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Storia della Chiesa (II)

Gruppo del venerdì
Novembre 2000

Nell’incontro precedente avevo proposto di occuparci del periodo che va, per capirci, da Costantino a Vaticano II, cioè la cosiddetta “cristianità”, da noi citata sempre con un giudizio tendenzialmente negativo perché, in genere, dal punto di vista della storia religiosa, conosciamo solo alcuni aspetti, normalmente abbastanza negativi, come ad esempio la collusione con il potere statale, la chiusura della chiesa rispetto alla modernità, e, dal settecento, la questione di Galileo, del rapporto con la scienza ed altri nodi problematici di questo tipo. Poi, in genere, conosciamo il monachesimo, S. Francesco, i santi poverelli del X, XI e XII secolo, che, quasi inconsciamente, vengono interpretati come una specie di rivolta, di marginalità interna rispetto invece ad una chiesa che è “regime di cristianità”.

L’idea è invece quella di guardare dentro questi quindici secoli per cercare di capire le ragioni interne di certe evoluzioni, non necessariamente, come già detto la volta scorsa, per giustificarne le forme, ma per capire intorno a quali nodi la fede cristiana, nel tentativo di diventare visibile in una storia, di essere riconoscibile attraverso gesti, pratiche, abitudini, cultura che ha impregnato di sé, ha, in qualche modo, conformato comunque una storia, a fronte della quale, dopo Vaticano II, si prendono anche delle distanze ma non senza avere capito che cosa in quella storia è successo.

Affrontiamo allora una parte abbastanza importante su cui il nostro immaginario prestorico, quello da libro di Fabiola o “Quo vadis”, da film sui barbari e simili , ci rovina un po’. Infatti, come rispetto alla Scrittura abbiamo detto molte volte di Adamo ed Eva e della mela che non era vero quanto raccontato, impiegando poi molto tempo ad uscire da questa logica, pur essendo la situazione più facile perché più plateali certe incongruenze e nessuno riesce più a pensare alla creazione come un atto magico, rispetto alla storia, (soprattutto quella della fine dell’impero romano e dell’inizio di quello che si chiama alto medioevo), ci sono veramente una quantità di enormi semplificazioni. Siccome quello è esattamente il punto in cui la religione cristiana assume tutta una serie di forme, comportamenti, stili, modi, organizzazione giuridica di cui l’ottanta per cento è ancora abbastanza valido oggi, con molti aggiustamenti e cambiamenti, è particolarmente grave avere una serie di luoghi comuni e non capire bene come era quel momento perché si rischia di non comprendere più ciò che era successo.

Un esempio molto banale: la prassi dei sacramenti, cioè il modo di celebrare i tre sacramenti principali: il battesimo, la riconciliazione e l’eucarestia, si assesta nella sostanza, perché poi ci sono molti cambiamenti di forma, tra il IV ed il VI secolo.

Il battesimo nasce e si assesta intorno a quegli anni, poi mano a mano, rimane quel nucleo, ma si aggiungono cose come in certe chiese romaniche nelle quali venivano piazzati altari laterali, quadri, finti capitelli barocchi, per cui, alla fine, scompariva la chiesa primitiva perché sommersa da tutti gli stucchi aggiunti; così, nell’ottocento, del battesimo non si percepisce più la struttura di fondo assestata nel IV secolo, benché rimanesse quella, perché ad esempio vi erano stati aggiunti dodici esorcismi, cioè una quantità enorme di preghiere contro il demonio.

Vaticano II, rispetto alla prassi dei sacramenti, in genere, fa un’operazione di ripulitura; riporta non tanto, come siamo abituati a dire noi, alla prassi apostolica, epoca in cui la prassi sacramentale non era ancora fissata, ma alla prassi del IV – V secolo, come se riconducesse la chiesa romanica a vista. Questo per fare solo un esempio di un aspetto non così marginale, come quello dei sacramenti. Allo stesso modo, un pochino più tardi, l’organizzazione strutturale, cioè geografica delle chiese, si assesta dal V al VII secolo ed in quella noi siamo a tutt’oggi con le parrocchie, le diocesi. Ed anche lì Vaticano II, con la riforma delle conferenze episcopali, cerca di togliere un po’ di aggiunte.

Nella conoscenza comune questo è un punto in genere molto sottovalutato e poco conosciuto. Mentre sappiamo ancora qualcosa su Bonifacio VIII o sui papi più recenti, siamo meno informati su un tempo estremamente fecondo come quello del V secolo, tempo della consumazione finale dell’organizzazione dell’impero romano e dell’innervamento con le nuove culture barbariche.

