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L’Apocalisse (IX)

Gruppo del venerdì
Gennaio 2000

La volta scorsa abbiamo finito il settenario delle trombe. Ora incominciamo la parte centrale dell’Apocalisse che, a parer mio, è bellissima.

Se fino a qui siete riusciti ad entrare un po’ nell’atmosfera, nel quadro, nelle immagini, nel modo di ragionare di Giovanni, vedrete che questa parte è proprio il cuore. I capitoli sono il dodici, il tredici e il quattordici.

Più volte abbiamo detto che nell’Apocalisse Giovanni procede con delle spirali che si restringono e poi si riallargano con la negazione della sinagoga, del giudaismo e poi con l’allargamento all’universalismo, con la negazione delle forme concrete, storiche di potere politico e con il discorso sul regno.

Di fatto, se lo ricordate, il settenario delle trombe sviluppava i temi dell’ultimo sigillo riprendendo i quattro cavalieri; adesso il settenario delle coppe sviluppa i temi dell’ultima tromba. Ogni gruppo riprende il tema precedente, riparte dal largo e concentra.

Dicevamo già l’altra volta che tutto va nella direzione dal più generico al più storicamente preciso e dal più metafisico, teorico, al più umano, antropologico, concreto. E concludevamo quindi che, in fondo, uno dei problemi di Giovanni è come raccontare questi avvenimenti a chi non ha fatto nella sua vita l’esperienza di Gesù, come spiegarli alle generazioni seguenti che avrebbero avuto i loro problemi, la loro vita, ma per le quali l’evento di Gesù sarebbe stato un dato storico e non esperienziale.

Perciò Giovanni parte dalla storia, dalla vita delle chiese delle quali prende i difetti tipici ed è come se qualcuno, spiegando una sua esperienza significativa ad un altro, partisse dai problemi che questi ha per mostrargli, un po’ per volta, come la stessa esperienza sia rilevante anche per lui.

Succede come quando ci sono poesie o canzoni che ci parlano immediatamente perché ci sentiamo esattamente dentro all’esperienza e ci sembra che le parole siano quelle stesse che noi avremmo usato se le avessimo trovate, e poi invece ci sono poesie in cui troviamo pezzi della nostra vita e scopriamo associazioni che non avevamo mai fatto. Il poeta riesce a farci sentire che cose nostre possono essere messe in un modo a cui non avevamo mai pensato.

Nella misura in cui si ha una comunanza di esperienza primaria è sufficiente che l’altro ci mostri l’esperienza, ma nel momento in cui la comunanza di esperienza non c’è, l’altro deve prendere pezzi della nostra vita, elaborarli per dirci che è esattamente la stessa cosa.

Il genere letterario dei Vangeli è invece quello di un racconto dal di dentro di chi, comunque, ha vissuto l’esperienza. I Vangeli sono, in qualche modo, la razionalizzazione di un’esperienza di cui si sa cos’è.

L’Apocalisse, a differenza dei Vangeli, è apparentemente più difficile, come genere letterario certamente, ma è più incarnata, ha una validità in qualche modo più universale, nel senso che non narra un episodio su cui si può anche fare della poesia, ma in realtà si ignora cosa poi volesse dire e cosa sia passato nella mente e nel cuore della gente.

L’Apocalisse è un libro moderno, da questo punto di vista, perché fa vedere la gamma di tutta una serie di tematiche umane che sono anche le nostre e, a fronte di questo, arriva al cuore, nel settenario delle coppe, in cui mostra l’evento della morte di Gesù.

In questo modo abbiamo visto tanti temi su cui abbiamo discusso: la fede che divide, non divide, l’individuazione….. Tra poco si arriverà alla questione del potere politico su cui sono sicura che ci infervoreremo per come Giovanni la pone, ma questo vuol dire che egli ha lavorato bene perché duemila anni dopo i parametri usati ancora ci coinvolgono.

A fronte di questo egli costruisce una grande spirale di tematiche universali che più o meno riguardano tutti e portano, secondo lui, alla morte e risurrezione di Gesù per dimostrare come essa sia importante.

Noi ora stiamo entrando nel punto in cui converge tutta questa prima parte.

Pensate alle sette cose rimproverate alle chiese (ci eravamo fermati particolarmente sulla tiepidezza) che sono, in fondo, difetti comuni riscontrati in noi ed intorno a noi, e poi ai vari temi: l’orgoglio, la violenza, la morte. Adesso arriviamo al dunque, con la delineazione della morte di Gesù e poi si allargherà in una prospettiva universale cui seguirà una ricaduta sui problemi iniziali.

