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L’Apocalisse (VIII)

Gruppo del venerdì
Dicembre 1999

Riprendiamo dopo la sospensione di novembre e richiamiamo alla memoria le idee guida:

  • la questione di come va letta l’Apocalisse: il problema non è decifrare ogni singola parola perché si corre il rischio di perdere il quadro d’insieme;
  • il fatto del duplice interesse di Giovanni rispetto alla fine della funzione della sinagoga e rispetto alla spiegazione sul senso della storia;
  • il modo di procedere a spirale;
  • la successione dei settenari: le sette chiese, i sette sigilli.

Adesso siamo nella sezione delle sette trombe.

Rileggiamo il pezzo della sesta tromba, cioè dalla fine del capitolo 9 in avanti:

“Il sesto angelo suonò la tromba. Allora udii una voce dai lati dell’altare d’oro che si trova dinanzi a Dio. E diceva al sesto angelo che aveva la tromba: “Sciogli i quattro angeli incatenati sul gran fiume Eufrate”. Furono sciolti i quattro angeli pronti per l’ora, il giorno, il mese e l’anno per sterminare un terzo dell’umanità. Il numero delle truppe di cavalleria era duecento milioni; ne intesi il numero. Così mi apparvero i cavalli e i cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto, di zolfo. Le teste dei cavalli erano come le teste dei leoni e dalla loro bocca usciva fuoco, fumo e zolfo. Da questo triplice flagello, dal fuoco, dal fumo e dallo zolfo che usciva dalla loro bocca, fu ucciso un terzo dell’umanità. La potenza dei cavalli infatti sta nella loro bocca e nelle loro code; le loro code sono simili a serpenti, hanno teste e con esse nuocciono.

Il resto dell’umanità che non perì a causa di questi flagelli, non rinunziò alle opere delle sue mani, non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; non rinunziò nemmeno agli omicidi, né alle stregonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie.

Vidi poi un altro angelo, possente, discendere dal cielo, avvolto in una nube, la fronte cinta di un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, gridò a gran voce come leone che ruggisce. E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce. Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere quando udii una voce dal cielo che mi disse: “Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo”

Allora l’angelo che avevo visto con un piede sul mare e un piede sulla terra,
alzò la destra verso il cielo
e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli;
che ha creato cielo, terra , mare, e quanto è in essi: “Non vi sarà più indugio! Nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato ai suoi servi, i profeti”.

Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: “Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra”. Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza. Allora mi fu detto: “Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni e re”.

Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: “Alzati e misura il santuario di Dio e l’altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l’atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balia dei pagani i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni”. Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno. E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.

Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: “Salite quassù” e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo.

Così passò il secondo “guai”; ed ecco viene subito il terzo “guai”.

Paradossalmente le immagini dell’Apocalisse che abbiamo in mente, quando non leggiamo il testo, sono accoppiate male, nel senso che pensiamo sempre ai cavalieri dell’Apocalisse, immagine molto diffusa, e poi al settenario delle trombe come contenuto anche se non lo accoppiamo alle trombe, ma ai cavalieri. Le immagini sono di distruzione, di fuoco, di terremoto, di guerre, come già nella quinta tromba con le cavallette e gli scorpioni. Questo settenario è la parte horror, che ha maggiormente dato spazio alla possibilità di interpretare l’Apocalisse come un libro sulla fine del mondo, sulla catastrofe finale.

L’andamento, lo avevamo già visto nelle sette chiese e nei sette sigilli, è sempre lo stesso: i primi quattro sono storici, il quinto è quello religioso, il sesto è spinto all’ennesima potenza, ma con un senso di sospensione perché si pensa che, essendo successo di tutto, non possa più succedere nulla; il settimo è sempre l’elemento del compimento del mistero di Dio ed è il corrispondente al settimo giorno in cui Dio si riposò (nel settimo sigillo ci fu un silenzio di mezz’ora).

Anche qui la settima tromba segna un cambiamento di tono, di genere, di tutto.

La sesta tromba è anche il sesto elemento più sviluppato proprio come numero di righe, come se Giovanni ci dicesse, secondo il detto popolare, che l’ora prima dell’alba è sempre la più lunga, quando la tensione agonica dell’esistenza cresce a livelli insostenibili e si ha la sensazione che non finirà più, come l’ultima ora in cui si aspetta o si deve prendere una decisione su qualcosa di importante. Poi, improvvisamente, comunque si sblocca.