Intervento: Perché partiamo dal V secolo e non diciamo nulla della primitiva chiesa, delle dispute tra Paolo e Pietro ad esempio?

Un po’ perché la scelta dell’altra volta era stata di guardare dentro il discorso “cristianità” da dopo le persecuzioni, da mano a mano che la chiesa diventa religione di stato; poi perché i primi due secoli sono, di fatto, un discorso non tanto storico quanto biblico-patristico. Bisognerebbe lavorare con lo stesso metodo biblico sui testi dei Padri, cosa che dopo potremo anche fare, ma è tutto un altro metodo.

Non abbiamo gli elementi per fare una storia, strettamente intesa, dei primi due secoli dal punto di vista dell’autocoscienza della chiesa. Non a caso negli studi teologici, quella parte non si chiama storia, ma patrologia e si studiano gli scritti dei Padri, cioè dalla lettera di Barnaba, primo scritto cristiano fuori dal Nuovo Testamento, al Pastore di Erma e alla lettera Diogneto, tre testi addirittura precedenti, come tempo, ad alcuni scritti del Nuovo Testamento, ma non riconosciuti canonici; da quelli fino ad Agostino e Girolamo, Origene, Attanasio, tutti i grandi Padri della chiesa.

Da loro si deducono tutta una serie di notizie su come è organizzata la Chiesa però non esiste ancora un’organizzazione comune. Le comunità mantengono ancora praticamente l’organizzazione dei tempi di Paolo, quella che riscontriamo nelle sue lettere. Sono comunità semiautonome, legate per famiglie all’apostolo al quale si richiamano e può essere l’apostolo che le ha fondate realmente o, a volte, leggendariamente. Ad esempio, Paolo ha fondato un certo numero di chiese le quali ne hanno fondate alcune altre che si richiamano sempre a Paolo perché l’autorità rimane quella paolina.  

Lì ci sono tutti i modelli di chiesa e questo è anche molto interessante: abbiamo comunità con l’episcopato monarchico, con un vescovo; comunità rette da un’assemblea di anziani, tipo le chiese episcopaliane oggi; comunità sinodali dove le decisioni vengono prese da tutta l’assemblea dei fedeli con i presbiteri. E questi modelli convivono fino a questo punto in cui si passa dalla fase nascente, entusiastica e molto personalizzata, legata ad una tradizione che passa di persona in persona ad una fase più organizzata. Ad esempio, Paolo scrive una lettera ai Corinzi con alcune notizie su come organizzarsi e dice: “Le donne nelle assemblee tacciano”, allora tutte le comunità paoline sono fortemente segnate da misogenia, mentre le comunità petrine giudaiche no, perché procedevano in un altro modo.

E’ quindi molto difficile condurre un’indagine storica reale e si deve seguire un altro metodo di lavoro.

Intervento: Tutto questo lavoro viene a combaciare col momento in cui l’istituzione dei cristiani già un po’ organizzati entra in contatto con il diritto romano. Inoltre sarebbe interessante studiare l’aggancio del formalismo dei sacramenti nella loro formulazione con la riforma del diritto romano.

Primo: adesso ne parliamo nel senso che succede esattamente il contrario. I cristiani di per sé non sono organizzati e non hanno questo tra i loro interessi.

Secondo: il problema qui è come per l’Apocalisse. Non tanto trovare le risposte più o meno aneddotiche ad una serie di questioni, quanto cercare di capire il film come funziona, esattamente, come dicevamo per l’Apocalisse, quali sono alcune logiche portanti nell’operazione fondamentale del dare un corpo alla fede.

Questo è un problema decisivo, non  tanto per un giudizio storico sul passato quanto per delle opzioni anche per il presente. Ognuno può benissimo dire di aver superato l’idea che dare il corpo alla fede voglia solo dire, come per molti secoli la chiesa ha pensato, assumere e governare il corpo che mano a mano gli stati si davano, quindi la forma monarchica, ecc. Questa cosa si è consumata, se non altro perché gli stati sono diventati democrazie e la chiesa non ha alcuna intenzione di diventare democratica né ne ha motivo.