Qui Giovanni, secondo me, dà il meglio di sé, nel senso che tutto il suo apparato culturale, simbolico, pittorico: i numeri, le immagini, le figure, il patrimonio dell’ Antico Testamento, viene messo in gioco per far vedere la centralità della morte di Gesù. E’ come se, a questo punto, mettesse in gioco tutti gli effetti scenici speciali, tutte le possibilità per fare il cuore del film.

La morte di Gesù è il centro, secondo Giovanni, perché è il giudizio di Dio sul mondo. E questo è il vero tema apocalittico.

Giudizio non nel senso di tribunale, ma l’atto di discernimento di Dio sulla storia, quella cosa che, in fondo, ciascuno di noi spera, e prega che i conti tornino e non sia stato inutile aver provato, secondo alcuni criteri, a mettere insieme la propria vita, con tutti i limiti ed i problemi. Non tanto, quindi, il giudizio di Dio sul mondo secondo l’immagine apocalittica incentrata su un criterio oggettivo, buoni e cattivi, ma secondo un’immagine pensata in termini soggettivi.

La morte di Gesù è il momento in cui Dio dice a ciascuno che i conti tornano. Fa tornare i conti di ciascuno e misteriosamente fa in modo che tornino quelli di tutti perché, secondo la dottrina cristiana, Cristo obbediente e morto, ha pagato il riscatto. Il Giusto ha giustificato tutti e dunque i conti tornano perché la disobbedienza originaria della storia è colmata nell’obbedienza originaria del Figlio. E’ come se fosse ricostituito il disegno originario, il paradiso terrestre.

Intervento: sarebbe che una cosa ha compensato l’altra?

Non è una compensazione. Qui il problema, non a caso, è grandissimo. Questo è uno dei testi su cui si è spaccato l’occidente.

L’immagine corretta è: ciò che era stato spezzato è stato ricomposto. Non c’è un pagamento. L’idea è che nel disegno originale di Dio era come se il peccato originale avesse fatto l’effetto di un pugno in un puzzle e tutti i pezzi fossero stati scomposti. L’obbedienza del Figlio ricostruisce il quadro perfettamente.

Esattamente la questione è: ma c’è o non c’è il paradiso? A noi non pare di vivere in un paradiso. Questa è la questione, il tema in Giovanni della situazione agonica della storia, storia che è una battaglia.

La ricomposizione è un appello nel senso che ricomporre il puzzle non è far funzionare le cose, ma far tornare i conti: viene richiesto a ciascuno, in modo significativo, da quale parte si mette.

Già dicevamo che noi non possiamo cambiare la storia: la storia è nelle mani di Dio (il male è superiore alla sola somma delle nostre responsabilità). Ma noi abbiamo un ruolo: metterci da una parte rispetto alle truppe angeliche che combattono in cielo. La ricomposizione del puzzle fa sì che ciascuno, per decidere da quale parte si mette, abbia un quadro chiaro, non tutti i pezzi sparsi.

Intervento: l’obbedienza di Cristo come si mette? E per la giustificazione ci possiamo riferire a san Paolo?

In entrambi i casi la citazione è di Paolo: è lui che parla dell’obbedienza di Cristo. Paolo la usa quando dice che Cristo è il nuovo Adamo e contrappone la disobbedienza di Adamo all’obbedienza di Cristo. Adamo non fa la volontà di Dio, Cristo sì (la volontà del Padre che mi ha mandato).

Questa espressione, però, ha un peso maggiore rispetto alla sua origine paolina.

L’obbedienza di Cristo sarebbe, traducendo in termini contemporanei, che Paolo non avrebbe usato, la perfetta corrispondenza di Lui a se stesso.

Poiché per la Bibbia il nostro più vero io per noi stessi è l’immagine di Dio che abbiamo in noi, l’obbedienza è l’obbedienza alla pienezza dell’immagine divina in noi, quindi la totale disponibilità alla nostra felicità possibile, alla pienezza del nostro desiderio, della nostra libertà, della nostra gratuità, della nostra potenza che è l’immagine di Dio in noi.

Il peccato è l’esperienza di stare sotto a questa totale identificazione di noi con noi stessi, ma dove il noi stessi non è l’autodefinizione che noi diamo di noi, bensì l’immagine di Dio che è in noi.

Cristo è pienamente obbediente perché è totalmente consono al desiderio di sé: essere il Figlio del Padre. Questo, detto così, è un po’ filosofico ma lo vedremo molto più chiaramente nella prima parte che stiamo per leggere.

L’altra questione sulla giustificazione è il tema che ha attraversato tutto il cristianesimo e che solo noi moderni consideriamo un po’ invecchiato, mentre invece bisognerebbe ricominciare a parlarne, ma non in termini medioevali per noi incomprensibili. Questa è una delle questioni decisive sulle quali il cristianesimo sta o cade perché lo fa lo diverso da altre esperienze.

