto più se riteniamo sia parola di Dio: c’è lo Spirito che vivifica il testo. Quindi, al di là dell’intenzione dell’autore, questo testo parla a noi anche oggi.

L’unico criterio di interpretazione da rifiutare è, per la Scrittura, quello fondamentalista, cioè il far corrispondere a dei calcoli precisi, di giorni, di mesi, di anni, di avvenimenti specifici. Per il resto, il discorso dei numeri, dello schema, è bene conoscerlo e farsene un po’ provocare per vedere se, man mano che si entra nel clima e nel ritmo del racconto, si provano delle emozioni, non necessariamente spiegabili con la razionalità.

L’Apocalisse parla veramente alla parte dell’immaginario, che noi non siamo molto abituati a percorrere all’interno del mondo religioso, del mondo cristiano, e quindi è la parte per noi un po’ difficoltosa. Un punto di partenza è sicuramente attenersi al significato più comune, più semplice, in fondo, di questi simboli e non pensare a chissà quali strane cose.

Sicuramente sette e quattro sono due “numeri di totalità”, se pur in modo diverso.

Per tutta la tradizione antica, ebraica, sette è un numero di totalità che riguarda l’opera di Dio rispetto al creato: i sette giorni della creazione.

Sette e tutti i suoi moltiplicatori funzionano come segno dell’universalità, non materiale, di un inventario, ma un’universalità legata all’azione che Dio compie rispetto alla storia, perché il punto di partenza è dato dai sette giorni della creazione. E tutte le volte che si cita sette si cita l’opera compiuta di Dio, fino al riposo.

Quattro, in molte culture antiche, anche pagane, rappresenta l’opera dell’uomo rispetto alla totalità del mondo, della storia, fino agli alchimisti del cinquecento per i quali quattro sono gli elementi del tutto: aria, acqua, fuoco, terra.

E’ proprio l’opera di trasformazione, l’assunzione di responsabilità. Qui sono quattro settenari, non sette quaternari, come se il dominante fosse l’opera interpretativa dell’uomo ed ogni volta l’opera dell’uomo si applica alla totalità dell’opera di Dio. Come se per quattro volte si venisse invitati ad applicare la totalità di se stessi a tutto ciò che l’uomo ha di trasformabile (acqua, aria, terra, fuoco).

Quella di applicare la totalità di sé a meditare l’opera di Dio nella storia, è una cosa che vale per tutti i libri della Scrittura, non solo per l’Apocalisse, ed è, tutto sommato, un’opera normale per il credente.

Questa sera vorrei fermarmi sul settenario delle lettere. E’ abbastanza lungo e non ha senso spezzarlo. Sono due capitoli interi, il 2 e il 3, che consiglio di leggere per intero.

Leggiamo la prima lettera.

” All’Angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro: conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono- e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto. Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio”.

Da un certo punto di vista è una lettera simile a quelle di Paolo; da un altro è stranissima perché non si capisce bene che cosa vogliano dire le immagini.

Le sette lettere hanno tutte, più o meno, lo stesso tono.

Si può fare un’analisi minuziosa, molto realista, di ogni frase: cosa sono le sette stelle, i sette candelabri; oppure cosa è successo ad Efeso, chi è stato messo alla prova. Si può considerarle lettere vere o, comunque, se non necessariamente inviate a queste chiese come le lettere di Paolo, idealmente rivolte alle comunità di Efeso, Pergamo, ecc. Pertanto si può ritenere che si riferiscano ad eventi realmente successi. Questo tipo di lettura non porta a gran che. E’ uno spreco di energie.

Approfondendo il materiale a disposizione si arriva a vedere che ci sono sempre almeno due conclusioni e sempre un’incertezza sostanziale sull’interpretazione delle singole cose.

Oppure si può provare a dare uno sguardo globale per trovare una chiave di lettura.

Le lettere sono tutte strutturate allo stesso modo, con un’introduzione, l’indirizzo, che dice sempre: All’angelo della chiesa di…… scrivi: così parla….E c’è la definizione di chi parla, che è sempre il Cristo. Poi c’è il mittente:

  • Efeso: così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro…

  • Smirne: così parla il Primo e l’Ultimo che era morto ed è tornato alla vita…..