Detto questo però il problema rimane ed è il nostro problema perché, si è superata la fase più o meno pauperista dell’immediato postconcilio in cui l’idea era “dato che le forme sono tutte mutuate dal potere, buttiamo a mare tutto”; quindi grandi assemblee, grandi effervescenze, non solo nella chiesa, ma anche negli stati, nelle scuole e salutari per alcuni versi ma non realisticamente gestibili perché non è possibile dare un corpo a degli insiemi di persone semplicemente sul principio “chi ha più voce urla”, allora ci si trova di fronte alla domanda sul come fare.

Non a caso al Sinodo per l’Europa il cardinale Martini è intervenuto sulla riforma strutturale della chiesa; i teologi si stanno occupando moltissimo di questo problema, tutti parlano della riforma del papato, del ministero e della riforma della struttura organizzativa. Ad esempio per la prima volta da quindici secoli qualcuno incomincia a dire che forse la divisione geografica delle chiese non è l’unico criterio usabile. Ed i movimenti dimostrano che nei fatti è superata.

Intervento: anche i monaci.

E’ diverso perché loro non si sono mai proposti come chiese, ma come l’anima spirituale delle chiese. Infatti non hanno stravolto la struttura della chiesa, l’hanno innervata rimanendo autonomi con un altro modello.

Ma la grande innovazione dei movimenti, dal punto di vista strutturale, è che essi dicono di essere la riforma della chiesa ed il criterio territoriale è completamente saltato. Il problema è realistico ed è vero che questa forma nata tra il III e V secolo, soltanto adesso si è totalmente consumata al di là delle dichiarazioni, delle ideologie, delle fasi più o meno rivoluzionarie. Solo che, ad esempio, anche chi non vuole avere una deriva di tipo movimentista incontra una grande difficoltà a vedere quale altra forma è possibile.

Fatta tutta questa premessa il punto di partenza sarebbe capire quando inizia e perché, la vicenda della compromissione o dell’assunzione delle forme dello stato.

Per un secolo abbondante i cristiani hanno l’idea della Parusia imminente. Quindi non c’è niente da organizzare perché arriva il Signore Gesù. Poi si fa avanti il grande problema del ritardo della Parusia  con il panico di aver sbagliato e soprattutto di cosa bisogna fare. Poi avvengono le persecuzioni e si abbandonano i problemi intellettuali perché c’è la questione della sopravvivenza primaria. Man mano che i cristiani si trovano in questa situazione, la struttura dell’impero romano si indebolisce progressivamente.

Noi siamo abituati a citare l’Editto di Costantino, 313, per dire l’inizio della libertà e della tolleranza religiosa per i cristiani. Come tutti ormai sanno ed ammettono, questo editto è un falso, di epoca medioevale. Non è al tempo di Costantino che questo accade, incomincia prima, ma raggiunge il suo compimento quando l’imperatore Teodosio nel 380 proclama il cristianesimo religione di stato. Quindi in realtà l’inizio di questo movimento non è l’editto di tolleranza nei confronti dei cristiani ma l’editto di intolleranza rispetto agli altri culti. La tolleranza rispetto ai cristiani non avrebbe significato granché essendo l’impero romano normalmente tollerante verso tanti culti che venivano accettati quasi tutti.

In realtà ad un certo punto la grande commistione procura un’intolleranza nei confronti degli altri culti che vengono prima declassati a livello di culti privati e poi proibiti in assoluto.

Vediamo alcune citazioni di decreti attinti dai codici teodosiano e giustiniano. Teodosio II nel 438 e Giustiniano nel 529, quindi spostato di un secolo e mezzo, due secoli rispetto alla data classica del 313.

Dal testo dell’imperatore Costantino: “Noi vietiamo agli indovini, ai sacerdoti e a coloro che sono abituati a praticare questo rito (esame delle viscere degli animali) di entrare in una casa privata o di varcarne la soglia, anche sotto il pretesto dell’amicizia; quelli che disprezzano questa legge saranno puniti. Ma voi che ritenete che ciò vi è utile, incontratevi presso gli altari privati, nei templi e celebrate i riti abituali; noi non vietiamo infatti di celebrare, in pieno giorno, i riti adottati da molto tempo”.

Il testo di Costantino effettivamente è tollerante, incomincia a restringere gli altri culti, ma non li proibisce ancora.

L’imperatore Costanzo, nel 356, codice teodosiano dice: “Noi disponiamo che siano passibili della pena di morte coloro i quali, si è  accertato, hanno partecipato ai sacrifici in onore degli idoli”.