Nel cristianesimo c’è il tema della giustificazione che significa: nessuno si salva da solo. Non è un problema di perfezionamento, né in senso positivo, diventare più bravo, più morale, né in senso negativo, tipo religioni orientali, diventare più distaccato, più vuoto.

In qualsiasi punto della scala di perfezione umana ci si trovi, e che è più o meno utile a noi come persone, nel senso che essere più disponibili, meno attaccati alle cose, più sereni, meno ansiosi fa bene a chiunque, in qualsiasi punto della scala dell’umana perfezione si è, ognuno è in Cristo giustificato.

Cioè da altrove ci viene la salvezza. L’occidente si è spaccato non tanto su questo significato, quanto sul come.

Tutti abbiamo studiato a scuola che i luterani dicono per sola fede ed i romani per fede ed opere.

I cattolici romani, molto antropologici nell’impostazione della fede, hanno l’idea che o essa ha carne o è fatta di pure parole. I luterani sostenevano che i cattolici si confondevano sul ruolo delle opere; effettivamente era proprio così soprattutto nell’ottocento. Le opere di per sé non danno la salvezza.

Intervento: ancora adesso si insiste sul ruolo delle opere!

Sì. Credo che nel nuovo secolo che ci attende la questione sia quella che Giovanni pone qui: non tanto né le opere concrete né un teorico sentire la fede, ma dalla parte di chi ci si mette nella guerra che la storia è.

E questa è una faccenda seria che cambia le vite. Non tanto perché si fa o no la carità, ma perché si imposta la vita in un altro modo, non ispirata dall’idea di fare alcune cose piuttosto che non farne altre.

Capitolo XII

Qui ci sono le visioni più famose dell’Apocalisse. Questo insieme del settenario delle coppe è una costruzione letteraria molto complessa ed è inutile spiegarla tutta perché è composta da molti quadretti da vedere una alla volta. Ci soffermiamo su una serie di tornanti, immagini, segni e poi alla fine tireremo qualche conclusione.

“Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:

“Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato
l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell’Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
Esultate, dunque, o cieli,
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi terra e mare,
poiché il diavolo è precipitato sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo”.

Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acque dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.

Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.

E si fermò sulla spiaggia del mare.”

Capitolo XIII

” Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande. Una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita.

Allora la terra intera presa d’ammirazione, andò dietro alla bestia e gli uomini adorarono il drago perché aveva dato il potere alla bestia e adorarono la bestia dicendo: “Chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?”.

Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi. Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere contro ogni stirpe, popolo, lingua e nazione. L’adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato.

Chi ha orecchi ascolti:
Colui che deve andare in prigionia,
andrà in prigionia;
colui che deve essere ucciso di spada
di spada sia ucciso.
In questo sta la costanza e la fede dei santi.

Vidi poi salire dalla terra un’altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago. Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita. Operava grandi prodigi, fino a fare scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le era permesso di compiere in presenza della bestia, sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia. Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei”.

Questa è la grande visione veramente spettacolare in cui Giovanni dà fondo a tutte le reminiscenze e le citazioni dell’Antico Testamento.

Ad una prima lettura si ha l’impressione di non capire niente ma l’idea è che, se si è entrati un po’ nel ritmo e nella logica, poi, con due o tre chiavi di lettura, e lo si trova bellissimo.

E’ una sintesi estremamente complessa in cui Giovanni riesce a dire tutte le sfumature di una situazione reale.

Innanzitutto inizia dicendo: “Nel cielo apparve poi un segno”.

Non si parla più di visioni, da qui in poi sono segni che, nel linguaggio di Giovanni, indicano sempre gli interventi di Dio nella storia.

E’ come se tutta questa grande battaglia, la grande questione che viene messa in campo, fosse comunque segno di un gesto di protezione di Dio che anima la storia di tutta la sua libertà.

Naturalmente sto traducendo in linguaggio del novecento, che Giovanni non avrebbe mai usato, ma è come se il grande segno di tutto sia l’assoluta soggettività che Dio riconosce alla storia e, addirittura, al male, alla possibilità che la libertà non sia una falsa libertà, ma una libertà tra alternative reali.

E dunque, di fronte ad essa, questo è il segno che Dio dà: mettere il proprio amore nella libertà della storia. Questa, peraltro, è la legge fondamentale di qualsiasi amore perché diventi una storia: mettere se stessi nelle mani dell’altro. Questa è la vera questione seria di donazione nell’amore.

Dio pone la soggettività della storia nelle mani della storia.

Appare questo primo segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Spesso qui si interpreta come fosse Maria.

