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L’apocalisse (VII)

Gruppo del venerdì
Ottobre 1999

La lettura dell’Apocalisse che stavamo facendo nel mese di marzo incuriosiva, in parte perché questo libro riguarderebbe la fine del mondo (tutte le cose fine millennio compaiono ormai su molte riviste, Battiato sta scrivendo un’opera lirica sull’Apocalisse, la Cavani sta pensando ad un film sull’Apocalisse), in parte perché è un testo che affascina con le sue belle immagini, nonostante venga  considerato difficile per la sua simbologia.

Questo era il punto di partenza.

Il problema dell’Apocalisse non è che sia difficile o facile, così come per quasi tutti i testi della Scrittura e per i grandi testi di cultura diffusa in occidente, come l’Iliade o la Divina Commedia. Il problema è, piuttosto, entrare nella logica di quest’opera che, come tutte le grandi opere, ha una sua chiave, è costruita come un’unità e non se ne possono spizzicare due o tre frasi; entrare in questa chiave e trovare la possibilità, se uno ne ha voglia, di farla risuonare rispetto a noi, alle nostre parole, alle cose che sentiamo e capiamo. Questo è l’unico modo di apprezzare eventualmente quanto di buono vi può essere dentro.

Il criterio base è che l’Apocalisse non è da capire. Ci si può mettere lì, (molti studiosi lo hanno fatto, per il novanta per cento anche con buoni risultati), a chiedersi per esempio che cosa significhi “mandava un riverbero come di cobalto”, cioè fare una megacostruzione su ogni singolo simbolo, ma è un lavoro secondo, non quello che ci fa apprezzare questo testo. Se si pretende di entrare nell’Apocalisse smontando pezzetto per pezzetto per capire, alla quarta pagina si ha una grande noia e soprattutto non si prova più gusto, come a scuola quando ci viene insegnata qualsiasi opera in modo totalmente filologico. Solo dopo aver apprezzato la storia, il racconto, il suono, si può anche essere aiutati dalle spiegazioni filologiche.

L’Apocalisse è, tra l’altro, una grande sfida alla decifrazione: uno degli obiettivi di questo libro è dimostrare che la storia non si può sezionare in modo che da una parte ci siano i cattivi e dall’altra i buoni. Volendo dimostrare questo, l’autore costruisce appositamente una macchina ambigua, cioè un insieme di simboli in cui ad un certo punto non si può dire chi sia il buono e chi il cattivo, se sia giusto o sia sbagliato. Quindi è assolutamente una costruzione simbolico-letteraria che sfida la capacità di decifrazione. Se noi ci mettiamo di punta a tentare di decifrarla simbolo per simbolo ce la giochiamo immediatamente.

Questa è la prima questione.

La seconda questione è che l’Apocalisse è stata scritta in un’epoca precedente alla televisione e questo dobbiamo ricordarlo; soprattutto si trattava di una cultura che proibiva e non amava le immagini dipinte; bisogna ricordarselo perché per noi la parola e l’immagine sono ormai, nell’esperienza comune, molto separate. Tuttalpiù, quando sono unite, la parola è al servizio dell’immagine, raramente viceversa. Chiunque di noi può spiegare un video che ha girato sulle vacanze, ma raramente userebbe un video per commentare le cose che dice . Infatti è più difficile costruire un video sulla lettura di una poesia che non mettere una colonna sonora ad una storia filmata perché noi abbiamo ormai queste due realtà come entità separate nella nostra cultura in cui si pende dalla parte dell’immagine e si considera tendenzialmente la parola a servizio dell’immagine. Giusto o sbagliato che sia, questa è la nostra esperienza quotidiana.

L’Apocalisse nasce invece in una cultura diametralmente opposta: l’immagine vi è proibita, comunque non amata, molto, molto minoritaria. L’unica cultura è la parola ed in particolare il racconto che funziona sempre come per noi funzionano le fiabe: non è mai un insegnamento concettuale, una lezione.

Non a caso noi raccontiamo le fiabe ai bambini. La parola di un adulto in genere è concettuale, raramente narrativa. Il nonno racconta la storia perché c’è questa connessione tra nonni e bambini. Nella maggioranza della nostra cultura la parola di un adulto è concettuale, totalmente strumentale e serve per raccontare delle idee.

Questo testo nasce invece in un ambiente che noi oggi chiameremmo di favole dove il problema è ciò che il racconto muove, non quello che il racconto dice.

Quello che dice un bambino che si fa raccontare una favola è: occupati di me, dammi del tempo e regalami la fantasia perché ciò che egli vuole muovere è la relazione con noi e tra sé e la sua fantasia, non il contenuto della fiaba raccontata magari già mille volte e guai sbagliare nella ripetizione!

L’Apocalisse funziona in questo modo: è un racconto che ha come obiettivo di “muovere” emozioni e vita.