  • Pergamo: così parla Colui che ha la spada affilata a due tagli………

  • Tiàtira: così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco…

  • Sardi: così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle………

  • Filadelfia: così parla il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di Davide…

  • Laodicèa: così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio….

Vengono espressi sette modi in cui viene chiamato Cristo, che è sempre il mittente.

Segue un corpo della lettera, che varia da due, tre, a dieci versetti in cui c’è sempre: conosco le tue opere, con vari elogi e rimproveri. Una specie di indicazione pastorale abbastanza simbolica.

Infine compare una conclusione con un invito ad ascoltare lo Spirito: chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese, seguita da una promessa per il vincitore.

Le immagini sono ricorrenti, sempre un po’ diverse e suscitano emozioni con interpretazioni differenti, come i films di Kieslowski.

Di tutte le sette chiese abbiamo notizie storiche soltanto su Efeso e Smirne, due grandi comunità cristiane, due città di una certa portata al tempo di Giovanni. Sulle altre cinque ci sono notizie vaghe e addirittura dubbi sulla loro esistenza, oppure notizie che queste città erano fiorenti molti anni prima di Giovanni.

La prima questione è perché l’autore sceglie queste sette chiese.

I motivi possono essere molti. Sono sette e quindi è molto chiaro che il tema è l’universalità.

La spiegazione che a me pare più convincente è che sono le comunità conosciute di persona da Giovanni.

Dopo il titolo, per Efeso, il corpo della lettera è sostanzialmente un elogio per la costanza e la resistenza alla fatica. E’ una che tiene duro. Però le viene rimproverato di aver dimenticato l’amore di prima e di essere caduta. Al vincitore è promesso l’albero della vita che è nel paradiso di Dio.

Tutto questo, detto fuori dai simboli, a chi conosce un po’ la Scrittura, fa venire in mente Genesi 3, il paradiso terrestre e il peccato originale.

Per Smirne, il corpo della lettera dice che la comunità è in una condizione di persecuzione: “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricca – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana”.

Compaiono una persecuzione ed una tentazione: “Non temere ciò che stai per soffrire; ecco il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni (….) Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte”.

Qui l’orecchio ebraico coglie subito il significato dei dieci giorni e della tribolazione alla sinagoga di satana: è l’Egitto con le dieci piaghe (gli ebrei ricchi ma anche schiavi). La seconda morte è la quarta delle piaghe, la morte dei primogeniti. Il vincitore è salvato come gli ebrei nell’esodo.

Intervento: perché la sinagoga?

Perché la polemica antigiudaica è molto forte: Giovanni scrive ad una comunità che si sta separando dall’ebraismo.

Le comunità hanno due problemi: l’impatto con il mondo pagano e la separazione definitiva dall’ebraismo. L’Apocalisse li ha ben davanti. Così Giovanni motiva i due distacchi: è come un tradimento il permanere dell’ebraismo nella legge ebraica (il vero ebraismo è passato sui cristiani e chi rimane tradisce) e fa un certo discorso su Babilonia la grande, cioè sul mondo pagano.

Se il primo è Genesi e la vittoria è ritornare al frutto o all’albero della vita, il titolo di Cristo è Colui che tiene nella mano destra le sette stelle. Non è molto chiaro se non il riferimento ai sette giorni della creazione ed a Colui che ne ha il potere.

In Smirne il tema è l’Esodo. Il titolo di Cristo è “il Primo e l’Ultimo che era morto ed è tornato alla vita”. Qui il tema del passaggio, della Pasqua nuovo Esodo, è molto più chiaro.

Per Pergamo “dove satana ha il suo trono, ma essa non ha rinnegato la mia fede…..” E cita Balaàm e Balak, i due profeti legati al deserto. “Al vincitore sarà data la manna nascosta e….. la pietra bianca sulla quale sarà scritto un nome nuovo”.

