Skip to main content

Storia della Chiesa (XII)

Gruppo del venerdì
Marzo 2002

E’ importante studiare la Riforma, anche per rendersi conto degli errori che non devono essere fatti, per rendersi conto come nell’esperienza credente ci siano certe cose che sembrano progressiste e invece funzionano al contrario. Questa è una questione molto attuale.

Tutta la vicenda dei riformatori si apre su uno scenario articolato, nel senso che i secoli più oscuri sono quelli precedenti (la guerra dei cent’anni, le pestilenze, ecc.) e la Riforma riesce a venir fuori quando la situazione che noi chiameremmo sociopolitica, rispetto ai parametri di allora, si assesta, cioé quando le monarchie nazionali cominciano a prendere una loro configurazione, seppure abbastanza iniziale.

La Riforma può emergere nella misura in cui ci sono delle figure di socialità praticabili e cala il mito del Sacro Romano Impero, con l’idea che aveva di ricostituire un’unità e così via, nella misura in cui si accetta la differenziazione dell’Europa che provoca la possibilità di fare, per esempio, una pace. Finisce il tempo delle orde che attraversano l’Europa, non solo, ma si crea una situazione in cui l’Europa funziona un po’ da “territorio neutro” che ha, da un lato, la Spagna e il Portogallo che si guerreggiano nel Nuovo Mondo e, dall’altra parte, la pressione dei Turchi che vanno a scontrarsi col mondo slavo in quanto sono stati fermati e ricacciati. Cominciano poi una serie di vicende nell’Europa centrale che noi conosciamo poco, essendo i nostri studi incentrati di più sul bacino del Mediterraneo. In realtà c’è un assestamento dell’Europa che trova degli equilibri, anche perché funziona da cuscinetto tra le due aree problematiche che ha, da un lato e dall’altro. Per circa un secolo è nell’interesse di tutti che esista questo territorio neutro relativamente pacificato dove, per esempio, si possa commerciare.

In questa situazione i papi italiani hanno un peso notevole. C’è una serie di papi italiani, esponenti delle grandi famiglie e i Comuni che fanno pressione presso le famiglie dei loro regnanti, con una serie di lotte su “chi elegge chi” e il tutto provoca, guardandolo un po’ più da lontano, una lunga serie di papi italiani molto presi dalle vicende delle signorie italiane.

Finalmente, così, si allenta un po’ la pressione, che invece, fino a subito prima del ‘500, i papi avevano esercitato soprattutto rispetto ai principi tedeschi sulla questione delle investiture e anche sul mito mentale del Sacro Romano Impero.

E’ come dire che per un certo periodo i papi si distraggono dalle vicende e questo crea da una parte uno spazio che noi chiameremmo culturale (rinascita delle arti, degli studi, eccetera) che è il movimento legato al mondo dell’umanesimo, e dall’altra provoca la nascita di tutta una serie di correnti mistiche, cioè esperienze religiose individuali legate ad esperienze personali, che, allentandosi la pressione strutturale istituzionale, cominciano ad aggregare persone intorno a loro, come cammini individuali delle sensibilità, dei modi di sentire.

Questo è un po’ ciò che sta succedendo anche oggi. A livello ecclesiale apparentemente in questo momento la grande fortuna la fanno i movimenti, cioè coloro che, intorno a dei cammini apparentemente chiari, semplici, trasmissibili, aggregano dei gruppi anche molto significativi di persone.

E questo è vero al punto che oggi, anche a causa della diversità mediatica odierna rispetto al 1500, l’istituzione tenta di vivere almeno alcune parti di sé come se fosse un movimento. Pensiamo alla Giornata Mondiale della Gioventù o ad altri avvenimenti simili: l’istituzione adotta un metodo che praticamente è lo stesso del Beguinage, delle Compagnie dei fratelli, di tutte queste esperienze che, appena molla il controllo centrale, in una situazione di crisi, aggregano delle vie di salvezza, di religiosità pretesa pura e vitale.