Teodosio, Editto di Tessalonica, nel 380 ordina: “Noi desideriamo che tutti i popoli soggetti alla dolce autorità della Nostra Clemenza vivano nella fede che l’apostolo Pietro ha trasmesso ai Romani, che è predicata sino ai nostri giorni, come egli l’aveva predicata e che è seguita come tutti sanno dal pontefice Damaso e dal vescovo Pietro d’Alessandria (….). Decretiamo che avranno diritti di dirsi cristiani cattolici solo coloro che si sottomettono a questa legge, e che tutti gli altri siano considerati folli e insensati e su di loro peserà la vergogna dell’eresia. Essi dovranno attendersi dapprima la vendetta divina e poi saranno castigati anche da noi secondo la decisione che ci ha ispirato il cielo”.

E’ molto indicativo il modo in cui cambia il linguaggio. Nel primo e nel secondo, può piacere o no il tipo di editto fatto, però il linguaggio è legale e noi lo percepiamo come un linguaggio laico. Il terzo incomincia a diventare un linguaggio parareligioso, sembra un documento della chiesa, di grande intolleranza.

L’ultimo, degli imperatori Teodosio, Arcadio e Onorio, nel 392. dice: “Se qualcuno usa incenso per venerare statue costruite dagli uomini (….) orna di bandiere un albero, innalza un altare di terra al di sopra del suolo (….) ciò è un attentato vero e proprio alla religione. Colpevole di aver violato la religione, quest’uomo sarà colpito da una confisca della casa o della proprietà nella quale si sarà mostrato schiavo di questa superstizione pagana”.

Questo è il primo documento in cui religione è sinonimo di cristianesimo. Non esiste più alcuna distinzione. Qui sta cominciando ad entrare una certa regolamentazione rispetto alla pena di morte perché il cristianesimo inizia a giocare una doppia influenza man mano che si rafforza: da un lato pretende una grande difesa, ma dall’altro cerca di far sì che nei codici la pena di morte venga davvero riservata a delitti molto gravi. In tutta l’epoca barbarica che noi in genere consideriamo truce, l’uso reale della pena di morte è molto più basso che non nel pieno periodo romano laico come la repubblica. Il cristianesimo comincia ad instillare un’idea di proprietà divina sulla vita e quindi della sacralità dell’uomo e della sua vita, anche se fino a S. Tommaso c’è ancora l’idea che la sacralità dell’uomo dipende da chi uomo è. Per esempio le donne no, perché non avevano un’anima o gli schiavi no.  

Intervento: Circa le pene, la prima riguarda la vendetta divina, poi è secondo la decisione ispirata dal cielo. Non è da ritenere che ad ogni colpa una pena, ma secondo come gli gira.

Tutto ciò accade mentre succedono una serie di cose abbastanza significative. Ad esempio viene fondata Costantinopoli. Per noi Costantino è sempre un imperatore di Roma, in realtà egli fonda Costantinopoli spostando l’asse della centralità dell’impero verso oriente e compie ciò con la precisa intenzione di farne una seconda Roma, un’altra capitale. Questo ovviamente infragilisce sempre più le strutture statali dell’area del mediterraneo occidentale e tutto il sistema romano, che già soffriva del fatto di essersi tanto allargato, comincia a scricchiolare clamorosamente. La figura del vescovo di Roma, non ancora papa in questo periodo, inizia a prendere peso in quanto rimane l’unica autorità sulla sede percepita allora come il centro di tutto.

L’operazione per cui l’imperatore si è spostato ed il vescovo di Roma no, ha favorito moltissimo la questione del passaggio di ruolo tra l’impero e la struttura ecclesiale. Peraltro il vescovo di Roma, quindi vescovo della città, non poteva spostarsi non avendo un ruolo universale, né l’imperatore poteva tentare di trasferirlo a Costantinopoli. Con le invasioni barbariche e fino al sacco di Roma, la figura del papa rimane l’unico punto di riferimento, di protezione nello sbando generale.

Questo è il punto di passaggio. Tuttavia in tale situazione la cristianizzazione reale non è un granché. Paradossalmente, dopo tre secoli di forte impianto cristiano, il momento del successo, della crescita, della visibilità e della libertà, corrisponde ad un grande calo dell’intensità religiosa perché, diventando non solo legittimo, ma onorevole essere cristiani, lo diventano tutti, soprattutto perché la difficoltà della trasmissione dell’esperienza cristiana diventa molto forte. Infatti un conto è se in una situazione di oppressione e minoranza fortemente motivata ognuno trasmette in modo quasi carbonaro ad altri, pochi e molto motivati e ben seguiti, un’esperienza impegnativa in grado di dare una globalità di conformazione della persona; un altro è se ci si trova in una situazione fragile dal punto di vista dell’organizzazione sociale con molte persone al mese da battezzare senza aver formalizzato dei modi standard per trasmettere l’esperienza.