Questa interpretazione è poetica, ma non direttamente sostenibile: nella lettura popolare le dodici stelle sono gli apostoli; la luna non si sa bene perché, ma è un simbolo femminile arcaico in tutte le culture, e quindi va sempre bene. Poi si incomincia a fare le statue della Madonna con la luna, il serpente che è il drago, e si identifica Maria con quella immagine.

Secondo la tradizione, fin dai primissimi anni, Maria ha partorito senza dolore e dunque il gridare per il travaglio del parto non può essere attribuito a lei. E’ un’incongruenza fondamentale, che per Giovanni era molto chiara e quindi non avrebbe mai indicato Maria con questo segno.

Giovanni ha dietro tutto l’Antico Testamento, in cui l’immagine della donna è Israele, è la terra, la storia, l’umanità. Nell’Antico Testamento la donna è sempre il partner di Dio, quindi chiaramente in quel tempo rappresentava Israele, ma alle origini è l’umanità intera, quella che Dio si sceglie.

E’ chiaro che una prima fase accade in cielo dove c’è il preannuncio della puntata: si vede quello che accade.

In questa fase, invece, c’è l’umanità nel travaglio del parto per dare alla luce il figlio, se stessa come figlio di Dio, ed il figlio le è rapito, cioè non si sa ancora se ce la fa o no, perché non è un atto biologico immediato.

Partorire la verità di noi stessi, e che l’umanità si partorisca come figlio di Dio, è frutto della storia, non è alle origini. La storia è il travaglio del parto e il figlio viene dunque rapito.

La prima immagine è che la donna viene precipitata sulla terra e mandata nel deserto: la storia ha inizio.

Questo è Genesi fino alla storia dei patriarchi, cioè l’uomo è dotato della possibilità di partorire se stesso come figlio e gli viene data la storia che è un deserto, immagine chiarissima per l’Antico Testamento, molto ambivalente in quanto immagine di pericolo, ma anche dei grandi incontri del fidanzamento con Dio, della seduzione che Dio compie nei confronti della storia. Però è un tempo dove si rimpiangono le cipolle d’Egitto, un tempo di transizione tra la libertà e la terra promessa.

Per un lettore ebraico il deserto ha questa immagine ricchissima: è il tempo in cui Dio parla, protegge con la nube e la colonna di fuoco, ma anche il tempo delle tentazioni, dei serpenti, delle acque amare. E’ il tempo della storia con la sua ambiguità. Questo è il primo segno in cielo: la donna con il dolore del parto, la storia che partorisce se stessa.

Siamo in cielo: è il disegno di Dio, non è ancora accaduto niente. E’ la mente di Dio, diremmo noi oggi con il linguaggio psicanalitico.

E c’è il dragone, il male, la possibilità che questo parto sia un aborto perché il drago vuole divorare il bambino; la possibilità che il partorire se stessi abbia un pessimo esito. L’immagine è tipica della cultura in cui Giovanni sta: il drago tremendo vuole ingoiarsi il bambino, la vita nascente.

Chiunque di noi lo leggerebbe in chiave psicanalitica, non mitologica: chi di noi non ha mai fatto l’esperienza, dopo i quindici anni, di tentare di partorire il nuovo di sé ed avere la sensazione che dentro di sé una parte fosse lì pronta a divorare il nuovo, dando ansia, paura, incertezza, indecisione. Ed è vero che in questi tempi ognuno di noi sa bene che tanto la fatica ed il travaglio di partorire il nuovo della propria vita quanto la bestia che vuole mangiarsi la novità gli appartengono ma sono cose ben distinte.

A quel punto la donna viene precipitata in terra.

La donna è salvata dandole la storia. L’umanità è salvata perché le si dà abbastanza tempo per imparare a partorire se stessa. Anziché solo in cielo, la battaglia è nella storia, deserto ambivalente, con rischi e problemi, ma con la provvidenza di Dio, perché presentato sempre come rifugio in cui si ha il tempo di partorire fuori dalla bocca del drago.

A quel punto la donna fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio e scoppiò una guerra nel cielo: Michele (in ebraico “chi combatte come Dio”) e i suoi angeli combattono, vincono, ma non stravincono.

Sono le battaglie della vita che lasciano sempre insoddisfatti. Pensiamo alla lotta tra Giacobbe e l’angelo che sicuramente Giovanni aveva in testa: l’angelo dice – mi hai vinto — però non si capisce chi ha perso e chi ha vinto. Giacobbe esce sciancato ed all’angelo viene estorta la benedizione che non voleva dare.

Le guerre di Dio funzionano così, come le cose che succedono nella vita.

Nelle cose vere raramente si vince o si perde come nei film americani. Si vince ma non si è totalmente soddisfatti, si perde ma non si è totalmente distrutti. Si combatte una guerra angelica molto reale e quello che gli angeli ottengono è che non c’è più posto in cielo per il drago. La battaglia in cielo è decisa. Il cielo ha vinto una volta per tutte e c’è solo più posto per Dio.