Sono i due nomi del deserto. La pietra veniva cucita nell’abito dei discendenti di Levi, dei sacerdoti, nel tempo del deserto, per riconoscerli. Siccome non si potevano tenere registri e non si sapeva chi fossero i discendenti della tribù sacerdotale, veniva cucita, dentro la veste, una pietra bianca con il loro nome.

Il titolo di Cristo qui è “Colui che ha la spada a due tagli affilata”, la stessa immagine di Paolo per la Parola di Dio. E’ proprio in relazione stretta a questo tempo del deserto dove l’unico referente è la Parola di Dio. Non esiste tempio, rito, sacerdote, regno. Non sono più schiavi ma non c’è ancora popolo e c’è la Parola di Dio che, a Mosè, parla come spada affilata che organizza la vita.

Nella lettera a Tiàtira si dice che la comunità ha molte opere e fede ma c’è un rischio: un falso profeta che viene minacciato, ma la comunità è salda. Il falso profeta si chiama Iezabèle, come la regina che portò alla rovina il regno d’Israele.

E’ l’identificazione della storia della salvezza nel tempo del regno. Al vincitore è promesso il dominio sulle nazioni e la stella del mattino. Il tema è quello regale, dello stabilirsi del popolo e del regno. Il titolo di Cristo è il Figlio di Dio, Colui che ha i suoi occhi come fiamma di fuoco e i suoi piedi simili a bronzo. La stabilità e la lungimiranza; governo e durata del regno.

Il corpo della lettera di Sardi è: “la comunità vive solo di nomi, è morta”. C’è un resto che è sul punto di morire, bisogna rafforzarlo.

E’ il tema dell’esilio, di Babilonia. La promessa è che il vincitore riceverà come possesso stabile le vesti bianche ed il suo nome non sarà cancellato dal nome della vita.

Una delle interpretazioni è il riferimento alla liturgia, alla memoria del tempio nel tempo dell’esilio. Il titolo di Cristo è Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle. E’ di nuovo un Dio creatore perché sono fuori dalla terra d’Israele e, apparentemente, fuori dal patto. Il riferimento è lo Spirito, la Sapienza che accompagna Israele anche al di là del tempio. E le stelle, il cosmo, quello che rimane agli uomini.

In Filadelfia c’è l’accenno solenne alla porta aperta da Cristo dinanzi alla comunità e che nessuno potrà chiudere. C’è tutto un discorso di costrizioni ed è la ricostruzione del tempio. Il vincitore sarà posto come colonna inamovibile nel tempio di Dio, la stabilità ritrovata dopo l’esilio. I titoli di Cristo sono il Santo, il Verace, Colui che possiede la chiave di Davide.

Infine c’è Laodicèa in cui si dice: “Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace ( ….) tu non sei né freddo, né caldo…poiché sei tiepido, sto per vomitarti ….Tu dici “sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice e miserabile….”.

Qui non c’è premio né promessa per il vincitore.

Questa è una lettera strana: ha un tono durissimo, non ha un riferimento chiaro all’Antico Testamento, evidente nelle altre lettere che richiamano un tratto della storia d’Israele.

Moltissime sono state le interpretazioni sul perché non c’è il premio dopo lo Spirito, ma si dice invece che il vincitore sarà fatto sedere sul trono.

Questa immagine fa venire in mente la fine dei tempi, con Gesù che viene a giudicare i vivi ed i morti. L’interpretazione classica è: nelle sei lettere, Giovanni presenta la storia della Salvezza e poi avviene la fine del mondo. Scrive fin dove ha vissuto e poi non ha più riferimento con l’Antico Testamento e mette la chiusura definitiva di tutto.

Il problema è che Giovanni non scrive fin dove è vissuto, perché fino alla lettera precedente arriviamo al ritorno dall’esilio, dunque al 300 a.C. Dopo, nella storia della salvezza, erano successe altre cose, se non altro la venuta terrena del Cristo. Allora si è detto: “Laodicèa rappresenta la venuta terrena del Cristo”. Lì c’è uno scarto, un salto.

Ciò che tutti praticamente ora escludono è che riguardi la fine del mondo.