E’ molto difficile spiegare l’Apocalisse, come spiegare una fiaba. Poi si può fare uno studio psicologico, una lettura socioculturale di Biancaneve, tutte vere, ma l’emozione di aver sentito raccontare Biancaneve è ancora un’altra cosa.

L’Apocalisse funziona così. Si può fare una lettura in chiave di Antico Testamento vedendone tutta la simbologia, una lettura in chiave simbolica di storia delle religioni, tante letture che sono tutte legittime e tutte  portano una parte di significato perché Giovanni aveva anche delle idee, ma certo il suo primo obiettivo è quello di muovere in rapporto al lettore e di muoverlo rispetto ad un nucleo centrale intorno a cui egli continua a tessere storie, con tutte le immagini e tutti i racconti. Queste sono cose su cui mi sono molto sgolata lo scorso anno; spero siano più visibili e che, soprattutto, abbiano tolto tutto il panico per cui uno legge tre righe e si chiede cosa mai vogliano dire.

 

Altro passaggio: qual è il movimento che Giovanni, sostanzialmente, intende suscitare?

Almeno due: uno è il grande movimento intorno alla questione del rapporto con la chiesa giudaica. Egli vuol dire: non vi confondete, non siamo più la stessa cosa, siamo diversi; anzi, vi dirò di più (e l’Apocalisse è sostanzialmente abbastanza antisemita, non certamente in termini razziali, ma dal punto di vista religioso sì), siamo diversi e loro hanno anche un po’ sbagliato. Quello che Giovanni vuol dire è: la sinagoga ha finito il suo ruolo, non per moralità o immoralità, ma ha storicamente finito il suo compito.

Inoltre, Giovanni è quello che noi oggi chiameremmo un filosofo della storia. Se voi leggete la “Fenomenologia dello spirito” di Hegel in cui fa tutta la grande teoria filosofica sull’evoluzione dello spirito nel mondo, trovate che più o meno è dello stesso tipo il contenuto, ma molto più complicato perché provando a dirlo concettualmente c’è bisogno di molte pagine per esprimere i concetti e si taglia fuori l’ottanta per cento degli esseri umani. L’Apocalisse invece ha parlato in tanti modi “giusti e sbagliati” tra molte virgolette, ma ha parlato tanto, in tante culture diverse ed è stata certamente letta da più gente. Ha mosso vite, ha fatto dipingere quadri, ha fatto girare films, ha fatto pensare, ragionare e sragionare. L’ambiguità, l’immagine della favola, fa ragionare e sragionare in quanto non è il controllo freddo del concetto.

(Lettura che vi consiglio a proposito anche di questi temi, indirettamente, è il romanzo: “Q” di Luther Blisset, tascabile Einaudi, storia romanzata ambientata nel periodo della questione protestante, in cui si vede benissimo come il riferimento all’Apocalisse ed ai profeti, in particolare Isaia, proprio perché gioca sulle immagini e e non sulla rigidità dei concetti, può creare grandi confusioni).

  Intervento: c’è il tema del mito, è paragonabile a come funziona il mito?

Sì, ma non solo. Funziona un po’ come il mito, ma con la differenza che il racconto ha la pretesa di essere storico. La pretesa di dire: effettivamente ci sarà la fine del mondo, sarà così; questa pretesa è durissima a morire nella lettura dell’Apocalisse perché sembra che funzioni, mentre il mito ha contorni molto più chiaramente sfumati. Il racconto di tipo apocalittico ha un tono apparentemente storico.

Questo per dire che il testo ha un carattere estremamente popolare. Non a caso è un testo a lungo proibito alla lettura dei fedeli di tradizione cattolica, perché lo si considerava ambiguo, pericoloso in quanto la potenza dell’immagine andava al di là della questione culturale. Mai è stata proibita la lettura del Levitico, una raccolta di leggi, perché non viene in mente niente di niente, a meno che non si sia ultraesperti. L’Apocalisse viene proibita perché ha una potenza trasformativa enorme anche rispetto agli incolti, a chi non ha necessariamente strumenti.

Allora le tesi di Giovanni sono:

– la separazione dalla sinagoga perché ha esaurito la sua funzione storica;

– il centro della storia è Gesù.

Che cosa vuol dire che il centro della storia è Gesù?

Giovanni ci mette tutta l’Apocalisse per spiegare queste cose: la storia ha una direzione, ha un punto culmine e questo punto culmine crea la situazione agonica della storia stessa. Il centro della storia è Gesù vuol dire che c’è tutto un tempo, del singolo, ma anche collettivo, che confluisce in un punto in cui la questione è posta definitiva e c’è una battaglia campale.