In questo il ritmo dell’Apocalisse è estremamente vitale, corrisponde al nostro ritmo di percezione interiore. Tutti noi, nelle cose gravi della nostra esistenza, abbiamo in genere un ingresso timoroso, un accrescimento fino al momento immediatamente prima dell’acme di qualsiasi emozione, poi uno stacco.

Dunque la sesta tromba è la parte più lunga e presenta un intero gruppo di visioni. Sono di fatto cinque visioni di cui, apparentemente, metà sono negative e metà positive; ma anche quelle positive sono abbastanza insoddisfacenti, con un tono cupo. La liberazione dei quattro angeli e l’invasione della cavalleria appaiono nettamente negative: gli angeli vengono liberati dal fiume Eufrate per distruggere e compaiono i duecento milioni di cavalieri i cui cavalli hanno code di serpenti.

Seguono la visione dell’angelo, la questione della misurazione del tempio e la visione dei due testimoni che sono in sé meno truculente, ma inserite nel clima generale restano con un tono sgradevole.

Cerco di percorrere le visioni una alla volta poi magari faremo qualche considerazione globale perché ho la sensazione che le immagini così staccate non dicano un granché, ma diventa difficile fare ragionamenti generali se non ci si è prima fermati sui particolari.

Riguardo la questione dei quattro angeli che vengono slegati bisognerebbe procedere con una serie di paralleli: all’inizio dei sigilli i quattro venti venivano legati e qui vengono slegati; il numero quattro che ha un’abbondanza di significati, di metafore per Giovanni funziona come numero di totalità rispetto alla storia.

Sono i quattro elementi della terra, i quattro regni, le quattro direzioni. E’ proprio la rappresentazione di tutto ciò che la storia è, solo che i quattro venti ora sono diventati angeli. Il crescendo in cui Giovanni ci sta accompagnando è un crescendo di personalizzazione della storia.

Se ricordate, il cappello dell’Apocalisse sono le sette lettere che non hanno conclusione ed in cui Giovanni chiede che cosa le comunità stiano combinando; poi incomincia, attraverso i sigilli, una descrizione della storia quasi come un’entità metafisica.

La prima lettura è in termini di buon senso: Giovanni parla ai suoi interlocutori di ciò che si vede intorno, di ciò che accade ad un livello di lettura non ancora personalizzato.

Nelle trombe è come se si spostasse su un livello più personale cercando di aiutare chi lo legge a cogliere che non sono venti, ma angeli, non sono entità generiche, ma iniziano ad avere una configurazione personale. Con questi angeli, così come prima con i venti, c’è un ordine dall’alto che lega o scioglie delle entità pericolose.

Si possono fare moltissime considerazioni. Nei sigilli i venti vengono legati ai quattro angoli della terra. Nelle trombe gli angeli sono slegati dal fiume Eufrate che, per un mediorientale come Giovanni, è la culla di tutta la civiltà, non solo, ma anche, secondo la tradizione e la leggenda, il luogo del paradiso terrestre. Quindi là dove tutto è nato.

Esprimo non un’interpretazione del testo, ma un commento, una traduzione tipo: “Se fosse un film girato in questo secolo quale scena ci sarebbe ?”. La scena sarebbe una di quelle che rappresentano noi di fronte al destino: il personaggio guarda verso l’orizzonte con sguardo pensieroso. Come dire: c’è una realtà che non ci diamo da soli ma che ci riguarda, il cui ordine viene dal cielo con entità diverse da noi, gli angeli che vengono da un luogo primigenio, lontano, arcaico. Noi non possiamo decidere tutto. La battaglia, i cavalieri non compaiono perché qualcuno, buono o cattivo, decide di far la guerra ad un altro.

Giovanni non inizia dicendo: “Allora il grande re dell’Assiria, di Babilonia, (che è sempre il cattivo, per lui), decise guerra alla città santa e mandò milioni di cavalieri”, racconto che si sarebbe capito meglio. Giovanni non mette una volontà, una scelta responsabile all’origine del racconto.

Dice che ci sono delle realtà nell’esistenza che non dipendono totalmente da noi, ma sono messe in moto dalla storia in cui ognuno di noi può solo decidere da che parte combattere. In questo sta la nostra libertà. Ma la guerra è ontologica, non una guerra che abbiamo dichiarato noi, né che risolveremo noi. Poi non è indifferente che uno decida di combattere in un esercito o nell’altro per stare con i cattivi o con i buoni.