L’interpretazione più istintiva sembra la meno probabile perché, a ben guardare, in tutta l’Apocalisse non si parla mai della fine del mondo. Questa è un’interpretazione medioevale, millenarista, e poiché non è detta esplicitamente, attribuirla a questo pezzo diventa un po’ strano. E’ una forzatura parlarne proprio qui quando non è nemmeno chiaro che se ne parli nel testo.

L’Apocalisse è tutta in questa chiave: rivelazione di Gesù Cristo che, nel corso della storia, rivela se stesso. Quindi la chiave di lettura è, probabilmente, la progressiva rivelazione di Cristo.

Un’interpretazione abbastanza diffusa dice che questa lettera si riferirebbe al venir meno della fede, al fatto che nella storia di Israele la fede prepara Cristo, c’è questa crescita di comprensione della fede e, dopo Cristo, avviene quella che noi chiameremmo la progressiva secolarizzazione.

Storicamente non è nemmeno tanto vero, ma comunque abbastanza discutibile.

L’altra interpretazione, che sembra più convincente, è che Giovanni avesse in mente proprio il problema della separazione dalla sinagoga. I tiepidi, coloro che si dicono ricchi e non sanno di essere infelici e ciechi, sarebbero i giudei che, ritornati dall’esilio, si pensano, secondo Giovanni, soddisfatti, sistemati e non hanno capito che devono comprare oro purificato dal fuoco da Cristo, cioè devono trovare la ricchezza dal Messia. Il ” non sono né caldi né freddi” si riferirebbe al legalismo ebraico.

E’ possibile che Giovanni avesse in mente questo.

Il tempo che egli si trova a vivere non è di un ecumenismo rilassato come quello che viviamo noi, ma è un tempo caratterizzato da forti polemiche nei confronti della sinagoga e del giudaismo. Sicuramente c’è il segno della fine della Gerusalemme terrestre, della fine di questa organizzazione della storia della Salvezza, della comprensione di Genesi ed Esodo.

Questo è un dato praticamente certo. Da lì in poi non si sa.

Comunque, questa lettera a Laodicèa resta la questione attuale, la sempre attuale in ogni tempo: quando abbiamo applicato tutta la nostra capacità umana a rileggere la storia della Salvezza, sia personale che del popolo, Genesi, Esodo…, veniamo posti di fronte all’attualità personale e collettiva. E l’attualità è il grande rischio di tiepidezza, di fare della religione una cosa molto innocua che, in fondo, non dà fastidio a nessuno. E questa cosa viene stigmatizzata molto duramente.

E’ questa una lettura molto convincente, perennemente attuale. Una volta che la storia della Salvezza ha condotto fino a Cristo ed Egli si è manifestato, il grande rischio è fare di Cristo il bambinello del presepio.

Intervento: si può accostare alla predicazione del Battista nel deserto: “Voi vi proclamate figli di Abramo ma Dio può suscitare figli d’Abramo dalle pietre”?

Sicuramente sì, ma nel testo di Giovanni Battista è molto più chiara la polemica antifarisaica prima e poi l’aspetto preparatorio a Cristo. Quando dice: “La scure è già stata posta alla radice dell’albero”, almeno per noi, oggi leggendola, è molto chiaro che l’interpretazione scritturistica non va nella direzione della fine del mondo ma che sta arrivando la pienezza dei tempi, con Gesù.

Qui si ragionerebbe su ciò che accade dopo la venuta del Messia e non si parlerebbe di una fine vicina.

Ognuno di noi può farsi guidare dalle proprie immagini. La mia sensazione, leggendo questo testo, con gli elementi culturali di cui dicevo innanzi, è che appare molto visibile la seguente questione: se ciascuno di noi, nella propria vita personale, ripercorre la storia della propria fede o non fede, cioè del proprio rapporto alla questione del cristianesimo, o se ripercorre la storia della Salvezza del popolo nella sua totalità, si accorge che i vari episodi e avvenimenti, possono essere catalogati come positivi o negativi. Sono cioè momenti di fedeltà o infedeltà, di errore o di coerenza, di cose che uno non rifarebbe o rifarebbe, cose che gli hanno dato grande gioia o dolore.