Dunque la storia non è più uno scherzetto ma una situazione di guerra, dolorosa, in cui non si può far finta di niente. Non si può dire: io adesso sono buono quindi mi devono andar bene le cose. La storia ha un volto agonico perché Gesù introduce una frattura e questa frattura, questa pietra testata d’angolo, questo centro, spezza l’apparente, mitologico, equilibrio della storia. Dunque la dolorosa dimensione della storia, la sua dimensione di lotta, di male, di cose che non funzionano non è solo una dimensione morale, ma ontologica, legata all’essenza stessa della storia. E’ così e sarà così fino all’ultimo giorno.

Il discorso di Giovanni non è sulla fine della storia, ma su ciò che la storia è.

Per questo dice che la sinagoga ha esaurito il suo tempo in quanto essa era lo strumento utile fino al punto di rottura, fino al centro della storia, fino al momento in cui la questione è posta. La sinagoga, dice Paolo, era il pedagogo, il maestro che doveva condurre fino a lì.

La questione è posta, la battaglia è scatenata e dunque noi siamo tutti in questa battaglia schierati da una parte o dall’altra e non schierarsi è peggio perché, come dice “Train de vie”, saresti in mezzo e ti tirano addosso tutti e quindi tanto vale che ti metta da una parte o dall’altra.

  Intervento: questo non è un concetto moderno della storia?

Sì, estremamente moderno perché supera il concetto pluridirezionale della storia. Si stabilisce che la storia ha una direzione sola che va da un punto verso un altro mentre prima non era così. In Giovanni la storia ha una direzione. Non è uguale prima e dopo Gesù, non si può fingere che sia uguale: ha una direzione ed un centro, un punto di frattura mentre precedentemente la storia ha sempre un fluire pluridirezionale, avanti e indietro. Basta pensare alla cabala ebraica la quale dice che ci sono pratiche per avvicinare la venuta del Messia e pratiche per allontanarla, come se la storia fosse una fisarmonica. Se tutto il popolo ebraico osservasse il sabato ci sarebbe il Messia, meno il popolo ebraico osserva il sabato più si allontana la venuta del Messia; il che vuol dire che la storia non ha una sua consistenza propria.

L’occidente ha la sua idea di storia, che non è quella dell’oriente, credenti e non credenti, laici e non laici, perché c’è stato il Nuovo Testamento, cioè perché l’influsso della Scrittura e del cristianesimo in occidente è stato ciò che è stato.

L’idea moderna di storia, come l’ idea moderna di soggetto, sono assolutamente idee possibili solo in una società cristiana, secolarizzata, magari atea, ma che culturalmente prende le mosse da questo impianto.

Il problema non è  sociopolitico; è che questo secolo, per primo, sta mettendo in discussione proprio questi principi. Il problema non è la secolarizzazione del settecento, ma nella misura in cui, per esempio, io incomincio a pensare alla storia, anche a livello diffuso, come ad una successione di presente che non ha direzione, non è più possibile il cristianesimo nel senso che c’è un’incommensurabilità originaria.

Se ai tempi di Voltaire si rifiutava la chiesa dicendosi atei, questa cosa poteva più o meno piacere alla chiesa, ma non mutava la possibilità comunicativa del cristianesimo perché non discuteva in fondo gli apriori culturali di tutta la faccenda.

Quello che sta succedendo nel novecento, la cosiddetta seconda secolarizzazione, postmoderna, la crisi in cui oggi il cristianesimo si dibatte è che si mettono in gioco i postulati a priori, ad esempio l’idea di storia per cui nell’esperienza comune oggi è difficilissimo recuperare l’idea che la storia abbia una direzione, nella nostra esperienza quotidiana, al di là della filosofia, poiché noi incominciamo a campare tutti con una successione di attimi, di presente. In una civiltà in cui si piantava un ulivo perché i figli ne potessero vedere i frutti, la storia aveva una direzione, era intuitivo. Nessuno di noi fa più questa cosa, nessuno compra più i mobili perché durino cento anni, nessuno fa più la dote, il corredo che deve durare perché, anzi, si dice che passa di moda, occupa spazio che non abbiamo. Si piglia ciò che serve, lo si usa e quando è finito si compra altro. Gli oggetti, gli elettrodomestici, le auto, per biechi motivi commerciali, non sono più fatti per durare, hanno una durata a tempo per favorire il consumo.

Tutto questo discute uno dei principi di comunicabilità del cristianesimo che è il motivo per cui, a cominciare dalle forme culturali più primitive, ma sempre di più anche nella sostanza, noi non capiamo più alcune questioni.

I nostri nonni capivano quando i parroci predicavano sull’inferno e sul paradiso, capivano; magari poi non gli piaceva, ma sapevano di cosa si stava parlando. Noi non è che siamo d’accordo o non lo siamo, noi non capiamo più di cosa si sta parlando, non riusciamo a mettere da nessuna parte questo ragionamento. Ci è saltato il principio che la storia abbia una direzione.