Questa è la logica. E c’è la cavalleria, che è un po’ la seconda questione, che sembra spuntare dal nulla e non si sa dove vada. Giovanni identifica tutti i mali sotto la figura della guerra, immagine, secondo il catechismo, della conseguenza del peccato originale.

O si fa una lettura fondamentalista, Giovanni pensa che il peggio per l’umanità è la guerra guerreggiata ed allora l’unica posizione possibile è quella del pacifista ad oltranza oppure del militare di carriera e quindi ci si mette in una delle due opzioni. Oppure non è così fondamentalista la lettura e Giovanni in qualche modo vuole dirci che la guerra è la situazione agonica dell’esistenza, che la vita non è un picnic, non è una festa.

Il problema non è che di per sé le cose andrebbero lisce e poi c’è una scelta irresponsabile di qualche cattivone un po’ immorale il quale combina guai ed altri soffrono; le cose non vanno lisce di loro perché quello della storia è il tempo del grande combattimento e come tale va vissuto e questo è la concretizzazione di tutti i mali.

Da questo punto di vista, secondo me, ci sarebbe da pensare perché è vero che oggi c’è la tendenza ad un pensiero religioso come una sorta di fitness spirituale per cui basta essere buoni, tendenzialmente aperti alla parte migliore di sé e lasciare scivolare un po’ la propria positività.

C’è questa tendenza in tutti gli ambienti ed è trasversale ai sentimenti religiosi dei vari orientamenti. Giovanni da questo punto di vista non è così. Egli dice che la vita che ci troviamo a vivere è una cosa seria, come tutte le cose serie ha aspetti molto belli, come tutte le cose serie è una lotta, dunque ognuno deve sapere che sta in una situazione seria e delicata e non può distrarsi troppo.

Per la prima volta nell’Apocalisse si parla di uccisione di uomini (gli scorpioni nella quinta tromba potevano tormentare ma non uccidere). Qui si arriva alla questione, alla resa dei conti e si va ad una logica di personalizzazione. Non è un male generico che riguarda la natura, ma è sempre più un male personale che colpisce la vita degli esseri umani.

Come spero abbiate notato compaiono più volte fuoco, fumo, zolfo che sono i tre colori dei cavalieri i quali però hanno anche il bianco, il primo, il vincitore, del quale avevamo detto essere la condizione dell’uomo prima del peccato originale, il sogno di Dio sulla storia.

Poi c’erano quelli che Giovanni individua come i tre grandi mali: la violenza, l’orgoglio, la morte spirituale. Sempre il fuoco è stato interpretato come la violenza, il fumo come l’orgoglio, lo zolfo come l’inferno, la fine.

Non c’è qui invece il dato positivo, il cavallo bianco perché appunto si parla del dopo il peccato originale, della storia. Non è il disegno di Dio, come nei sette sigilli, in cui prima di tutto appariva il disegno pacificato. Qui è ciò che si vede: ci sono quelli che muoiono, e quelli che non muoiono non cessano di prestare culto ai demoni ed agli idoli.

Questa è la prima visione.

La seconda è quella dell’angelo possente che discende dal cielo. E anche qui c’è un’interruzione brusca: Giovanni cambia scena con un andamento da videoclip, seziona le scene senza una continuità rappresentativa. L’angelo con il piccolo libro è una forza positiva che, forte e possente, si mette in mezzo a questo scompiglio. L’angelo ha quattro caratteristiche: la fronte cinta da arcobaleno, la faccia come il sole, le gambe come colonne di fuoco, ed è potente.

Sono chiaramente le quattro caratteristiche della divinità, ma sono anche quattro immagini dell’Antico Testamento: l’arcobaleno è il diluvio, l’imponenza è babele, le gambe come colonne di fuoco sono l’esodo, la voce come tuono i profeti. La successione è proprio quella della storia del popolo d’Israele. L’angelo si configura come la rivelazione al popolo d’Israele: ha in mano il piccolo libro.

Giovanni ha una polemica contro gli ebrei. In mezzo al caos che succede agli esseri umani dopo il peccato originale improvvisamente compare la rivelazione di Israele. Il piccolo libro aperto sarà dolce in bocca, ma amaro nelle viscere (non a caso è chiamato piccolo mentre quello dato all’Agnello non veniva definito piccolo, appariva sigillato e solo l’Agnello poteva aprirne i sigilli). E’ la rivelazione di Israele che si frappone a questa marea di violenza dilagante, comincia a dare un orientamento ma per Giovanni è ancora una rivelazione incompleta, parziale.