Così tutti insegnavano, venivano fuori strane storie, non si sapeva bene che cosa fosse fondamentale trasmettere, come insegnare e spiegare. Perciò, in questo momento, si formalizzano i sacramenti come dei punti fissi e chiari per tutti. La stessa operazione fatta dai parroci dopo Vaticano II per riorganizzare un minimo alcune cose fondamentali, ad esempio almeno tre anni di catechismo prima di ricevere la prima comunione o il corso prematrimoniale.

Noi abbiamo circa milleseicento anni di prassi sacramentale alle spalle e quindi, bene o male, poco o tanto, ognuno sa cosa aspettarsi; a quel tempo non avevano nulla, quindi utilizzano molto Ireneo e Cirillo, le catechesi sacramentali di questi due grandi padri ed il modo in cui a Roma si celebrava e che comincia a diventare dominante almeno nel bacino del mediterraneo.

Gli antichi libri liturgici si dividono grosso modo in grandi famiglie: romano-gallicana, spagnola, aquileiese e quello cosiddetto inglese o irlandese. L’ultima è la più tarda, relegato alla liturgia monastica. Alla fine del V secolo i monaci Bonifacio, Patrizio e Colimano vanno nel nord Europa ad evangelizzare e stabiliscono prassi sacramentali di area monastica; poi, dal X secolo, tornano giù a evangelizzare il mondo latino, diventano i sapienti alla corte di Carlo Magno e reimportano i libri liturgici ed insegnano a scrivere.

Questo movimento è privilegiatamente di area monastica, quindi porta con sé un modo di celebrare i sacramenti che ha le sue radici più antiche nel monachesimo palestinese, quello dei padri del deserto, cioè del II secolo, mediato attraverso le fondazioni della Francia monastica e stabilisce una specie di famiglia liturgica.

L’area romana incomincia a consolidarsi in questo momento. Per l’eucarestia il nucleo, cioè la memoria dell’ultima cena del Signore, è chiaro fin dall’inizio, però, solo intorno a questi secoli, incomincia ad avere una forma rituale.

Intervento: E’ interessante capire come si è potuto arrivare, da una prassi abbastanza libera, a recepire la necessità di formule.

Per la questione della trasmissione. Se si deve spiegare ad altri, occorre avere degli standard, conoscere qual è il criterio spiegabile e comunicabile. Non si può contare sempre sul fatto che ci sia qualcuno così carismatico da essere in grado di far capire. Occorrono garanzie sulla univocità di ciò che viene trasmesso.

Intervento: Non avrà influito su questo una mentalità giuridica del diritto romano che aveva formalizzato all’estremo anche i contratti e tutti gli aspetti della vita?

Sì, però non bisogna fare delle sovrapposizioni. Il giuridismo è una cosa. Di esso nei sacramenti si può parlare dal 1600 in poi. La formalizzazione non è formalismo; essa vuol dire stabilire delle forme comuni in modo formale. Tu non puoi mettere l’effervescenza, la partecipazione da un lato e dire che dall’altro qualsiasi forma di fissazione è giuridismo. Per 1100/1200 anni, la fissazione è stata estremamente sensata, vissuta in modo molto positivo come un dato di realtà. Poi, dal 1500, e soprattutto DAL 1600 – 1700, diventa veramente giuridismo e lo diventa abbastanza in connessione con la perdita del latino come lingua universale. Così dalla metà dell’800 in poi ci sono tutta una serie di formalismi, come la recita del rosario durante la messa perché non si capisce, o dei sette primi venerdì ed altre pratiche.

L’effervescenza, per esempio, nella celebrazione liturgica, è stata considerata, giustamente, un pericolo per molti secoli. A noi pare una cosa positiva, ma nei primi secoli sono tutti molto preoccupati dall’eccessiva carismaticità della liturgia perché dava il via a esperienze non attinenti con l’esperienza cristiana.

Vorrei velocemente fare un piccolo esempio sul battesimo e la penitenza.