Questa è sempre una tendenza dei tempi di crisi e di riforma: l’idea è, in fondo, che l’alternativa ad una istituzione fatiscente sia un corpus, un’esperienza di visibilità a misura di relazioni personali, cioè di purezza originaria ritrovata intorno a un faccia a faccia. C’è il problema però che la figura della chiesa non può essere solo una via personale; per motivi teologici, perché se si definisce cattolica ed è basata sul principio dell’incarnazione, deve essere, in qualche modo, universale, esportabile e visibile, ed esportabile aldilà delle persone singole che la incarnano. La figura ecclesiale, la visibilità ecclesiale, nemmeno nei tempi apostolici si era fatta ingannare su questo problema.

Da una parte questo aspetto caratterizza lo specifico dell’esperienza cristiana, la figura storica deve essere garantita dal fatto di non essere completamente raggiungibile. Mi spiego: il cristianesimo si presenta come qualcosa che non può fare a meno di una figura storica, non può non avere un’istituzione, una visibilità, una forma storicamente incarnata, ma che, contemporaneamente, non può mai esaurirsi in ognuna delle forme storiche che assume, se non altro perché il richiamo è sempre all’evento originario che è quello di Gesù morto e risorto che è altrove, non è contemporaneo a nessuna istituzione storica.

Il cristianesimo si definisce storicamente su questa tensione: la necessità di essere visibile, raccontabile, di avere una forma, ma contemporaneamente il fatto che nessuno può pretendere per sé la santità esclusiva e totale. In questa tensione, in questo continuo rimando ad un’altra cosa, si gioca la possibilità di una qualche fedeltà al cristianesimo.

Le tentazioni di sbilanciarsi sul dire: qui c’è la chiesa, qui c’è una vera esperienza credente, è una costante e non a caso è il modo di presentarsi oggi dei movimenti, che in genere definiscono se stessi “la chiesa” tout court.

Nel ‘500 questo si è rivelato come un tragico errore, perché non solo non ha aiutato la riforma della chiesa, non ha funzionato da piccolo seme rinnovato e rinnovatore, ma ha funzionato come lo snaturamento del cristianesimo, lo sbilanciarsi totalmente sul possedere, qui e ora, la vera fedeltà al vero messaggio evangelico.

Tornando al grande orizzonte: come cessa la pressione del nord Europa, nascono molte aggregazioni intorno a figure mistiche (c’è una grande fioritura mistica in Germania, nelle Fiandre, mentre la fioritura mistica nei paesi mediterranei avverrà un secolo dopo: Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, eccetera) e una serie di grandi tentativi di percorrere sostanzialmente due strade: una che si rivelerà storicamente perdente, la via della ragione, diciamo quella di Erasmo, quella degli umanisti, che ancora si pensavano cristiani e basta, fuori dalle confessionalizzazioni, e che sono stati, un po’ per pavidità di intellettuali, un po’ per lucidità di intellettuali, fuori dal dibattito tra Lutero e la chiesa cattolica; d’altra parte c’è la via che afferma che la riforma si fa con la cultura, e questa idea sarà ripresa da una delle più grandi figure della Riforma cattolica che è Ignazio di Loyola, il quale compie l’operazione che Erasmo sognava, ma lo fa dopo e dentro la confessionalizzazione, cioè quando le due confessioni sono già definite come separate; dunque lui la fa dentro una delle due parti, che è quella cattolica; non è più un’operazione di ricucitura.

Ignazio fonda il Collegio Romano, nel quale prevede una sezione per i seminaristi che provengono dall’area tedesca, perché devono essere preparati culturalmente più di altri ad affrontare la diatriba con i Protestanti.

Dall’altra parte c’è la via luterana, sincera, vera, spirituale, che si scontra duramente con l’assoluta non comprensione dei tempi. Paradossalmente Lutero è il tipico caso di colui che usa gli strumenti nuovi che i tempi portano, la stampa, le lingue volgari, eccetera, e li usa con grande intelligenza, senza però capire che cosa sta succedendo. Quindi, alla fine, queste cose gli si rivoltano contro. Viene esasperato lo scontro e Lutero viene costretto a dare origine ad un’altra figura di chiesa, cosa totalmente estranea al suo primo disegno.