Ci sono poi i tuoni che Giovanni sente e vuole scrivere, ma l’angelo dice: ” Metti sotto sigillo ciò che ti hanno detto i tuoni”. E’ l’incompletezza della rivelazione di Israele, non può essere tutto rivelato. Poi l’angelo giura che non vi sarà più indugio nei giorni in cui la settima tromba suonerà.

Giura secondo i due capisaldi di Israele: la legge ed i profeti, il Dio della creazione che è anche quello della legge e la profezia. Quindi è proprio la rappresentazione di Israele che dice la forza, la potenza del creare una traccia, un solco nel caos di violenza causato dal peccato originale, ma anche tutta la sua incompletezza che Giovanni è molto attento a sottolineare.

C’è poi la questione del libro che viene dato da mangiare. In questo brano Giovanni riprende parola per parola la visione di Ezechiele a cui Dio dice di mangiare il rotolo, ma fa alcune aggiunte significative che sono più importanti del racconto, stereotipo, assolutamente conosciuto al suo tempo.

La prima cosa aggiunta è che questo libro è amaro, fa un brutto effetto, è seducente, ma non nutriente, fa male alla salute. La seconda è che non si può ancora profetare a tutti, bisogna metterlo sotto sigillo, c’è un tema di elezione, ci sono alcuni, altri no, e solo l’Agnello spezzerà i sigilli.

Questa è in qualche modo la seconda visione.

Dopo c’è il terzo passaggio che è quello della misurazione: gli fu data una canna per misurare il tempio. Anche qui viene ripresa una scena stereotipa.

La questione di misurare il tempio per noi è molto incomprensibile per due ragioni: innanzitutto perché non abbiamo più l’idea di che cosa era il tempio, poi perché dopo la cosiddetta rivoluzione scientifica il problema delle misurazioni per noi è un dato tecnico, non ontologico, e siamo abituati a ragionare in termini di precisione o imprecisione. Noi non abbiamo la minima idea di cosa volesse dire vivere in un mondo meno correlato del nostro in cui non esisteva alcun tipo di misurazione comune, nessuna criteriologia di sistemi di misurazione.

Nelle cattedrali gotiche che hanno sempre quattro finestre da un lato e tre dall’altro le quali rappresentano i quattro elementi della terra e la Trinità, sotto una delle quattro finestre, quella della terra, ci sono, incise nel muro, la misura di lunghezza ed alcune altre misure standard perché i mercanti stavano intorno alle cattedrali e, forestieri o no, tutti dovevano adeguarsi alla misura stabilita, anche per non essere oggetto di imbrogli. (nella cattedrale di Friburgo c’è, ad esempio, la misura di lunghezza e quella del pane piccolo e del pane grande).

Noi abbiamo un’idea assolutamente oggettivata della misura che riteniamo sempre esatta e ci va un fisico per dirci che la misura esatta è un concetto quasi filosofico.

Per quanto riguarda il tempio, noi non abbiamo l’idea del ruolo che esso giocava. Nella nostra esperienza abbiamo le chiese o comunque i luoghi di culto che sono del tutto diversi dal tempio.

Il tempio era uno solo, stava solo a Gerusalemme, era stato distrutto ormai due volte al tempo di Giovanni, una delle due volte ricostruito e la caduta del primo tempio era stata uno dei drammi della storia di Israele. Poiché la presenza di Dio era garantita solo nel tempio, in senso assolutamente materiale, Dio era solo lì e non altrove. Per noi, se una delle nostre chiese viene profanata, dispiace molto ma se ne può trovare un ‘altra con l’eucarestia.

La distruzione del tempio ha significato invece la cancellazione delle presenza di Dio in terra in quanto non c’era un altro posto. La riconsacrazione del nuovo tempio aveva avuto una serie di problemi di accettazione da parte dei conservatori al punto che, quando avviene la costruzione del secondo tempio, si inventa tutta la storia del ritrovamento della copia originale del Deuteronomio, la seconda legge, nelle macerie del primo tempio per giustificare la costruzione del secondo, cioé per dire che come Mosè aveva ricevuto le tavole della legge sul Sinai e le tavole erano state portate nella terra promessa, dunque Davide aveva avuto da Dio il permesso di costruire il primo tempio intorno alle tavole della prima legge, così noi, avendo ritrovato in quelle macerie la seconda legge, il Deuteronomio, abbiamo da Dio l’investitura per costruire il secondo tempio.