Dopo la fine delle persecuzioni, dopo il 350, la richiesta di diventare cristiani, non comportando più il rischio di martirio ed offrendo la possibilità di vantaggi sociali, diventa molto allargata. Il primo impatto viene dato da una questione che noi pensiamo sempre miticamente positiva ed invece all’inizio è un grande problema. Le persone chiedono una prima istruzione, hanno il primo rito, cioè l’iscrizione del nome nei registri del catecumenato con l’imposizione del sale benedetto posato come sale della sapienza sulle labbra del catecumeno e da lì in poi cominciano a dilazionare perché, essendo solo il battesimo a perdonare i peccati, succedeva che chi si battezzava, doveva fare il bravo ed allora rinviava. Così diventa prassi normale, nel IV secolo, che la gente, raggiunta l’età in cui si deve occupare delle questioni serie della vita, si iscriveva come catecumeno e poi, sul letto di morte, veniva battezzata. Naturalmente questo era un escamotage.

La chiesa, abbastanza preoccupata da questa situazione, prima dice che è possibile un’altra penitenza oltre il battesimo, una sola volta nella vita, poi si rende conto che nemmeno questo risolve il problema ed allora praticamente crea due ordini di catecumeni: il primo è una specie di catecumenato permanente, il secondo, dei catecumeni reali, con una durata molto breve. Di fatto si istituisce, e prenderà grande forza, l’uso della quaresima in cui, quaranta giorni prima di Pasqua, l’aspirante si scrive nel registro dei catecumeni e nella notte di Pasqua viene battezzato.

Noi siamo abituati a pensare al catecumenato lungo come ad una cosa seria, invece no, perché esso è nato come forma di escamotage. Il catecumenato breve invece stabiliva che, se si era decisi, occorreva assumersi la propria responsabilità. Le catechesi per i catecumeni erano in genere tenute direttamente dal vescovo e saranno la base di quello che poi diventerà, nel devozionismo molto più tardo, le stazioni quaresimali.

A Roma è ancora comune, il mercoledì di quaresima, tenere, nelle basiliche patriarcali, una predica che era la forma in cui il vescovo impartiva la catechesi a coloro i quali dovevano essere battezzati nella notte di Pasqua.

Poi, nella prassi successivo, soprattutto dopo il 1600 e 1700, quando i vescovi diventano ignoranti e disinteressati alle chiese, chiamano gente da fuori perché non erano più in grado di predicare; nascono così le missioni popolari, i quaresimali e poi, ultimo esito devozionale, sono le “quarantore” nelle quali si abolisce la predica, perché non si sapeva più fare catechesi, e si instaura l’adorazione eucaristica.

La cosa interessante di questa prassi del IV-V secolo della predicazione quaresimale è che i catecumeni erano impegnati al segreto su ciò che veniva loro insegnato. A noi può sembrare stranissimo, ma la questione era proprio quella di unificare l’insegnamento per evitare che ognuno, capite alcune cose, sull’onda dell’entusiasmo, si mettesse ad insegnare. Il problema iniziale della chiesa, da questo punto di vista, è fortissimo. Noi lo ricostruiamo dal fatto che nei primi secoli ci sono stati molti concili contro le eresie; in realtà il problema dell’eresia non è così formale, ma sta nel fatto che, definendo la dottrina e dovendo inventare forme di insegnamento, di idee, parole, gesti e prassi, chiaramente la difficoltà è grande ed il rischio di confusione enorme.

Intervento: nascono in questo periodo le mistagogie che sono rivolte ai catecumeni?

Sì,  ai catecumeni veri. La mistagogia è ciò che viene dopo il battesimo. E’ l’introduzione ai misteri nel senso che, siccome il catecumenato è breve e nella notte di Pasqua si impartiscono il battesimo e l’eucarestia, allora occorre pensare ad una forma di catechesi permanente per introdurre tutti i passaggi che in quaranta giorni non era possibile esporre. Nascono così le mistagogie, vere e proprie forme di catechesi permanente.

I catecumeni vengono normalmente istruiti il mercoledì di quaresima, fanno dei passaggi liturgici con la consegna del Credo, del Padre Nostro, del Vangelo, l’iscrizione del nome e la restituzione del Credo. L’idea è che, scritto il nome, essi ricevono il Padre nostro, cioè la preghiera, il Vangelo, la storia di Gesù, poi il Credo che restituiscono alla chiesa dopo averlo ricevuto.