Un credente si distingue da un non credente perché  pensa che la storia ha una direzione con Cristo al centro e vive cercando di essere coerente con questo principio. Questo è il grosso tema per cui l’Apocalisse ha un grandissima attualità, proprio un libro bello che vale la pena di leggere.

 

Dette queste notizie previe abbiamo incominciato a leggere il testo.

L’Apocalisse è strutturata come una serie di spirali in cui, di fatto, ripete sempre la stessa questione con immagini diverse, con la famosa tecnica di tutti gli insegnanti: te lo spiego cinque volte in cinque modi diversi, una lo capirai.

La disperazione di Giovanni è: se non capisci la prima immagine capirai la seconda, se non questa la terza e così via. Qualcosa ti suonerà, ti muoverà. Certamente ci sono anche delle differenze perché nessuno ripete mai esattamente in modo uguale; non sono cerchi sovrapponibili, è una spirale per cui ci si sposta anche un po’, ma in realtà continua a riprendere più o meno sempre tutto.

Il primo cerchio sono le lettere alle sette chiese in cui Giovanni nel primo versetto dice praticamente tutto, costruisce questa situazione della storia e la dice nel modo in cui noi oggi chiameremmo esistenziale. Parlando della condizione dei suoi uditori prende sette nomi, mette sette temi, sette problemi che vedeva in giro ed a ciascuno inizia a dare una sgrossata come si fa quando si adopera un registro esistenziale in cui non si parla del problema teorico, ma invece si affronta praticamente: tu non ti sei mai sentito così? Se ti sei sentito così la questione era questa e la conseguenza quest’altra. E’ l’esempio delle conseguenze non la trattazione teorica.

I sette temi sono sette applicazioni, sette esempi esistenziali della questione della storia: la tiepidezza. Rispetto alla storia il vero problema è non essere da nessuna parte. Poi c’è la questione del potere, della ricchezza….Tutto sommato non c’è tanto di nuovo. Per ognuno Giovanni fa il quadro di cosa vorrebbe dire ragionare mettendo Cristo al centro della storia in quella situazione.

Dopo le sette lettere parte con la prima grande visione dell’Agnello in cui gli vengono affidati i destini del mondo ed inizia il ritmo del sette. L’Agnello spezza i sette sigilli del libro perché così, potendolo leggere, si può raccontare di nuovo in quanto nel libro c’è scritta esattamente la stessa cosa.

Segue quindi tutta la visione delle sette trombe che sono analoghe ai sette sigilli ed ai sette cavalieri.

 

Eravamo arrivati qui ed avevamo incominciato a vedere la questione delle trombe che costituisce, anche letterariamente, il cerchio centrale della spirale.

E’ come se Giovanni facesse un disegno di questo tipo: parte da piccolo, si allarga un po’, arriva bello largo, poi stringe, ritorna di nuovo piccolo aprendo e chiudendo con l’esistenziale. Fa un discorso storico casalingo con le cose che sono successe intorno, più visibili e riscontrabili da tutti nel secondo giro, quello dell’Agnello e dei sette sigilli. Nelle sette trombe presenta invece il grandissimo affresco ad orizzonte più ampio, quindi ritorna su un discorso storico più ristretto e chiude con una questione esistenziale quasi come in un andamento a capitello ionico.

Eravamo all’inizio della grande visione centrale, quella delle sette trombe.

La cosa molto bella dell’Apocalisse è che, una volta entrati nel suono di questa figura, ci si può divertire a trovare agganci perché è costruita in modo che tutto si collega come in un film di Bergman (Il settimo sigillo) o di Bunuel (La via lattea).

Se l’affresco è ben fatto poi si muove di vita propria mettendo in movimento cose che Giovanni non poteva sospettare in riferimento alla nostra storia attuale.

Il testo, se volete ve lo rileggete, è dai cap. 8 – 9 – 10 – 11.

I sette angeli con le trombe si accingono a suonarle. Non se ne era parlato prima, però, subito dopo, Giovanni fa un aggancino dando l’impressione di aver sempre parlato dei sette angeli e delle trombe. E’ un’immagine che ci suona familiare. Come nel caso dei sette sigilli e dei sette cavalieri, le prime quattro sono sbrigative, la quinta è un po’ più densa, la sesta è quella decisiva perché la struttura è sempre quattro più uno, più uno, più uno. Funziona come la settimana della creazione. I primi quattro giorni sono: aria, fuoco, acqua, terra poi gli animali; il sesto giorno è quello della salvezza, perché il settimo è quello del riposo.

Noi siamo abituati ai films americani che finiscono quando gli eroi vincono. Qui c’è sempre un giorno in più: è previsto il riposo dopo la vittoria. Il che è bello nel senso che c’è una comprensione della parabola storica più seria, non solo la crescita di eccitazione, ma la lotta, la guerra fino all’avvento di Dio e la salvezza ed il riposo di Dio.

