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Storia della Chiesa (III)

Gruppo del venerdì
Dicembre 2000

La conclusione della volta scorsa verteva sulla questione della penitenza e dell’eucarestia. Questa sera dovremmo incominciare ad entrare nell’epoca della cristianità per renderci conto da dove si parte. Abbiamo raccontato alcune cose sui sacramenti per fare vedere come concretamente ci fossero diversità e uguaglianze rispetto ad oggi. Vorrei aggiungere ancora qualche osservazione.

Gli anni che stanno tra la decadenza dell’impero romano e l’inizio delle influenze barbariche sono anni in cui la liturgia, contrariamente a quanto noi normalmente pensiamo, diventa molto fastosa, carica di simboli.

Rispetto alla liturgia noi siamo abituati a pensare l’antichità come la comunità apostolica, gli Atti degli apostoli, quindi il massimo del semplice, del poco formale, del creativo. In realtà la fase iniziale dura pochissimo e la liturgia è il primo aspetto che viene regolamentato, almeno nelle sue forme principali, perché, dato che i cristiani si definiscono come coloro i quali nel giorno della resurrezione del Signore si trovano per spezzare il pane, essa è immediatamente l’elemento che li qualifica. In seguito subirà vari adattamenti ma, dal secondo secolo in poi, ha un arricchimento notevole perché viene percepita come il centro della vita cristiana, in particolar modo l’eucarestia.

Quasi subito avviene l’operazione sostitutiva con i rituali della corte imperiale che si sposta a Bisanzio e Roma si sente quasi defraudata di questi rituali.  Immediatamente, cioè nel giro di due-tre secoli, viene inglobata nella liturgia eucaristica ed avviene una specie di gara. Ad esempio il Kyrie Eleyson, che noi traduciamo Signore pietà considerandolo un atto penitenziale, in realtà è la versione grecobizantina dell’osanna, il grido di acclamazione all’imperatore quando passava e, poiché egli aveva il potere di vita e di morte, gli si riconosceva tale potere affidandosi alla sua misericordia. Quindi originariamente il Kyrie Eleyson era connesso al Gloria. Noi oggi lo collochiamo tra la richiesta di perdono ed il Gloria, ma di per sé era il Gloria, forma latina sostitutiva.

L’uso dell’incenso, delle luci, della sontuosità, cominciano a moltiplicarsi ed in pochissimo tempo la cena perde la sua forma di convito. Già lo stesso Paolo ha una polemica con i Corinti sul fatto che sia una cena reale e invita a farla diventare una cena simbolica per un po’ ancora connessa ad una cena reale.

L’eucarestia per lungo tempo è il tutto della vita cristiana e questo per noi è molto difficile da comprendere. Per noi oggi c’è la parrocchia, perché la nostra idea della vita cristiana è geografica. Per millecinquecento anni è stato “il posto” a caratterizzare l’essere cristiani e dunque tutto ciò che lì si faceva. Tra l’altro, dato che nei secoli della cristianità sempre più cose si erano fatte lì, fino all’ottocento, dai circoli ricreativi al cinema, era proprio totalmente una divisione di spazio.

Per noi, il dire cosa fa un credente, significa partire dalla coerenza di vita, ma poi definiamo impegnato uno che va in parrocchia, che è membro attivo della comunità. Nei primi secoli, invece, è chiarissimo che ciò che qualifica un credente è l’eucarestia. Noi oggi diciamo che chi va solo a messa è uno che non si impegna. All’inizio è esattamente il contrario. Andare a messa è qualificante anche perché la liturgia contiene tutto: la catechesi nel momento dell’omelia con il commento della Scrittura, ma anche alla fine, con la condivisione di carità per dare gli annunci sulle necessità delle famiglie, di altre chiese delle quali vengono lette le lettere, eccetera. Tutto questo porta ad una moltiplicazione dei ruoli molto ampia e svariata con il coinvolgimento di tutta l’assemblea dal presidente a molte altre figure.

Dal quinto secolo in poi si va ad imbuto, fino al momento peggiore nell’ottocento in cui, sia le persone, sia le cose, si unificano: il prete solo ed un libro solo che è il messale. Non esiste altro. Tutto è raccolto lì, tutto è unificato ed è strettamente e simbolicamente connesso al processo di centralizzazione della gestione della chiesa.

Vaticano II tenta di spezzare questo, rimoltiplica i libri mettendo in uso almeno il Lezionario ed il Messale (dovremmo avere Lezionario, Messale e Orazionale, con le preghiere dei fedeli), si riprende l’uso dei foglietti sui banchi che è di nuovo una forma di espansione e si reintroducono figure come il lettore ed il ministro straordinario dell’eucarestia.

Nell’antichità, ad esempio, colui che raccoglieva le offerte era l’economo della comunità e gestiva le offerte in base ai bisogni dei componenti. Tutte queste erano figure reali, non formali. Da noi c’è chi raccoglie le offerte che però vengono contate e gestite dal sacerdote.