Nella liturgia ambrosiana alcuni di questi segni sono rimasti: al mercoledì santo c’è la “traditio simboli” e al sabato santo la ”redditio simboli” per cui il mercoledì santo il vescovo di Milano nella cattedrale consegna alla chiesa milanese il Credo, con la recita solenne, ed il sabato santo tutta la comunità lo restituisce come segno di comunione nella stessa fede della chiesa.

Poi inizia la catechesi mistagogica per introdurre l’eucarestia che viene prima data e poi spiegata. Nella notte di Pasqua con il battesimo, contestualmente si partecipa all’eucarestia distribuita come nutrimento, non come premio.

In tutto questo resta sospeso il problema, che travaglierà la chiesa del V-VI secolo, del peccato, del perdono e della grazia. Conclusi i concili cristologici e trinitari, incomincia tutto il dibattito sulla salvezza, sul peccato dopo il battesimo, questione all’inizio molto dura perché quando si viene battezzati, dopo il battesimo non si dovrebbe  più peccare. Però, se ciò accade, si è apostati e quindi dannati.

L’idea di peccato era molto ristretta originariamente: il rifiuto della fede, l’omicidio, l’infanticidio, tutta una serie di comportamementi relativamente diffusi nella società dell’epoca, come ad esempio l’esposizione dei bambini. Tra essi c’era l’apostasia e la discussione nasce perché, finite le persecuzioni, molti di coloro che avevano abiurato, i cosiddetti lapsi, chiedono di rientrare nelle comunità e la questione esplode tragicamente.

L’altra questione che si pone in quei secoli è dunque la prassi della penitenza che ha subito una delle maggiori trasformazioni di sostanza, non solo di forma. La prassi attuale della confessione come atto devozionale, cioè frequente, privato, auricolare, si assesta solo dopo il 1500. Fino al Concilio di Trento da molti non era considerata un sacramento. E’ una prassi strana perché, essendo così labile nella sua forma, è invece spesso uno dei pochi luoghi attuali, insieme alla messa domenicale, di contatto dei credenti con l’esperienza cristiana in senso stretto.

Il problema della penitenza inizia a porsi, dicevamo, con la questione dei lapsi, ma anche per il fatto che, essendo meno motivati, meno ferventi, i nuovi cristiani peccano di più: l’espansione del cristianesimo segna dei mutamenti meno radicali ed inizia l’idea che ci sono condizioni personali le quali giustificano o giustificherebbero comportamenti al limite.

La penitenza nella prassi antica si mostra in due forme: penitenza ufficiale o canonica, prassi molto rara, con la fondamentale caratteristica di essere pubblica; forme di penitenza privata, in genere autoinflitte, che diventano percorsi devozionali, spirituali, molto incoraggiati dall’esempio monastico. Queste, poco alla volta saranno dominanti rispetto alla prassi canonica che per la sua durezza cadrà in disuso.

La prassi canonica funzionava in questo modo: chi aveva commesso un peccato grave che teoricamente poteva essere perdonato solo con il battesimo, se già battezzato, andava dal vescovo che poteva decidere se perdonarlo o se iscriverlo nell’ordine dei penitenti.

La chiesa di quel periodo, prima della strutturazione geografica, era organizzata per ordini, cioè per livelli: presbiteri, catecumeni, fideles, vergini, penitenti e si passava dall’uno all’altro a seconda delle condizioni di vita. Il venire iscritto nell’assemblea dei penitenti comportava una serie di cose, ad esempio un posto ed un modo particolare di partecipare all’assemblea liturgica, momenti liturgici particolari in cui veniva consegnato il cilicio, un panciotto di pelle di capra che doveva essere portato sulla pelle al contrario, quindi fastidioso, e l’esclusione, non gravissima ma media, dall’offerta della messa. Solo nei casi più gravi si veniva esclusi dal ricevere l’eucarestia.

Allora, in base alla gravità delle colpe, il periodo poteva essere più o meno lungo e, normalmente il giovedì santo, durante la messa del mattino, prima della memoria dell’eucarestia dell’ultima cena, il vescovo accoglieva i penitenti riammettendoli all’ordine dei fedeli. Poi, man mano che la chiesa assume un ruolo pubblico, visibile, le penitenze imposte sono sempre più gravose ed estremamente visibili. Ad esempio esisteva tutta una regolamentazione, scritta nell’ordine dei penitenti, che stabiliva come vestire, solo in alcuni modi e non in altri, e come nutrirsi di determinati cibi o di astenersi da essi per tutta la vita.