Cosa fa uno quando ha vinto? Qui lo si dice. Il sesto elemento è quello della salvezza ed il settimo, come nel caso dei sigilli, è sempre un elemento strano. Nel sesto sigillo tutta la visione di angeli, vegliardi, stelle, terremoto, fuoco, inondazioni, cavallette…. poi “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora. Vidi che ai sette angeli ritti davanti a Dio furono date sette trombe”.

“I sette angeli che avevano le sette trombe si accinsero a suonarle”.

Prima non si era parlato delle sette trombe, però Giovanni si lega ai quattro venti, cioè dà la sensazione di fluidità per cui si ha l’impressione di aver già sentito dire delle sette trombe perché è un’immagine familiare.

Le trombe: “Appena il primo suonò la tromba, grandine e fuoco mescolati a sangue scrosciarono sulla terra. Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò.

Il secondo angelo suonò la tromba: come una gran montagna di fuoco fu scagliata nel mare. Un terzo del mare divenne sangue, un terzo delle creature che vivono nel mare morì e un terzo delle navi andò distrutto.

Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare.

Il quarto angelo suonò la tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente.

Vidi poi e udii un’aquila che volava nell’alto del cielo e gridava a gran voce: “Guai, guai, guai agli abitanti della terra al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare!”.

Allora è chiaro: i primi quattro sono sempre il ciclo della natura e quindi il fuoco, l’acqua, l’aria, la terra e c’è sempre la ripetizione di un terzo.

E’ una cosa raccontata al contrario rispetto al racconto di Noè in cui si dice che tutto fu distrutto ma fu salvata una coppia per ogni tipo di animali. Giovanni dice: “Un terzo è distrutto”. Noi potremmo dire: tutto fu salvato tranne un terzo. Non è la fine del mondo, non è un impeto distruttore. Una parte viene danneggiata, colpita, rovinata ma c’è un resto. Però Giovanni lo dice al contrario rispetto all’Antico Testamento.

Nell’economia antica si dice: “Tutto…. e poi si salva qualcuno”; teologia dell’elezione. E’ la giustificazione dell’esistenza di Israele: gli uomini sono cattivi, ma i figli di Israele sono eletti. Giovanni rovescia l’impostazione perché sta cominciando a parlare dell’universalismo per smontare la questione del popolo eletto. Quindi sta dicendo: “Tutto è salvato ma una piccola parte si rovina” e viene il sospetto che siano gli ebrei. Giovanni sta costruendo per dire. “Tutti sono salvati tranne i figli di Israele che si sono intestarditi nella loro durezza di cuore”.

Questo è un modo tipico in cui le immagini lavorano dentro di noi.

Noi non facciamo il passaggio per la ragione, ma è vero che se io dico: tutto è distrutto tranne questo oppure se dico tutto è salvato tranne questo, chi ascolta ha due percezioni diverse. Nel primo caso prevale l’immagine della catastrofe, nel secondo quella della salvezza perché la maggioranza sopravvive.

E’ un modo di raccontare calcando su alcune cose per trasmettere all’ascoltatore una certa sensazione. Non è mentire, però è vero che se si racconta in un  modo o nell’altro si ottiene un effetto diverso.

L’Apocalisse è una struttura di racconto e di pensiero, fondamentalmente antifondamentalista. Benché Giovanni abbia fortissimo il tema del giudizio, i buoni e non, ha un modo di raccontare globale per cui se non si isola il singolo versetto ma lo si sente globalmente, si legge che tutta la storia è una guerra in cui c’è sempre un nemico e qualcuno che perde però, nell’insieme, va a buon fine perché risolve. Il sentimento di Giovanni è sempre, in qualche modo, una salvezza generale anche se con dei costi molto cari. Bisogna proprio forzare l’Apocalisse per leggerla in chiave fondamentalista. Non a caso tutta l’area fondamentalista cristiana si richiama molto di più all’Antico Testamento che non al Nuovo.

In queste quattro piaghe, per un lettore di matrice di cultura ebraica, era chiaro il richiamo al racconto della creazione ma altrettanto chiaro era il richiamo al racconto delle piaghe d’Egitto.

Il fuoco, l’acqua amara, le cavallette….. sono il riracconto, il paradigma, dell’Esodo che viene in qualche modo attualizzato non più dall’oppressione di un regno nella storia, ma come se il cielo stesso fosse il faraone. Infatti tutte queste cose cascano dal cielo, compreso Assenzio che è l’interpretazione di Lucifero.