Contemporaneamente, intorno al quarto secolo, si struttura l’anno liturgico che, a parte alcuni piccoli particolari, è ancora quello di oggi: Avvento, Natale, tempo di Natale, ordinario, quaresima, Pasqua e poi ancora ordinario. Quaresima, Pasqua e Pentecoste, nei tempi e nell’organizzazione, sono stabilizzate quasi da subito, seppure con spiegazioni diverse, mentre la più oscillante delle feste è Natale la cui data, al venticinque dicembre, viene introdotta molto tardi, dopo la caduta dell’impero romano d’occidente. La festività celebrata era la meternità di di Maria, non il Natale e così resta ora in oriente dove il problema era quello della manifestazione di Dio nella storia, per cui l’oriente festeggiava e festeggia nello stesso giorno l’Epifania ed il battesimo del Signore, i due momenti considerati l’inizio della vita pubblica. In seguito a Roma si dà forza alla celebrazione liturgica della nascita del Signore facendola coincidere con la festa pagana del sole invicto. Questo tema ha subito un’oscillazione abbastanza lunga e sarà soltanto con S. Francesco e la sua invenzione del presepio, quindi nel milleduecento, che il Natale prenderà liturgicamente il peso  e la forma attuale.

Ancora nel terzo/quarto secolo nasce ciò che avrà poi uno sviluppo notevole nel medioevo ed è molto importante per tutto quello che succederà in seguito: il culto dei martiri e l’uso dei pellegrinaggi.

Da subito si inizia ad andare sulle tombe dei martiri. E’ una cosa immediata che nasce da un uso pagano, dal pasto pagano sulle tombe dei defunti. I cristiani, quasi subito, cominciano a celebrare l’eucarestia, il pasto sacro, sulle tombe dei martiri ed ancora oggi ogni chiesa deve contenere nell’altare una reliquia perché, non potendo celebrare tutti sulle tombe dei martiri, si portano loro reliquie laddove si celebra. Ma ciò avrà una crescita esponenziale che nel medioevo diventerà la grande questione del commercio delle reliquie legata da un lato all’interruzione delle vie di comunicazione con l’oriente per cui nascerà una forma di compensazione con i vari miracoli (lo spostamento delle case, tipo il santuario di Loreto che avviene sulla costa marchigiana dove arrivavano i pellegrini dal nord Europa per imbarcarsi e scoprivano di non poter proseguire il viaggio a causa dei saraceni); dall’altro il fatto che, essendo i viaggi avventurosi, si riportano delle meraviglie, quindi reliquie sulle quali costruire chiese, sempre a partire dall’idea che la celebrazione avviene sulla tomba dei martiri.

Insieme a tutto questo nasce quasi subito l’idea dei pellegrinaggi con l’intento di visitare i luoghi biblici, come per noi i viaggi in Terra Santa, quindi la meta è Gerusalemme. Originariamente sono pellegrinaggi senza vaghi sentimentalismi spirituali, ma per andare a vedere dove è stato Gesù. In seguito si fa molta retorica ed inizia a diventare la strana esperienza spirituale per trovare e provare chissà che cosa. Poi, con la chiusura delle vie d’oriente, nascono altri percorsi come il pellegrinaggio a  Roma che diventa fondamentale, ed altri luoghi tipo Santiago di Compostela o altri che, per una serie di motivi storici, diventano centrali. Allora le vie di pellegrinaggio diventano popolari, di moda, legati a percorsi penitenziali.

Intervento: sono monasteri?

I monasteri in genere sono luoghi di appoggio, di passaggio, di riposo ed ospitalità per i pellegrini ed in genere sono legati o a santuari o a tombe di martiri. Sono tutti luoghi di posta per i pellegrini.

Intervento: La Sacra di S. Michele?

Quella è la via francigena percorsa dai pellegrini che scendevano verso Roma così come Altopascio era uno dei passaggi per evitare le paludi, dove c’erano i cavalieri del Tau che difendevano ed aiutavano i pellegrini. I punti di arrivo erano Roma con le tombe di Pietro e Paolo o luoghi di martiri o quei santuari che diventeranno poi santuari mariani.

Questo è il quadro in cui si mettono in gioco alcune questioni importanti: il monachesimo, innanzi tutto, che inizia in questa fase. Benedetto, il grande regolatore della vita monastica, la quale però nasce prima e viene dall’oriente, è collocato nel quinto secolo. Il monachesimo è un grandissimo filone che sarà importantissimo nella costruzione della cristianità perché, al di là della sua realtà concreta, di ciò che è stato ed è, resta un modello mentale, cioè diventerà la città di Dio contro lo sfacelo avvenuto con la caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche. Esso diventa proprio il modello della convivenza possibile. La relazione che il mondo monastico sa instaurare tra salute mentale, spirituale ed economica è un’utopia mai raggiunta, ma sempre operante come modello. E tutti gli ordini monastici più sono veri spiritualmente, più hanno successo, più decadono e decadendo danno origine ad una riforma interna che, poiché è spiritualmente qualitativa, ha grande successo, attira molto, attirando decade e così via.