Le restrizioni riguardavano la totalità della vita del penitente attraverso una serie di atti mirati a sconvolgere il ritmo dell’esistenza al fine di fargli prendere atto, per uno o due anni, che la sua vita non era più la stessa di prima, il suo tempo veniva impiegato in altro modo. Era l’esperienza della conversione, del cambiamento. Per questo le penitenze erano così lunghe e destrutturanti.

Noi tutti sappiamo che per interiorizzare dei cambiamenti attraverso i gesti quotidiani, non solo a delle parole, occorre molto tempo.

I penitenti venivano anche sottoposti ad interdizioni professionali, nel senso che non potevano svolgere alcune professioni, e ciò rimarrà, ad esempio, nella proibizione di alcune professioni agli ebrei che, essendo considerati penitenti a vita perché deicidi, venivano interdetti da tutta una serie di possibilità professionali. Essendo colpevole, il popolo ebraico era perennemente in stato di penitenza, tutto e globalmente. Questo era il motivo della stella, originaria nei ghetti papalini, poi riesumata nel ‘900, perché gli ebrei venivano, da un certo punto in poi, considerati appartenenti all’ordine dei penitenti in modo stabile.

Alcune proibizioni permanevano anche dopo la riammissione nella comunità e, nel caso di peccato grave, erano protratte fino alla morte. Sui peccati particolarmente gravi poteva verificarsi la non  riammissione nella comunità, però non si ha memoria che fosse negato il viatico anche a chi era stato escluso. L’eucarestia in punto di morte veniva data a tutti.

Questa era la prassi penitenziale pubblica, ma sono sorti dei problemi: l’espansione della chiesa  rendeva difficile il controllo; la rigorosità delle pene aumentava il rifiuto del battesimo nell’età giovanile. Così, intorno al V secolo, diminuì molto l’ordine dei peccatori, non perché le persone peccassero meno, ma perché non venivano comminate le penitenze, e comincia a crescere la prassi spirituale legata ai mondi monastici e quella del pellegrinaggio come forma di penitenza.

Intervento: di fronte alle lettere di S. Paolo sulla misericordia di Dio che aveva già perdonato tutto, tutta questa prassi cade?

Non si possono leggere le lettere di S. Paolo con l’occhio del ‘900 interrogandosi su una prassi del ‘400. Avevano le lettere di Paolo, ma il problema non era quello della misericordia divina; non era che Dio perdonasse, ma che gli uomini perdonassero. E’ diverso. Nessuno aveva dubbi sul fatto che Dio perdonava, ma avevano ad esempio un senso di realtà, che secondo me in parte noi dovremmo recuperare, per cui se tu fai delle cose, queste costituiscono una storia e dunque la conversione è una controstoria. Noi, con molta fatica, riusciamo a pensare che se uno confessa di aver rubato, dovrebbe restituire; dovrebbe, perché poi pare una grande innovazione questa in quanto, nella prassi pastorale, non è così normale, così consolidata, l’idea che si debba riparare il danno.

Noi abbiamo spesso un’idea di peccato più come moto dell’anima, come un’intenzione, che non come un dato di realtà; questo per i cristiani antichi non era affatto peccato perché erano più sani di mente di noi.

Il peccato ha sempre un dato di materialità. L’idea è: la colpa è perdonata dalla morte di Gesù, la pena no perché è il dato di realtà creato da te, dentro la storia, con il tuo comportamento. Gesù perdona e ti riammette alla comunione con Dio, ma tu ti devi occupare della realtà, il campo dove gli esseri umani vivono la loro vita.

Allora se ho rubato devo restituire, se ho parlato male, riparare. Ma ci sono mille ed un caso, e lo sappiamo benissimo, in cui dalla realtà creata non c’è più possibilità di tornare indietro. Allora il gesto rituale segnala la fiducia nel fatto che Dio creerà una realtà anche dove è impossibile. Per questo l’indulgenza è legata ad opere di carità che non cambiano il danno, ma dimostrano il cambiamento della mia esistenza. Questo non ha niente a che fare con la misericordia di Dio; riguarda la realtà della storia ed è un pensiero sano secondo me.

Intervento: in  pratica riguarda solo i maschi?

Nella sostanza sì, con poche eccezioni. Le donne attingono quasi subito molto più fortemente alla prassi penitenziale privata, più spirituale, anche perché le donne avevano meno occasione di peccare e di riparare pubblicamente.