Stiamo parlando di questo orizzonte. Non a caso la questione della misurazione del tempio è presente in molti profeti e libri della Scrittura dell’Antico Testamento e restano per noi passi incomprensibili. Giovanni riprende dunque un topos tipico della sensibilità religiosa di Israele.

Anche qui non per spiegare, ma per tradurre nella nostra sensibilità in cui il nostro topos tipico è che Dio sta dappertutto, nell’eucarestia, ma in fondo, almeno come fruibilità, nel profondo di noi stessi, è come se Giovanni, destinatario della parola angelica, raccontasse che deve andare da uno psicanalista per farsi un’analisi e vedere quanto c’è di religioso, di autenticamente divino nella sua interiorità o quanto sono nevrosi, paranoie, sensi di colpa, patologie varie.

A lui viene chiesta un’opera di discernimento per mettere i confini e dire dove inizia e dove finisce la presenza di Dio. E misurare significa anche scegliere un criterio di misura e gli fu data una canna, da cui canone. Giovanni va a misurare il tempio e gli si dice: “Lascia stare l’atrio perché lì ci stanno i pagani”, non conta nella misura del tempio.

Questo è insolito perché in tutte le precedenti stereotipe situazioni di misurazione del tempio, l’atrio non viene mai misurato in quanto era chiaro per un ebreo che non facava parte del tempio.

Non c’era bisogno di dire questa cosa, ma il fatto che Giovanni la scriva qualcosa dice. E quello che dice è nel settenario successivo quando vedremo che l’atrio sarà inglobato con tutti quelli che venivano tagliati fuori dalla salvezza.

Questa è una delle tante volte in cui Giovanni fa una polemica sull’uso della religione come dato di divisione e non è solo la polemica nei confronti del giudaismo, ma anche la polemica del racconto della samaritana che è peccatrice, di un altro popolo, eretica, ma parla con Gesù. Non è che si capiscano però si incontrano.

Questa cosa mi faceva molto pensare perché io credo che questo sia un altro tema molto attuale ed è anche nostra l’angoscia sulla religione come elemento che divide e l’ansia di quasi farci perdonare per essere credenti.

Poi segue la grande visione dei testimoni che sono due: i due olivi e le due lampade che stanno nel tempio. Sono a fronte di Dio ma anche degli esseri umani.

C’è qui tutta la questione dei quarantadue mesi cioè milleduecentosessanta giorni e poi dei tre giorni e mezzo in cui stanno insepolti.

“Calpesteranno la città santa per quarantadue mesi ma farò in modo che i miei due testimoni compiano la missione per milleduecentosessanta giorni” che sono sempre quarantadue mesi, che sono sempre tre anni e mezzo. E dopo si parla di tre giorni e mezzo.

Giovanni ci ha causato il problema che Gesù risuscitò dopo tre giorni e per tutte le pasque ci poniamo la domanda di quanto sia effettivamente il tempo dalla morte alla risurrezione.

Nel racconto della passione Giovanni ingarbuglia con la cronologia per far stare Gesù sepolto tre giorni e mezzo, il tempo in cui i cadaveri dei testimoni sono esposti.

Perché questa ossessione? Perché Giovanni ragiona con la misura del tempo di Dio che è la settimana, sempre sette, il tempo della creazione. E il settimo giorno Dio si riposò. Dunque sette giorni è l’attesa messianica. Alla fine dei sette giorni c’è il compimento del regno. Tutta la storia è sette giorni (il tempo pasquale per noi è sette settimane, segno che tutto il tempo della storia è sotto la pasqua).

Per Giovanni funziona che mezza settimana, mezza storia spetta a Israele, l’altra mezza alla chiesa, perché in mezzo c’è la novità storica di Gesù. Dunque tutto quanto riguarda questa questione è sempre tre giorni o tre anni e mezzo, è sempre metà. E tutto ciò che riguarda l’economia antica, per esempio la discesa di Gesù agli inferi, è tre giorni e mezzo.

L’idea di Giovanni è che Gesù scende al centro della storia, fa da divisione.

I due testimoni sono chiaramente Mosé ed Elia, quelli della trasfigurazione, la legge ed i profeti. Sono due testimoni vestiti di sacco come Giovanni Battista, hanno la capacità di aprire e chiudere il cielo perché scenda o no la pioggia che è il miracolo compiuto da Elia e di trasformare l’acqua in sangue, miracolo di Mosè in Egitto. Mosè ed Elia che nella tradizione ebraica non sono morti, sono rapiti in cielo e torneranno con il Messia.