Il momento vissuto, cioè l’attualità, è invece sempre complesso, con vari elementi fra loro mescolati ed è difficile farne una lettura di ordine storico. Si riesce a dire dei propri tempi di esodo solo quando sono passati da anni.

Nell’attualità il grande rischio è l’abbassamento di tono, né caldo né freddo. Ogni volta che siamo dentro a qualcosa il rischio è di curvarsi per non farsi troppo male e rimanere lì. Questo atteggiamento è aspramente rimproverato, come se fosse l’unica cosa non accettabile, che non consente a Cristo di manifestarsi.

“Ti consiglio di comprare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la tua vergognosa nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista”.

Tutte cose da comprare da Cristo. Già questa terminologia meriterebbe una riflessione. E’ monetaria in senso forte, stretto. Qual è la moneta con la quale si paga nei confronti di Cristo?. E si comprano oro, vesti e unguento per occhi.

Si dice che Laodicèa, nell’antichità, fosse un famoso centro oftalmico e Giovanni la sceglie anche per questo. Ma al di là di questo c’è una perennità.

Allora che cosa sono questi tre elementi, perché per sfuggire alla tiepidezza dell’attualità bisogna muoversi su questi tre livelli?

Un bene in sé (oro), prezioso, un bene esterno a noi, una cosa (vesti), una copertura per la nostra identità, e collirio per gli occhi. Non c’è una sola interpretazione e nemmeno possiamo arrivare a pensare cosa diceva Giovanni.

Dal mio punto di vista l’indicazione è che, se il cristianesimo fosse come lo pensiamo noi, qui ci sarebbe solo l’unguento per gli occhi. Noi pensiamo sempre il cristianesimo come uno sguardo, un’intenzione, un modo di vedere le cose. Invece qui due su tre sono dati oggettivi, non soggettivi, non di intenzione ma di realtà.

Uno totalmente esterno: l’oro; l’altro di relazione tra noi e il mondo: il vestito; il terzo, nostro.

E’ come se noi avessimo spostato tutta la centralità del cristianesimo in cui la cosa da comprare da Cristo è lo sguardo, un’intenzione del cuore. Forse per questo poi diventa difficile superare la tiepidezza, perché il collirio è solo una delle tre cose consigliate per essere qualcosa di diverso da tiepido.

Ciò che volevo dire, non è tanto questa mia interpretazione, ma come questo testo perda tutta la sua aria misteriosa e possa diventare molto reale, concreto, dicendo cose a noi comprensibili.

Intervento: mi incuriosisce capire cosa vuol dire comprare?

O la parola di Dio è come un esame all’università, con il manuale da studiare, che a noi non è ancora stato dato, oppure è l’incontro con una Persona.

Quando si incontra una persona e la si conosce, non è che più cresce la conoscenza, più si sa di lei in modo matematico, perché ci sono fasi di andata e di ritorno nel rapporto con l’altro e un cambiamento di comportamento può creare dubbi e ripensamenti.

Cosa vuol dire comprare? Questa è una grossa questione legata al rapporto che si ha con la Scrittura. Come si fa a comprare delle cose da Cristo?

Un buon devoto dell’800 avrebbe detto “con i sacrifici”. Risposta molto chiara, non problematica. Un buon giansenista del IV secolo avrebbe detto che l’unico modo è l’implorazione, perché tutto viene per grazia.

Che cosa può dire una persona della fine di questo secondo millennio?

Non lo so. Non c’è un modello unitario nella chiesa di oggi. Quello meno teorizzato, ma più comune numericamente, per me non convincente, è che Dio si compera con la giustizia ed il volontariato sociale. Pare che, per essere cristiani, l’unica cosa è occuparsi di pace, giustizia, ecologia del creato. Sono certamente cose degnissime.

E’cosa buona che si celebrino i cinquant’anni della dichiarazione dei diritti dell’uomo e, se fossero più applicati, sarebbe anche meglio. Ma questo qualifica una civiltà un po’ meno bestiale, non il cristianesimo.