Ma il drago viene precipitato sulla terra.

La battaglia si sposta: dalla proiezione del disegno di Dio diventa la battaglia della storia.

Intervento: il precipitare della donna non potrebbe essere interpretato come la cacciata dell’uomo ?

Certamente vi è l’immagine del peccato originale, del racconto creaturale, cioè del grande disegno di Dio che viene spezzato. Però è molto interessante in quanto Giovanni non fa pensare ad un vero e proprio castigo come in Genesi: la cacciata, l’angelo con la spada di fuoco. Qui vengono in mente un castigo ed una chance, cioè è tanto un castigo quanto una possibilità, perché Dio aveva preparato per la donna un rifugio nel deserto.

Nella sostanza è la stessa idea di Genesi in cui la scelta di vocabolario e di struttura preme di più sull’immagine del castigo perché è stata scritta prima di Gesù Cristo. In Apocalisse Giovanni ha già in mente che la salvezza di Dio si è realizzata, non è una generica attesa del Messia. Egli sa che cosa è l’esperienza di Gesù, quindi può bilanciare meglio l’immagine del castigo e, come dirà Agostino, di una “felix culpa”, la colpa che ci ha meritato un tale Salvatore. Dunque, dice Agostino, meno male che c’è stato il peccato originale.

Quindi questa battaglia in cielo costituisce la soggettività della storia che ci meriterà il Cristo. La battaglia angelica scatena sulla terra il pandemonio, ma in cielo si intona il canto di vittoria: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, cioè è stato precipitato colui che accusava i nostri fratelli davanti al nostro Dio giorno e notte”.

Giovanni ha in mente l’immagine di cielo degli ebrei, che non è il paradiso come pensiamo noi. Per Giovanni, come per tutti gli ebrei, il cielo è il luogo delle corti angeliche con gli angeli di ogni nazione. Il cielo è un parlamento, dove la maggioranza di Dio è risicata perché c’è sempre la minoranza del dragone che accusa, che su ogni cosa interviene e rischia di far perdere il premierato a Dio. Allora cosa succede ?. Succede che tutti si mobilitano e non c’è più spazio per il dragone. E’ una rivincita: il dragone è precipitato sulla terra, fuori dal parlamento celeste e la maggioranza è assoluta.

Dopo il canto di vittoria il drago e la donna si trovano entrambi sulla terra, però la storia è segnata dal fatto che gli angeli malvagi e bellissimi sono sulla terra con l’umanità e dunque la terra diventa luogo di battaglia che si è spostata dal cielo.

Sulla terra alla donna vengono date le due ali dell’aquila per fuggire nel deserto. Le due ali sono la legge ed i profeti. Mentre nella prima parte abbiamo visto la creazione, in questa vediamo dunque Israele, l’alleanza.

Alla donna occorre qualche aiuto in più: se prima dal cielo bastava farla scappare giù, ora, se il drago sta sulla terra con lei, è meglio rinforzarla un po’.

Allora Giovanni fa il quadro dell’antica alleanza: le due ali dell’aquila, la legge e i profeti, conducono la donna. Poi c’è l’acqua dell’Esodo, del Mar Rosso, non l’acqua del battesimo che è l’acqua della vita. Ed avviene lo stesso miracolo: il drago sbatte l’acqua, la terra si apre, come si dice nell’Esodo, l’acqua precipita affinché la donna possa camminare all’asciutto.

” Allora il drago s’infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio”, cioè contro coloro che hanno accolto la testimonianza della legge e dei profeti, contro la discendenza terrena della donna.

Il drago allora va in giro per il mondo: “E si fermò sulla spiaggia del mare”.

Qui Giovanni ha un colpo di genio. Nella testa di un buon ebreo, la spiaggia del mare sarebbe tipo le colonne d’Ercole: tutto è finito lì. Ma la battaglia in terra non può essere così impari: il dragone contro la storia, perché vince il dragone. Non può essere che il dragone, nella pienezza della sua manifestazione, quella che sta in cielo, sia colui che combatte con gli uomini, altrimenti non c’è speranza, neanche con l’aiuto delle due ali d’aquila.

Allora il dragone, fermo sulla spiaggia del mare, trasferisce i suoi poteri alle due bestie, che non sono non più draghi: l’una viene dal mare, l’altra viene dalla terra.

E’ il male diminuito, storicizzato, mai assoluto. Non si incontra la cattiveria del demonio, ma piuttosto persone cattive. Non si incontra mai l’assolutezza totale, il drago; si incontrano le bestie che non scherzano, ma che, comunque, sono un’altra cosa perché in terra non c’è Michele che può combattere con il drago, ma c’è solo la donna.