Qui invece i due vengono uccisi, restano insepolti e poi una potenza che viene da Dio li rianima.

Giovanni li toglie dal ruolo che nella tradizione ebraica hanno, di accompagnare dai cieli tutta la storia fino al Messia e li mette nella posizione analoga a Giovanni Battista; li ricolloca: sono precursori, eccezionali, ma in fondo muoiono come tutti e solo da Dio viene loro un’eventuale risurrezione. Li rimette esattamente nella posizione in cui la tradizione colloca Giovanni Battista.

Essi danno una testimonianza ma non si capisce a che. Vengono ammazzati e rimangono alla pubblica riprovazione, sono profanati, uno dei peccati più gravi per il mondo ebraico, però dopo tre giorni e mezzo hanno una vera e propria resurrezione.

A questo punto avviene un terremoto, lo stesso segnale di quando Gesù muore. Il terremoto è il segno che si è raggiunto l’acme e dopo comparirà la settima tromba.

Queste sono le visioni, esaminate una per una. Che cosa si può dire del percorso, qual è l’atmosfera dell’opera? Con una libera traduzione dirò che ci sono elementi della storia che ne fanno una situazione agonica, e non dipendono dalla libera scelta responsabile. E questa situazione agonica gioca sulle dimensioni profonde dell’esistenza: la violenza, l’orgoglio, la morte spirituale, non su piccole cose. Non accade che ci si distragga un attimo e ci si trovi nelle truppe del demonio.

Bisogna seriamente giocarsi da una parte o dall’altra in questa vicenda nella quale ci sono tanti modi in cui un angelo può apparire con un piccolo libro; cioè ci sono tante cose che possono aiutarci e tutto ciò che ci dà prospettiva va bene, ma resta amaro nelle viscere.

Secondo Giovanni tutto ciò che può aiutarci ma non è ancora il Cristo è dolce come il miele, ma in fondo è amaro e non risolutivo. C’è un dovere di misura, un discernimento da compiere: il riconoscimento di da che parte stanno le truppe di Dio, dov’è il tempio, quale tempio si riconosce nella storia.

Questo è compito nostro. Noi non decidiamo della storia, ma ci viene dato un criterio per misurarla. Non tanto porci domande, chiederci tanti perché, non tanto mettere in discussione la tonalità agonica dell’esistenza, quanto esercitare la misura di giudizio, di discernimento.

E qui sarebbe interessante soffermarsi a riflettere perché in questo tardo novecento abbiamo rovesciato un po’ la questione, per cui siamo molto bravi a discutere sui problemi generali, ma poco capaci di esprimere giudizi senza che questi siano necessariamente una violenza.

Sull’esercizio del discernimento ci sono dei testimoni: la legge ed i profeti. Non siamo abbandonati a noi stessi. C’è un percorso possibile di testimonianza, ma non bisogna illudersi che questa testimonianza sia riconosciuta. La bestia sale dall’Abisso e li uccide ed i loro cadaveri sono profanati.

Leggiamo la settima tromba che è il compimento del mistero di Dio e che sposta totalmente lo scenario, perché le cose vere che devono accadere accadono in cielo e ciò che abbiamo visto fino ad ora è invece quanto succede sulla terra.

“Il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti che dicevano:
Il regno del mondo
appartiene al Signore nostro e al suo Cristo:
egli regnerà nei secoli dei secoli”.
Allora i ventiquattro vegliardi seduti sui loro troni al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo:
“Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente, che sei e che eri, perché hai messo mano alla tua grande potenza,
e hai instaurato il tuo regno.
Le genti ne fremettero,
ma è giunta l’ora della tua ira,
il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa ai tuoi servi,
ai profeti e ai santi e a quanti temono il tuo nome,
piccoli e grandi,
e di annientare coloro
che distruggono la terra.
Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine”.

La misura del tempo diventa infinita, si apre, si vede l’arca dell’alleanza la cosa più proibita e c’è e il coro nel cielo che dice: “é stato instaurato il tuo regno”. E’ esattamente la scena finale delle trombe, e si comprende che le cose serie avvengono in cielo. In terra si combatte ma in cielo si vede come va a finire.

Giovanni con questo è arrivato a imbuto al cuore della scena, che seguirà: la visione della donna e del drago, l’annuncio cristologico. Ha descritto la vita che viviamo, la fenomenologia della storia umana.