Però è vero che, se si chiede a dei giovani cosa significa concretamente essere cristiani, la prima risposta è volontariato, giustizia. Forse perché, culturalmente, in questo tempo, della chiesa è l’unica cosa che siamo riusciti a produrre per capire questo comprare. E molti di noi, oltre i trent’anni, oscillano regolarmente tra sensi di colpa ottocenteschi, per cui Dio si compra con le opere buone e questo senso di carità e di giustizia.

Questa sarebbe, tra di noi, una buona domanda da farsi insieme. E da qui in poi incomincia il lavoro collettivo, ecclesiale.

La questione su cui vorrei spendere alcune parole è che, superato l’impatto con le immagini e le parole strane, questa vicenda delle lettere comincia ad avere una realtà non da poco, cioè meno mistero ed un percorso più simile ad altri libri della Scrittura.

Personalmente sono colpita dall’indicazione di come solo il passato sia una storia della Salvezza e l’attualità sia sempre invece una tentazione di tiepidezza, di mancanza d’interpretazione. E questa è forse la miopia umana, il non essere, come Dio, da un punto di vista distante, che vede tutto come una storia.

Noi vediamo storia solo ciò che ci è distante e possiamo più o meno faticosamente comprendere, valutare, vederne la direzione, lo sviluppo. Tutte le volte che siamo in un oggi, questo rischia di sembrarci un luogo dove l’unica cosa da fare è incassare le spalle cercando di arrivare vivi fino alla sera. La grande tentazione è la tiepidezza.

Intervento: la tiepidezza non può essere il fermarsi perché si è raggiunta una sicurezza?

Sicuramente è il fermarsi rispetto anche alla questione del giudaismo il cui schema si ripete sempre. E’ anche lo schema nostro, di chi ritiene di aver raggiunto la correttezza, ma questo è solo un aspetto perché poi c’è anche la tiepidezza fatta di difesa, di non prendere posizione, di passare in mezzo alle cose.

Su questo, mi aggancio per l’altro versetto dell’Apocalisse che dice:

“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono”.

L’immagine di uscita da questa tiepidezza è quella dell’accoglienza di un ospite, che è il Cristo, come dice la lettera agli Ebrei: “Praticate l’ospitalità. Alcuni di voi, senza saperlo, praticandola, hanno accolto degli angeli”.

Il che non vuol dire solo una lettura sociale, che peraltro non viene negata, ma l’altra lettura è anche che Cristo è l’ospite. Arriva quando gli pare, invitato o non, certo con educazione perché bussa, ma scombinando le abitudini e l’equilibrio della casa.

La Salvezza viene come qualcosa che giunge fuori dalle regole, da altrove e, come dicono i rabbini, ci prende sempre alla sprovvista facendoci trovare ad un ricevimento non ancora tutti vestiti.

Noi pensiamo che Dio ci invita al banchetto escatologico, nel cielo, e la cena la mette Lui. In questo versetto è esattamente il contrario. Egli sta fuori e bussa. Se qualcuno gli apre, Lui si invita a cena.

La dinamica non è la stessa: non è solo l’immagine del banchetto celeste preparato per i giusti.

E’ un’immagine di attualità. E’ la nostra casa a cui Cristo bussa ed è la nostra cena. Poi dice che farà sedere il vincitore sul Suo trono e quindi sarà Lui ad invitare e ad offrire.

Questo testo di Laodicèa, è, da un lato, quello che più rimprovera; dall’altro quello che morde sull’attualità, ponendoci di fronte a qualcosa che ci riguarda.

In esso c’è un passaggio che dice che dietro c’è una storia. Ognuno ha il suo Egitto, il suo esilio, il suo regno, i suoi profeti. Poi ognuno ha il suo oggi, senza nomi proprii e riferimenti precisi perché è sempre un oggi dopo l’altro.