Come sempre nella storia, anche qui ci sono grandi questioni e piccole questioni, tra le quali il pessimo carattere di Lutero e del Papa che non hanno aiutato; ma la questione grossa, intricante, è che il Romano Pontefice rappresenta, in quel momento, l’assoluto rifiuto di tutte le cose nuove che stanno accadendo e che Lutero invece usa a man bassa e con grande capacità. Tutti e due tuttavia non capiscono che cosa sta succedendo, cioè la marginalizzazione culturale del fatto religioso, lo spostarsi dell’asse della comprensione della realtà fuori dal mondo religioso.

Una delle questioni interessanti e poco citate rispetto a Lutero è ciò che lui, da anziano, racconta come l’origine della sua idea di riforma, in modo ideologico. Lutero, all’origine, pone una esperienza mistica, un evento suo, personale, di coscienza. Questo è indicativo, perché è l’assoluta non comprensione del fatto che la questione in ballo non era la santità degli individui. Lutero riprende, sostanzialmente, il modello di tutti i grandi riformatori del 1000-1200.

Nel Medio Evo la figura della chiesa era talmente identificata alla vita che l’unico problema che il singolo aveva era la sua santità. Per noi la figura della chiesa è talmente irrilevante, che l’unico problema che abbiamo per vivere la fede è la nostra santità, comunque se scegliamo di credere o di non credere. Ai capi opposti noi ci troviamo nella stessa condizione, laddove la fede è un fatto di coscienza, intimo, personale. E’ la stessa matrice.

Ai tempi di Lutero la figura della chiesa non era più identica al tutto, ma era ancora molto rilevante. Il problema sul tappeto era cogliere la riforma della figura della chiesa, non il dato personale, intimo, morale. L’episodio, che Lutero descrive come la radice di tutto, non ha spostato di un filo il problema della forma della chiesa.

Si possono fare osservazioni interessanti: la questione della fede non è la questione se io scelgo di credere o non credere, ma rispetto alle figure storiche, intellettuali, morali, che il cristianesimo ha conformato nel corso dei secoli, capire qual è il proprio luogo personale rispetto a questa tradizione, (quanto distante, quanto vicino, quanto dentro, quanto fuori): questa è la questione del cristianesimo.

E’ chiaro che se la crisi aperta nel ‘500 è la crisi delle figure che costituiscono la tradizione e se il cristianesimo è il collocarsi rispetto a queste figure che costituiscono la tradizione, nessuno sa più dove collocarsi. Anche ammesso di fare la fatica di cercare di collocarsi, ci si colloca rispetto a che, se non ci sono più queste figure?

Questo è il disagio attuale dei credenti. Per cui il risultato finale è che ognuno di noi, generalizzando, resta più o meno affezionato a una serie di elaborazioni fatte in alcuni passaggi della sua vita. Ma si sta vanificando sempre di più il grande fiume di queste figure, e dunque noi non sappiamo più dove collocarci.

Fuori di polemica, fuori di ideologia politica, che cosa vuol dire mettere dopo un qualsiasi sostantivo l’aggettivo cristiano? In che cosa, seriamente, questo aggettivo lo distingue da un’altra cosa?

Non abbiamo più figure di riferimento che costituiscano un fiume rispetto al quale noi possiamo collocarci, anche distanziarci. Non si riesce più a essere cattolici, ma neanche laici.

Dal momento stesso in cui Gesù è asceso al Cielo, dal momento stesso in cui cessa la presenza storica di Gesù, per cui tu puoi chiedere a Lui chi sei, e questo dura solo tre anni, che corrispondono al ministero pubblico di Gesù, da quel momento noi riceviamo la Buona Notizia dell’Evangelo in una figura storica di tradizione, e se non vogliamo chiamarla chiesa, chiamiamola come vogliamo…

Questo è il vero problema: ragionare, esplicitare, determinare la figura storica di tradizione. E determinare il proprio luogo rispetto a questa o a queste figure storiche.