Per noi è un testo strano, perché siamo costretti a ricostruire tutta una serie di elementi che per lui erano un dato quotidiano. Giovanni è uno che sicuramente possedeva una profonda conoscenza del giudaismo, era colto, aveva in mente una serie di questioni legate al tempo, al mondo greco e faceva parte di quella cultura. Per lui e per i suoi lettori l’immagine del tempio era assolutamente immediata.

Intervento: un libro del genere presupponeva, in quegli anni, una realtà religiosa e politica molto forte, quindi la lotta tra comunità cristiana e giudaismo poteva portare a scontri molto forti?

Certo, i cristiani avevano il problema di distinguersi da quelli che li definivano ebrei eretici e dovevano spiegare che non erano eretici, ma erano invece degli altri. Tra l’altro lo dovevano spiegare anche a se stessi perché non è che fosse così automatica la questione anche per loro.

Intervento: questo aveva senso solo in Palestina?

Dappertutto, perché il giudaismo era relativamente conosciuto nel mondo mediterraneo ed era come oggi che, in modo generico, si dice: ci sono induisti, buddisti, islamici, ma non significa essere esperti. Infatti se qualcuno chiede la differenza tra gli uni e gli altri si va in crisi.

Se ci mettiamo dal punto di vista di un romano, che aveva ben chiara la differenza tra i culti di Mitra ed i culti giudaico-palestinesi, un cristiano poteva sembrare più o meno un ebreo.

Il problema dei cristiani è che, volendo espandersi, dovevano chiarire molto fortemente qual era la loro differenza rispetto all’ebraismo. Quando arrivano in Grecia e a Roma devono spiegare perché non sono più o meno degli ebrei, ma sono invece un’altra cosa.

Intervento: quindi sono le religioni che dividono?

O che individuano. Questo era il mio pensiero. Noi oggi siamo terrorizzati da una religione che divide…

Intervento: perché in effetti dividono!

Forse invece individuano e noi non sopportiamo più di essere individuati e di individuare nel senso di fare di ognuno un individuo diverso da un altro.

Intervento: forse è un effetto secondario non voluto essere individuati.

Forse che dividano, invece, è un effetto secondario non voluto, e oggi dividono molto meno che non duecento anni fa, quando era un sacro motivo uccidere per motivi religiosi e tendenzialmente era premiato. Per lo meno oggi non ci ammazziamo più. E’ pur vero che non è nemmeno bello litigare però tra litigare ed ammazzarsi meglio litigare, almeno l’altro resta vivo.

Noi abbiamo un terrore molto forte della divisione ed attribuiamo ad essa molto facilmente il dato religioso mentre tendiamo a non applicarla con la stessa forza ad altri fatti. Ad esempio la povertà e la ricchezza dividono molto più che individuare perché non individuano per niente.

Intervento: comunque non è detto che la divisione nella religione non sia una falsa divisione e la divisione sia quella del ricco e del povero.

Intervento: le grosse tensioni, le grosse divisioni avvengono quando ci si avvicina sempre di più perché ogni piccola cosa diventa un problema.

Perché è una falsa vicinanza, non si è individuati, ci si è solo accostati. Questo, secondo me, oggi è uno dei problemi serissimi del cristianesimo in generale, che ha un’autoindividuazione di sé ormai bassissima. E’ vero che in fondo tutti crediamo in un Dio, che ci crediamo in modo diverso, però in fondo tutti sono abbastanza d’accordo sull’amore, ma se io dico di amare il tuo nemico e tu di non pestare le formichine non è uguale.

Nelle beatitudini, quando si legge: “Beati voi quando falsamente vi accuseranno”, dico sempre che questa beatitudine evangelica vale a patto che sia falsamente, nel senso che se ti accusano di aver sbagliato, e ciò è vero, non sei beato.

Se uno dice: “Ho fatto del bene e adesso mi viene solo ingiustizia e non è giusto”, secondo il Vangelo, invece, è giusto così. Nella sequela del Maestro se tu sei un vero cristiano devono dire falsamente che tu sei colpevole. Il cristianesimo ha una tale potenza dirompente che non può essere politically correct.

La predicazione della croce divide nel senso che individua. Di fronte alla croce non si possono contare storie. Ci si mette da una parte o dall’altra.

Intervento: ho l’impressione che a forza di essere ecumenici, tolleranti, corretti, di negare la diversità, diventa impossibile incontrarsi se ciascuno non sa più esattamente che cos’è.