Intervento: sulle cose che può fare l’uomo mi pare che si potrebbe partire dalla veste, che ti dà l’identità, e lì scegli tu: sei tu che crei il tuo destino. Allora diventi te stesso, riesci a vedere, con il collirio negli occhi, l’ospite, ma solo se ti impegni. Questa è una condizione previa. Dopodiché l’ospite può venire o no, Cristo può bussare o no, però a te compete sicuramente di diventare te stesso.

Questa, rispetto al testo, mi pare un’interpretazione un po’ tirata. Sono d’accordo sulla sostanza. Nel testo le tre cose sono contemporanee e si comprano tutte da Cristo: l’oro, la veste, il collirio.

Intervento: la gratuità della grazia, come tale, non dipende dall’uomo. Uno può credere o non credere e non ha meriti sia nell’uno che nell’altro caso.

No, perché la fede non è solo grazia, è anche virtù. Nel cristianesimo questa cosa è sempre duplice.

Intervento: Ma l’aspetto che compete a ciascuno di noi, è quello di essere se stessi. E per essere se stessi occorre accogliere l’ospite. E’ tutta la socialità ad essere fondamentale.

Sono assolutamente d’accordo sul contenuto del discorso ma ribadisco che, rispetto al testo, è tirato. Quello che tu dici è prima del testo.

Non ci si mette a leggere l’Apocalisse se non si sta cercando di diventare sé, di saperne di più, di capire meglio la storia, le cose che accadono, il luogo che si occupa. Questo è il motivo per cui uno si prende la briga di confrontarsi con la parola di Dio.

Sul credere o no, sono anni che ne discutiamo. Personalmente penso che questa sia un po’ una questione di lana caprina nel senso che uno non sa mai se crede o non crede.

La tradizione cristiana, molto sapientemente, insegna che la fede è tanto grazia quanto virtù. E’ tanto gratis, quanto frutto di un impegno. L’unica cosa di cui non parla mai è quella di cui noi parliamo sempre, cioè di scelta.

La tradizione cristiana di duemila anni non definisce mai la fede una scelta; ne parla sempre come di virtù o come di grazia. Cioè dice: da una parte tu devi mettere del tuo, dall’altra c’è una componente alla quale da solo non arrivi e deve venire come dono.

Come negli innamoramenti: è vero che un amore non si compra al supermercato, cioè non basta che lo si lo voglia, perché ha una componente di destino, di gratuità; ma è anche vero che se ci si isola la percentuale di probabilità diminuisce.

Alla fede succede la stessa dinamica: quanto è insieme grazia e virtù, quindi frutto di un creare le condizioni, ma anche occasioni, tanto diventa, dopo il mescolamento di questi elementi, una scelta su cosa fare. Allora sì che interviene la responsabilità di percorrere o no questa scelta: giocarsi, fidarsi o no, avere o non aver paura, rischiare, compromettersi.

In Laodicèa si scrive all’Angelo, non direttamente alle chiese, come se Giovanni dicesse che sta parlando al cuore più spirituale di una comunità spirituale.

L’Apocalisse è un libro bellissimo, da adulti e parla seriamente alla parte più complessa di noi.

Un altro aspetto su cui ci si potrebbe fermare sono i sette titoli di Cristo, perché a fronte della storia della Salvezza, del tema dell’attualità, stanno sette volti possibili di Dio. Il Dio che ciascuno cerca in alcuni passaggi della sua storia, ma anche la provocazione che ognuno riceve in alcuni passaggi, quella che non cercherebbe ma che gli arriva.

Il mittente della lettera di Laodicèa, che è l’attualità, dice: ” Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio”.

Dio si definisce, si rivela nel Cristo di fronte all’attualità, primo come l’Amen, il discriminante. L’Amen è stato per Israele “Emunà”, quello che noi chiamiamo fede, ed ha la stessa radice di Amen.

Se si legge la fede come scelta, l’Amen sarebbe sì. Noi l’abbiamo tradotto “così sia” nell’800, in cui la fede era una scelta, un impegno, dunque Amen vuol dire “Sia così”.