Il problema, come vedremo meglio nella quinta tromba, consiste nel fatto che Giovanni, usando appunto queste immagini, sta spingendo i suoi lettori verso il tema del nuovo esodo che sarà segnato immediatamente nel capitolo successivo dalla lotta del drago, con tutta una serie di richiami molto visibili al passaggio del mar rosso. E’ un nuovo esodo, un passaggio da compiere.

A questo punto c’è la quinta tromba.

Il quinto angelo suona la tromba: “E vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso; egli aprì il pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo il fumo come un fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’atmosfera.”

Riprende la stella caduta, l’astro, che è il tema centrale.

Richiamo alcune idee già espresse ma forse perse nella pausa estiva. Giovanni, dicevamo, ha questi due temi: la separazione dalla sinagoga e la questione del centro della storia. La storia è una lotta, è agonica, ha una situazione di battaglia, come chiunque di noi. Perché non siamo tutti felici e non possiamo goderci i nostri giorni nella quiete, perché ha da essere una battaglia? Questa è una domanda seria che prende molte facce nelle nostre vite e nasce da molti fatti concreti o da quesiti teorici. Giovanni ha questo tema costante nell’insegnamento della tradizione cristiana e su cui bisognerebbe ragionare abbastanza a lungo: il male non viene mai da dentro l’uomo. (Giovanni non è un moralista; non dice che è un problema di coerenza, di bravura).

Il male è una stella che piove dal cielo, è satana. Il male ha una sua entità. Il male che noi possiamo compiere sta sempre nel non schierarci in questa battaglia da una parte o dall’altra. Noi possiamo di volta in volta essere le truppe di Dio o le truppe di satana, ma non è nostra l’origine. Non è un problema di ordine morale: se tutti ci comportassimo bene la storia funzionerebbe bene e non sarebbe più una battaglia. Invece se tutti ci comportassimo bene la storia sarebbe comunque una battaglia perché è tale ontologicamente in quanto la storia è il luogo da cui Dio si è ritratto, ha fatto un passo indietro per lasciare quello che noi oggi chiamiamo lo spazio alla libertà.

Ma la libertà non è solo la nostra libertà bensì quella della storia, la libertà anche del male di avere un suo percorso. Per questo la chiesa ha sempre insegnato che il male non è solo un’entità metafisica, filosofica, teorica, ma un’entità personale. Tutto ciò a noi oggi, per quel che significa personale, risulta abbastanza difficile. Chi è, dove si vede? Ma la chiesa dice: il male è un’entità personale. Quindi non solo metafisica, né solo tipicamente morale del singolo individuo. C’è nella storia una dinamica del male che, in qualche modo, ha una sua autonomia.

Quando Bonhoeffer dice che la stupidità non è un dato psicologico ma sociologico, e lo dice analizzando la situazione della Germania durante il nazismo, (prendi tre persone, brava gente singolarmente, ne metti insieme trecento, diventano stupidi e la stupidità come dato sociologico è a un passo dal diventare malvagità, perché si autogiustifica), fa un’analisi di tipo sociopsicologico di un antico insegnamento della chiesa, cioè che il male ha una sua dinamica (come quelle bande di diciassettenni che presi uno per uno sono bravi ragazzi, educati bene, tutti insieme diventano pericolosissimi).

Questo è uno dei grandi temi che stanno a cuore a Giovanni, sui quali egli  prende una posizione precisa che sarà poi quella mantenuta dalla chiesa, cioè il male nella figura di qualcosa che ha una sua dinamica, una sua coerenza, una sua capacità di presentarsi, e che comunque non dipende solo dalla scelta soggettiva e non è totalmente governabile dalla buona volontà di fare il bene, ma fa invece parte di una grande lotta celeste.

Detto per inciso: per questo la chiesa ha sempre insegnato che c’è bisogno di lei per la salvezza. Nessuno, da solo, si salva, senza la grazia che viene dai sacramenti, non solo perché siamo in tanti nella chiesa, ma perché c’è una dinamica del bene, indipendentemente dalla bontà o dalla cattiveria della chiesa. Dinamica lasciata da Dio appunto nei sacramenti, che si chiama grazia. Ed è questa l’arma che agisce.

La sociologia direbbe che un sistema non è la somma delle sue parti, che un sistema è fatto dalle sue parti più la dinamica del sistema: un gruppo classe non è solo un elenco di allievi ma tutti quegli allievi, con quel professore, che facendo quel lavoro diventano una cosa diversa

Il male non è solo la somma delle cattiverie umane, che pure ci sono, così come il bene non è solo la somma della nostra bravura, che pure c’è. La grande tradizione cristiana ha sempre chiamato la dinamica del male “peccato originale” e la dinamica del bene “grazia”.