Per tornare al tema, Giovanni ha un problema molto serio di polemica antigiudaica, ma non ha un problema di antisemitismo. Deve individuare il cristianesimo rispetto ad un’altra tradizione religiosa. Quindi deve spiegare che cosa il cristianesimo ha di diverso e di più: se il tempio ebraico tagliava fuori l’atrio, il cristianesimo lo accoglie.

Intervento: a me pare che l’Apocalisse sia più allineata con la cultura del suo tempo, evoca immagini del mondo mediterraneo; mentre il cristianesimo era più dirompente, più diretto. Il Cristo aveva un linguaggio più vicino a noi.

Su questo non sarei d’accordo. Sono due piani diversi. Se la mettiamo sul piano letterario l’Apocalisse è un testo colto e i Vangeli sono un testo popolare.

Tra l’Apocalisse ed i Vangeli esiste la stessa differenza che c’è tra la pastorale di Beethoven e le canzoni del festival di Sanremo. La differenza è strutturale. Una canzone si orecchia subito, una sinfonia richiede tempo. Non è questione di una lettura riservata a pochi o di una adatta a tutti. L’Apocalisse ha una struttura comunicativa complessa, i vangeli hanno una struttura comunicativa semplice. Entrambi stanno nel canone, ma sull’Apocalisse si è molto discusso se inserirla o no nel canone. Sono due livelli molto complementari.

Il Vangelo, come tutta la letteratura popolare, dice cose belle e vere e in sé tendenzialmente inutili, come i proverbi della nonna: ce n’è sempre uno che va bene, ma rispetto alla realtà non si è detto ancora nulla.

L’Apocalisse è un’operazione molto più coraggiosa ed è il tentativo di inculturare un principio bello e vero come quello dell’evangelo articolandolo su un’analisi storico-politica. Questo è uno dei motivi per cui si è molto discusso se inserirla nel canone e secondo me è bellissimo che ci sia perché legittima l’operazione di inculturare in modo storico-politico le cose, sapendo che dopo un certo numero di anni non ti capiscono più. Però legittima la possibilità di inculturare, il che non è poco altrimenti il cristianesimo sarebbe una raccolta di proverbi. Il Vangelo è l’annuncio familiare della risurrezione. A quelli che sono stati con Lui è proprio uscito dal cuore.

Giovanni invece già si pone molto di più il problema di chi avrebbe avuto bisogno di essere raggiunto nel suo cuore attraverso la mediazione della sua vita.

Il Vangelo ragiona da dentro ad un innamoramento: se ci si chiede i motivi per cui si sta con una persona da x anni, può essere facile o difficile trovarli a seconda dei momenti della vita, ma si ha una serie di dati, di ragionamenti proprio perché si è lì. Diverso è quando non si sta con quella persona e si teorizza ragionando se tale persona potrebbe essere quella con cui provare a vedere se, oppure no.

Perché l’uno parte da una vita che è già evangelica, nella quale si tratta solo di dire e viene fuori quello che è la vita; l’altro ha il problema di chi non possiede una vita evangelica e deve essere raccolto dentro la sua vita per poter incontrare questa cosa. E’ diverso.

Intervento: in parte un lavoro del genere è stato fatto da S. Paolo?

Non tanto. Paolo è un grande organizzatore della vita delle chiese ma ancora tutto dentro la prima generazione. Giovanni è il primo a porsi il problema di coloro i quali non avranno conosciuto né Cristo né gli apostoli. Dunque, in qualche modo, bisogna partire esistenzialmente, cioè partire da ciò che questi sentono della loro vita, della storia che vivono e da lì far loro capire che vale la pena.

La direzione, quindi, di Paolo e di Giovanni è opposta.

Intervento: pensavo a chi parla per esperienza vissuta ed a chi invece parla per esperienza non vissuta, che in effetti poi è il grosso dilemma del chi sta dentro e chi sta fuori…

Dato che entrambi i testi stanno nel canone la questione non è star dentro o fuori, non è importante da quale parte ci arrivi.

Per me è molto importante che l’Apocalisse sia stata accettata dal canone perché il fatto che nel canone siano riconosciuti come testi ispirati tanto il Vangelo quanto l’Apocalisse, significa che o tu ci caschi dentro e poi ti chiedi dove sei finito, oppure tu hai i tuoi problemi, qualcuno te li spiega e ti dice, partendo da quelle cose che per te sono importanti, che tu potresti interessarti a questa cosa. Ma che tu ci arrivi da una parte o dall’altra va bene comunque. E questa è una grande libertà del cristianesimo.