Invece Amen è della stessa radice di Emunà, quella di Abramo, l’affidamento amoroso alla vita, quello che fa dire “meglio avere rimorsi che rimpianti”. Ha tutta una radice semantica legata all’atto di generazione: generare figli è sempre un atto di Emunà.

Cristo dice “Io sono l’Amen”, io sono qui, questo è il mio gesto fiduciale sulla storia, la mia benedizione. A fronte di essa voi che cosa fate?

“Io sono l’Amen, il Testimone fedele e vero”. Colui che si pone così, con una provocazione dell’essenziale, perché testimonia in modo fedele e vero, rende conto di ciò che è accaduto.

Egli compie questo atto fiduciale sulla storia con questo Amen, ed è l’amen a Dio e alla storia, perché testimonia in modo fedele e verace la propria morte e resurrezione e perché è l’impronta genetica di tutta la creazione e la storia.

Questo, di fronte a quella che noi chiameremmo la quotidianità, alle piccole cose di ogni giorno.

E’ proprio lo sforzo di ripensare la totalità. Esattamente il contrario di ciò che noi facciamo di solito leggendo il Vangelo: Gesù dice, questo mi insegna.

L’Apocalisse fa l’operazione contraria: dopo avere detto i Vangeli, la storia di Gesù; le Lettere, l’utopia, la prova di una comunità; gli Atti, racconti realizzati di questa utopia, presenta l’Apocalisse.

Tutta questa rivelazione di Cristo nella storia è una totalità, non un pezzettino. Ed è un ripensamento tanto grande quanto minuscolo, fatto di migliaia di simboli piccolissimi incastonati l’uno con l’altro perché la storia con Cristo diventa tutta simbolica.

Ogni gesto, come ci hanno insegnato da piccoli, ha il peso dell’eterno; tutto diventa segno di questo quadro grandioso, di queste visioni che comprendono cielo, terra, totalità delle chiese, storia. Quindi un respiro enorme.

Intervento: il rischio più grosso penso sia quello di darle un significato solo quando riusciamo a ricondurla a dei sistemi sulla visione del mondo che abbiamo già elaborato.

Sì, l’Apocalisse, in quanto a rispettarne il testo, è una delle più difficili. Noi abbiamo la tendenza a leggere i testi dentro a schemi che ci siamo costruiti. Per questo la chiesa ha sempre avuto una certa diffidenza nel dare l’Apocalisse in mano a chiunque, perché è vero che, potenzialmente, è possibile distorcerla molto.

Contemporaneamente la chiesa non ha mai prodotto un’interpretazione autoritativa, come invece ha fatto per altri testi, perché ha sempre avuto una certa paura in quanto, nella emozionalità, la possibilità che scattino solo gli schemi precostituiti diventa grande.

Intervento: come hanno lavorato su questo testo all’epoca della patristica?

Hanno scritto di tutto. La patristica aveva una sensibilità molto vicina a quella in cui l’Apocalisse era stata scritta. Il problema è che tutta la dimensione emozionale del testo, più si va avanti nel tempo, più si perde e diventa poi difficilissimo recuperarla.

La prima reazione è quella della minuzia: tutto viene calibrato, interpretato, specie nel tempo degli alchimisti. Poi, di fatto, con lo scientismo, viene abbandonato e, sempre più, considerato un libro mitologico, di nessun valore. L’interesse si sposta sui Vangeli, specie nel ‘700 ed ‘800, in parte sugli Atti e sulle Lettere, ma come fonti di notizie storiche.

Negli ultimi due secoli l’Apocalisse è stata letta pochissimo, se non dalle sette (Mormoni, Testimoni di Geova) che, avendo conservato un tema più emozionale, hanno una reale sintonia maggiore.

Tutto il mondo mistico ha letto tantissimo l’Apocalisse, usandola non come un testo ma come pre-testo, come un film. Tutti i mistici saccheggiano le immagini dell’Apocalisse, le utilizzano in altri contesti senza preoccuparsi se siano o no il senso di Giovanni.

Per questo è da preferire una lettura non troppo minuziosa, anche se non risponde a tutte le curiosità ma è più strutturale e la possibilità di rispettare il testo è maggiore.