Sulle bestie faccio una specie di riassunto. Innanzitutto esse sono in diretto collegamento con il dragone, non sono un’altra cosa, e per Giovanni rappresentano: quella che viene dal mare il potere politico, quella che viene dalla terra il potere religioso corrotto, la possibilità di usare la religione come male.

Questo è il problema di Giovanni e peraltro è anche il nostro problema.

Nonostante la nostra interpretazione intimista del cristianesimo, il male dei singoli non perde la storia, al massimo perde i singoli. Ma c’è un male pubblico comune, quello che perde la storia. E qui, secondo me, ci sarebbero domande da farsi nel senso di pensare a come si combattono queste bestie.

Se ci si mette dalla parte di Dio, a fronte del capitolo 13 dell’Apocalisse, non si può pensare che l’unica questione sia fare alcune opere buone. Indubbiamente le opere buone fanno del bene alla nostra stessa vita, ma c’è un tema di salvezza della storia che va affrontato: bisogna mettersi da una parte di questa battaglia, non si può essere neutrali, non esiste la possibilità di dire: di religione e di politica io non mi interesso.

Nell’Apocalisse ci sono alcuni criteri molto chiari.

Certamente Giovanni aveva in testa alcune questioni, per esempio politiche tipiche del suo tempo, e sicuramente l’impero romano, ma il fatto che lo avesse in testa non significa che qui parli dell’impero romano; vuol dire che sta cercando un criterio utile nel suo tempo, ma estensibile anche in altri tempi.

Giovanni non pensa che l’impero romano sia il grande male, ma che il potere politico, quello che noi oggi definiremmo la gestione comune, sia una delle grandissime possibilità di perdere la storia. E la storia del novecento, come la storia di altri secoli, ci ha mostrato che non è andato poi così lontano dal vero. E’ raro trovare un tempo nella storia di cui si possa dire: così non è andata.

La bestia che viene dal mare e rappresenta il potere politico ha come caratteristica sostanzialmente la bestemmia.

Il criterio che Giovanni dice più volte è che questa bestia si riconosce per le parole false. Essa non mente, bestemmia le parole contro Dio.

Penso che su questo testo, se ben compreso, si potrebbero fare molti esami di coscienza sulla società dell’informazione attraverso ragionamenti proprio seri.

La seconda caratteristica di questa bestia, che per Giovanni è il potere politico, è la richiesta di adorazione, cioè il fatto di diventare totale, assoluto, che può essere totalitario, totalizzante non solo in senso politico, ma totalizzante nella vita di qualcuno. A tanti livelli si può leggere questa caratteristica.

Un altro aspetto interessante è che una delle teste della bestia figura del potere politico sembrò colpita a morte ma la sua piaga mortale fu guarita.

E’ una bestia che ha molte vite, difficile da colpire a morte perché si presenta in varie forme.

Intervento: anche la non democrazia può diventare una bestia totalizzante.

Infatti la chiesa non funziona secondo la logica di questo genere.

Sto tentando di dire: attenzione alle identificazioni troppo facili, nel senso che dire che il nazismo è una forma di questa bestia arriviamo tranquillamente perché è molto evidente, ma non solo il nazismo.

Qui, quando si dice che la testa colpita a morte fu sanata, si dice quello che Bonhoeffer chiama “la grande mascherata del male”; cioè la possibilità di ogni potere politico di diventare una forma idolatrica, che è praticamente infinita.

E quando egli, nel suo “Dieci anni dopo” scritto nel 1943, dieci anni dopo la salita al potere di Hitler, scrive che lo turba molto l’idea che i cristiani siano così ciechi, loro che dovrebbero essere gli unici attrezzati a riconoscere la grande mascherata del male, perché dovrebbero sapere quanto meno che il male si maschera, ci dice qualcosa che va al di là di quel momento storico. Ci dice che c’è un percorso di discernimento che richiede una serie di elementi.

Intervento: il potere politico si intende abbinato al potere economico?

Certamente. All’epoca di Giovanni la distinzione non c’è. Oggi è chiaro che sono poteri sinergici, ma non identici. Quello dell’informazione è un altro potere sinergico al potere politico-economico, non necessariamente identico. Oggi per noi, ovviamente, questi poteri sono molto più articolati, ma ci sono alcuni criteri che Giovanni può dare.

Poi c’è la bestia che viene dalla terra, è simile ad un agnello ma parla come un drago, esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia. Opera grandi prodigi, seduce gli abitanti della terra e li convince ad erigere una statua alla bestia venuta dal mare.

E’ la struttura di applicazione religiosa della prima bestia. Essa rappresenta il potere religioso corrotto cioè la possibilità di usare male la religione.