La dinamica del male, che funziona al di là anche della mia scelta etica su ogni singola questione, si chiama peccato originale, dove originale non è “estroso” ma l’origine rispetto alla copia: tutte le mie eventuali cadute quotidiane sono semplicemente copie di questa dinamica del male che poi, come in fotocopiatrice, si moltiplicano. Così come c’è una grazia originale che non è solo la mia bravura o il singolo aiuto che Dio mi dà in una certa situazione, perché quelle sono copie della grazia originale.

Il racconto di tutte queste lotte è sempre quello della battaglia tra la grazia ed il peccato ed il fatto che la stella con la chiave del pozzo che si chiama abisso e che scatena tutto il male, viene da fuori, non da dentro, cade, non è vomitata, è per dire proprio questa dinamica.

” E salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace che oscurò il sole e l’atmosfera. Dal fumo uscirono cavallette che si sparsero sulla terra e fu dato loro un potere pari a quello degli scorpioni della terra. E fu detto loro di non danneggiare né erba né arbusti né alberi, ma soltanto gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte.”

Qui c’è nettamente l’Esodo. Le cavallette descritte tutto sono tranne che cavallette: non mangiano arbusti come quelle dell’antichità che spianavano i raccolti, ma hanno il potere dello scorpione, animale molto simbolico, sacro nell’immaginario degli antichi, perché punge con la coda, quindi è un animale capovolto. Ma soprattutto gli è dato solo potere sugli uomini ed in particolare su quelli che non hanno il sigillo di Dio. E’ in sostanza la battaglia. Queste sono truppe scelte del demonio che stanno dunque dalla parte di chi non ha la divisa degli altri e non è riconoscibile.

“Però non fu concesso loro di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi e il tormento è come quello dello scorpione quando punge un uomo. In quei giorni gli uomini cercheranno la morte ma non la troveranno; brameranno morire ma la morte li fuggirà”.

Questo è un tema grosso cui Giovanni incomincia ad accennare qui e riprenderà più volte: è il rapporto tra prima e seconda morte, cioè tra la morte materiale o la morte come cessazione della materialità della vita e la morte di fronte a Dio, la morte finale, il giudizio definitivo di morte.

Giovanni ha molto chiaro nella testa una cosa che noi moderni abbiamo impiegato parecchio tempo a riscoprire, cioè che c’è un sacco di gente la quale che va in giro e parla, parla, ma non ha vita dentro, mentre c’è gente, magari fisicamente molto ridotta al lumicino, ma con una gran vita interiore. Tutti noi abbiamo fatto l’esperienza di incontrare persone e di sentire chiaramente questa differenza. Nella media tutti ci aggiustiamo per cercare di stare abbastanza bene fisicamente ed essere anche un po’ contenti, con un po’ di energia. Ci sono persone scomparse che si continuano a sentire vive e ci sono persone senza vita che si incontrano ogni giorno.

Per Giovanni questa distinzione tra le morti possibili è un tema molto importante perché nella questione della storia questa è una cosa seria. Se la storia finisce quando finisco io, cioè se c’è una sola morte ed è quella definitiva, dove si appoggia il discorso di Giovanni?. Ed egli sta incominciando a dire che la storia non finisce quando finisco io.

  Intervento: questa è una visione direi manichea. Principio del bene e del male che la chiesa, credo, superi con l’idea che il male sia assenza di bene. Come si raccorda la faccenda?. Se il male fosse assenza di bene evidentemente non esisterebbe questo tipo di lotta; non c’è un principio del bene ed uno del male che si scontrano. Ma ammesso che il male sia assenza di bene, è il bene che si deve espandere, semplicemente. Lì, invece, sembra che ci siano i due principi.

La questione del male come assenza di bene è un’invenzione tarda nella tradizione della chiesa. E’ una delle tante spiegazioni filosofiche su cui la chiesa un po’ si è “incartata” facendo qualche confusione. La tradizione antica non usa mai questo modo di concepire il male. Rifiuta fin dall’inizio l’idea di due principi paritetici; sono gerarchizzati ma non in termini morali bensì in termini di potenza: il bene è più potente, il male è la scimmia di Dio, una scimmia con una sua logica, una sua autonomia.

  Intervento: ma un Dio onnipotente che tollera, che permette non un antidio ma uno che gli tiene testa fa venire dei dubbi…..

La chiave del problema nella tradizione antica cristiana ortodossa è che in Dio ci sono due principi: la potenza e quello che noi oggi chiameremmo, con linguaggio moderno, il rispetto della libertà, il riconoscimento dell’alterità. Questi due principi, in Dio, non sono in contraddizione, non si annullano vicendevolmente. Dio può, ma non è detto che faccia tutto ciò che può. Lo dico così perché questo, nella nostra cultura, è una cosa per noi quasi incomprensibile. Per noi potere ed esercizio del potere sono praticamente sinonimi. Basta vedere che per arrivare a discutere di questo si deve giungere a dei livelli di esperimenti transgenici veramente un po’ obbrobriosi su cui finalmente qualcuno incomincia a dire: “Ma pensiamo un attimo: poiché una cosa è tecnicamente realizzabile è proprio necessario comunque farla?”. Questo quando il livello delle cose in gioco è già ben pesante, perché nel quotidiano, su questioni più ordinarie, se una cosa si può fare perché non si deve fare? In genere ragioniamo che occorre avere un motivo positivo per non farla.