Anche qui è molto facile pensare a tutte le compromissioni della chiesa con i poteri temporali.

Intervento: Giovanni aveva già in mente i vari poteri della chiesa ?

Lui ha in testa la sinagoga, però la sua capacità è proprio di vedere e mostrare come questo sia un meccanismo che funziona sempre.

Giovanni poteva, come Paolo nella lettera ai Romani, scrivere in modo diretto: “Voi siete l’olivo, noi l’olivastro, ma siete stati privati della promessa.”

Noi oggi abbiamo difficoltà a leggere questa lettera in presenza di ebrei perché corriamo il rischio di antisemitismo. Giovanni invece, avendo di fronte l’esperienza della sinagoga, come ha di fronte l’impero romano e non il nazismo, ha la capacità di vedere quali sono i criteri contro cui ci si troverà a sbattere da qualunque parte, forse compreso il cristianesimo.

Questa seconda bestia opera grandissimi prodigi fino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. E qui un buon ebreo pensa immediatamente al primo libro dei Re capitolo 17 ed ai sacerdoti di Baal, il segno dell’idolatria e la sfida degli idolatri. Però ci sarebbe pure da chiedersi se mettere un milione di persone in piazza sia oggi una sfida idolatrica o no. C’è da chiederselo.

“Per mezzo di questi prodigi sedusse gli abitanti della terra….. Le fu anche concesso di animare la statua della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia. Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio”.

Questo del marchio è il motivo per cui agli ebrei nel ghetto fu imposta da Paolo IV la stella gialla, il marchio della bestia, ed è il motivo per cui agli ebrei fu lasciata come unica possibilità professionale il commercio. Chi portava il marchio della bestia poteva solo comprare e vendere, non possedere.

L’interpretazione di questo passo era stata piuttosto pesante. Il marchio quindi veniva dai ghetti, da Paolo IV il quale, paradossalmente, aveva così regolamentato la violenza che stava massacrando gli ebrei in tutta Europa. L’antisemitismo popolare era molto diffuso. Egli creò i ghetti per proteggere gli ebrei e perché avessero un posto in cui alla sera non li ammazzassero tutti. Non solo, ma siccome venivano molto puniti economicamente, espropriati e derubati perché considerati deicidi, egli fece questa legge e, appoggiandosi al testo scritturistico, pensò che non potendo possedere terre ed immobili, nessuno avrebbe più potuto derubarli.

Il capitolo XIII si conclude quindi con la frase:

“Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei”.

La prima questione è: perché seicentosessantasei che non è affatto un numero tradizionale del mondo ebraico?. A differenza delle tre settimane e mezzo, che proviene da Daniele, questo sbuca così.

La seconda: cosa vuol dire che questo numero è un nome d’uomo?.

Qui c’è una duplice questione: quella del numero e quella del fatto che questo numero sarebbe un nome d’uomo.

Con la traslitterazione numerica greca, Giovanni pensava e scriveva in greco, il 666 diventa di fatto il nome del gigante Titano e già sarebbe una bella idea in quanto Giovanni fa confluire tutta la mitologia dell’Antico Testamento usando anche tanti segni del mondo ellenistico e introducendo Titano come simbolo dell’orgoglio. Peraltro in ebraico Titano è Goliat, il progettista della torre di Babele.

Da una parte l’ipotesi, non sensazionale, ma abbastanza sensata, è che Giovanni avesse in mente l’indicazione del tema di orgoglio. La donna, il parto nel cielo, la fuga nel deserto, la lotta angelica, il drago, la battaglia spostata sulla terra tra la progenie della donna, (l’umanità), e le due bestie, (i mali possibili, potere politico e potere religioso). Allora il nome della bestia sarebbe orgoglio. Non si farebbe fatica a capire.

Dall’altra parte ci sono calcoli più complessi di origine ebraica.

Corsini propone quello complicato di seicentotrenta più trentasei. Sei è il numero dell’uomo; trentasei l’uomo elevato a potenza. Seicentotrenta sarebbero sempre i quarantadue mesi di prima. Allora sarebbe la totalità della storia più la soggettività umana a potenza.

Chiaramente, comunque, il tema seicentosessantasei è un tema di potenza, di orgoglio, di sovrastima dell’uomo.

E’ interessante il fatto che il nome della bestia sia un nome d’uomo.

Siamo completamente usciti dal cielo, siamo totalmente scesi sulla terra. La spirale di Giovanni è arrivata al massimo della soggettivizzazione.

Dio ha posto il proprio amore nelle mani della battaglia della storia ed il nome possibile della bestia è un nome d’uomo, generico, non uno, il cattivo. Ogni nome d’uomo può essere il nome della bestia perché ognuno può mettersi da quella parte.