La struttura cristiana ragiona al contrario: occorre avere un motivo positivo per farla, anche quando è in nostro potere farla. Questo è ciò che la tradizione cristiana indica quando parla dell’espansione del bene: il bene si espande perché noi dovremmo sempre agire avendo un buon motivo per fare ciò che facciamo, non avendo un buon motivo per eventualmente non farlo.

Dio funzionerebbe in questo modo. Egli ha un buon motivo, ad esempio, per intervenire: “Ho ascoltato il grido del mio popolo” e dunque intervengo in suo favore, altrimenti ognuno se la dovrebbe sbrigare da solo. Questo è uno dei motivi per cui si dice che dobbiamo pregare anche se Dio conosce le necessità. Il principio di Dio è che interviene se ha un buon motivo, per esempio il suo amore per noi.

  Intervento: il suo amore per noi ce l’ha comunque.

Questo si capisce benissimo sui figli. Ci sono situazioni in cui un genitore vede ed in genere capisce esattamente una questione, ma saggezza educativa impone che si morda la lingua e le mani finché il figlio non parla perché sa bene che se anticipa mettendosi al posto del figlio fa dei guai.

Per tornare alla questione originaria: i due principi non sono paritetici. Uno è un principio increato, l’altro creato, creato dalla libertà, non da Dio. La questione posta nel giardino terrestre, la questione della libertà ha come prodotto la possibilità di questa dinamica del male.

  Intervento: modernamente, proprio tu ce ne parlavi, semmai c’è un’immagine di Dio che ci può essere più cara, più comprensibile ed è quella del Dio impotente che piange insieme alla sua creatura. Se Dio ha un limite che noi possiamo chiamare impotenza, naturalmente è un’immagine, e diamo veramente autonomia all’altra parte, allora è veramente manicheismo. Diventa necessario raccordare le due visioni: del Dio impotente che soffre con la sua creatura e del male come assenza di bene che però sarà vinto inevitabilmente.

Sì, ma la necessità del raccordo, secondo me, è puramente concettuale, teorico, nel senso che da un punto di vista concreto la cosa è molto chiara. La differenza di qualità è che alla fine resterà il bene, cioè la potenza del bene. La dinamica della grazia e del bene è vincitrice sulla dinamica del male.

La questione veramente interessante è cosa si fa nel frattempo, cioè come campiamo noi, credenti, nella certezza che la dinamica del bene vincerà, ma nella misura in cui stiamo come nella scena finale del film “Train de vie”, in cui i protagonisti finalmente  arrivano e scoprono di essere esattamente sul confine.

Quella è un’immagine bellissima della condizione umana: noi stiamo esattamente nel centro di questo territorio di battaglia e piuttosto indecisi, come nel film, se considerare una grande fortuna l’aver finalmente trovato il confine oppure una grande sfortuna perché tutti ci sparano addosso. Quindi con tutta l’ambiguità di questa situazione: la grande fortuna di abitare il tempo della storia, avere il tempo di vivere, amare, soffrire, costruire, progettare, confrontarsi, ragionare, fare tutte le cose delle creature vive oppure dire che il male o il bene ce l’ha con me, che Dio è impotente o potente, ma io devo cavarmela da solo.

Questa mi pare una questione interessante che in qualche modo l’Apocalisse affronta: come comportarsi mentre cadono fuochi, stelle, cavallette varie e ognuno, in mezzo, cerca di schivarsi al meglio?

Il racconto, lo vedremo in seguito, affronterà prima la questione dei testimoni poi la settima tromba con la visione della donna e del drago in cui Giovanni userà, non a caso, l’immagine di Maria, non un’immagine cristologica, non l’Agnello. Presenterà il modello del credente, non del salvatore, di come si fa a campare nel frattempo come Maria, non come Gesù.

  Intervento: in una opzione di fede noi traffichiamo la nostra vita per sapere che le nostre vie non sono le Sue vie e ci scervelliamo ma possiamo solo immaginare…

Devo dire che sempre più per me è interessante la questione su quali sono le mie vie, e già faccio abbastanza confusione; su quelle di Dio mi ritraggo sempre di più. Più studio la parola di Dio più mi sembra che essa racconti le nostre vie, illuminate certamente dal Suo sguardo. Dice le parabole di tutte le angosce, i dolori, le arrabbiature, le fatiche umane dando un orizzonte ed in realtà occorre già un bel po’ di energia per occuparci delle nostre vie.