Intervento: è bellissimo perché mentre nel cielo stai dalla parte dei buoni, sulla terra non sai mai dove sono i buoni. Quindi puoi pensare di essere dalla parte dei buoni ed essere invece esattamente dalla parte dei cattivi.

Intervento: non so se sia poi bellissimo.

Risposta: è bello perché non è meccanico, perché esalta la libertà.

Intervento: non entusiasma poi tanto il fatto che uno passi tutta la vita a cercare di essere buono e poi gli viene detto che ha sbagliato tutto.

Intervento: c’è una dimensione fondamentale entusiasmante che è il valore supremo della libertà. Ma mi chiedo una cosa: come mai si incomincia adesso a leggere così un libro del genere che ha duemila anni?

Non è che si comincia a leggerlo adesso. Personalmente faccio questa fatica di tradurre, non solo in parole comprensibili ma in una cornice culturalmente comprensibile a delle donne e a degli uomini di questo secolo, usando parametri culturali che siano comprensibili, ma quando nel 1550 i cristiani liberi di Munz leggevano l’Apocalisse e nel modo in cui la leggevano, facevano esattamente la stessa operazione. Questa è la grande ricchezza dell’Apocalisse che è un libro inculturato.

Abbiamo già detto che i Vangeli funzionano letterariamente come le fiabe, le quali si raccontano in modo sempre uguale più o meno dovunque e da secoli perché giocano su archetipi di tipo primario, totalmente psichici e non c’è bisogno di capirle.

E’ chiaro però che, giustamente, le fiabe funzionano con i bambini che non hanno schermi culturali articolati e sono assolutamente istintivi. Però, siccome superati i quindici anni, nessuno di noi funziona più così, allora abbiamo bisogno di un testo come l’Apocalisse con una densità intellettuale interpretativa all’altezza di noi e delle nostre domande.

Ma, siccome è all’altezza delle domande antropologiche, a seconda di come sono gli “antropos”, va sempre riletto da capo, altrimenti quegli esseri umani non lo capiscono di nuovo più.

Questa lettura si fa in questo secolo ed io sto usando psicanalisi, temi dell’interiorità, tipi di analisi sociale, tutta una serie di criteri tipici del nostro secolo.

Nel 1550 si leggeva in un altro modo, ma non era meno parlante. I contadini di Friburgo che guardavano nei mattoni di terracotta di una facciata della cattedrale la lotta tra il dragone e la donna capivano tantissimo perché per loro era un’immagine molto significativa.

L’Apocalisse è tutte quelle cose di cui si diceva. La profezia, la questione del giudizio, ci sono tutte, ma non in modo così biecamente meccanico. Per esempio è una grandissima profezia sulla storia, però non nel senso che dice cosa succede, bensì perché dice i meccanismi che reggono l’evolversi della storia, cosa ben più difficile.

Gli Atti sono il racconto di un’esperienza da parte di chi l’ha vissuta. L’Apocalisse è lo sforzo di rendere disponibile o interessante l’esperienza a chi non l’ha fatta. Ed è ben diverso. L’Apocalisse è un testo assolutamente da adulti, non perché difficile, ma perché è il tentativo conscio di spiegarti perché può essere per te interessante l’esperienza senza dare per scontato che quell’esperienza ti appartenga già. Quindi è un libro veramente più universale.

Intervento: è come aver scritto “La fattoria degli animali” per parlare della rivoluzione sovietica invece di farne il resoconto. E quella situazione si può applicare in qualunque contesto.

Certamente, e noi possiamo usare ” La fattoria degli animali” per leggere tante altre situazioni che non sono più la rivoluzione sovietica perché ci dà una serie di criteri per capire le convivenze umane e le leggi.

Trovo che l’immagine della donna nel travaglio del parto, letta non come sdolcinatezza mariana, ma come la fatica dell’umanità di partorire il figlio di se stesso, cioè se stessa come figlio di Dio, è una cosa tra l’altro comune all’esperienza di qualsiasi adulto: la fatica quotidiana di chiunque abbia superato l’adolescenza di partorire la propria vita come la vita che si vuole per se stessi.

Giovanni ha una grandissima attenzione per il soggetto umano che è assolutamente il centro ed il criterio di tutto.

Il resto ha sempre un sottofondo buono: il deserto protegge la donna ed anche le bestie, paradossalmente, hanno un fondo buono.

Il potere politico e la religione non sono in sé male. Questo è un tema.

Inoltre, e questa forse è un’interpretazione mia, ha un altro grandissimo tema: quello di essere contrario ad ogni ideologizzazione possibile, anche a livello di potere del bene perché aveva l’esperienza del mondo ebraico.

Su questi temi dà una grande possibilità di discernimento, un grande criterio antiideologico.