Intervento: perché succede questo?

Perché è un equilibrio assolutamente precario, un punto delicato. Nella misura in cui si ingrandiscono diventano ingestibili. Non a caso si dice che un monastero non dovrebbe avere più di trenta monaci; oltre questo numero una struttura così utopica salta per esigenze organizzative, per accumulo di ricchezze, ecc.

Intervento: chi ha inventato questa forma di vita?  Qumran?

Culturalmente tra il secondo secolo avanti Cristo ed il secondo dopo Cristo è nell’aria il desiderio di andare nel deserto. Qumran è una forma, ma è un dato diffuso. Con il cristianesimo l’esperienza dei padri del deserto, dell’anacoretismo nel deserto èin espansione proprio perché dato culturale recepito, cristianizzato e ripetuto. Il vero dato innovativo è l’esperienza cenobitica, cioè il passaggio dalla fuga nel deserto alla situazione comunitaria, al costruire una piccola città. Quando quest’idea migra dall’oriente in occidente e casca sulla caduta dell’impero romano, trova in Benedetto il codificatore che ne fa un modello che ha una grande fortuna. Credo ci siano pochissime altre esperienze storiche in occidente con simile fortuna, con una struttura originaria che si mantiene praticamente identica per millecinquecento anni senza mostrare un filo di vecchiaia.

Questo è il primo aspetto: il monachesimo come idea mentale strutturale.

La seconda cosa che succede in questo tempo è la chiusura del dibattito dottrinale, la formazione del Credo e la fine dei grandi concili ecumenici. Lì il cristianesimo si misura con la lingua ed il pensiero greco. Strutturalmente si innerva fino a sostituirlo nell’impero romano, ma culturalmente ha una schizofrenia radicale con il mondo greco.

Questo è un problema che il cristianesimo nelle sue forme visibili si porterà dietro fino ad oggi. E’ una questione irrisolta che nasce meticcia, con un corpo romano ed una testa greca.

E lì, ed è la terza cosa, c’è il grandissimo sforzo di quelli che vengono chiamati i Padri della chiesa. Si chiamano Padri della chiesa gli scrittori dei primi cinque secoli che sono considerati di un’autorevolezza particolare, non fanno parte della Rivelazione, ma non sono nemmeno dei teologi normali. Sono un po’ meno degli scrittori della Bibbia, insieme di libri ispirati, ma molto di più dei teologi normali e vengono considerati ancora oggi con un certo grado di normatività. Sono differenziati rispetto al discorso dottrinale (quello fatto dai concili) e intorno a questioni di contenuto, di misurazione con la cultura greca, ma con l’occhio molto concreto perché il problema è la regolamentazione delle comunità.

I Padri della chiesa fanno la stessa operazione dei concili ma come singoli, spesso sono anche vescovi, ma come singoli provano ad articolare una cultura ed un linguaggio soprattutto con preoccupazione di catechesi, di spiegazione. L’operazione da loro condotta è un modello di inculturazione a tutt’oggi molto interessante. Prendono le parole, le piegano con un sapientissimo uso comunicativo da un lato, cioè con capacità di usare ciò che la cultura produce per spiegare, e dall’altro con uso critico, cioè capacità di spiegare perché la cultura non funziona così.

Esistono testi dei Padri, tipo le catechesi di Cirillo, che sono assolutamente un capolavoro. E’ come se noi oggi riuscissimo a produrre un “grande fratello”, così intelligente e così bello da guardare, da riuscire ad attirare milioni di spettatori, ma che, facendo ciò, spiegassimo perché è da stupidi produrre tale programma. Sarebbe un capolavoro comunicativo di livello sopraffino: usare un meccanismo in modo critico, ma con un grande successo esplicativo.

Ed è vero che uno dei grandi problemi della chiesa di oggi è lo stesso di quello che avevano i Padri: dire cose che rischiano di non significare nulla. Essi parlavano ai greci senza più il carisma di Paolo. Così, ad esempio, dicono che sarebbe stato bello per voi poter ascoltare gli apostoli, invece vi tocca ascoltare me che apostolo non sono, non ho avuto tale fortuna; forse non l’ho meritata, forse c’è un motivo più grande che la provvidenza non mi ha spiegato. Fatto sta che qui ci sono io, vostro vescovo e voi di fronte a me. Se Paolo vi dicesse: il Signore è risorto ed io l’ho visto, voi potreste credergli. Ma io non posso dirvi ciò. Posso soltanto dirvi: il Signore è risorto ed io lo credo. Ma se voi mi dite: che cosa significa questo per me…. Ed incomincia ad entrare nella mente e nella logica dei suoi interlocutori.

Questa è un’operazione che i Padri fanno in modo meraviglioso.

Allora: il monachesimo, la definizione dottrinale dei Concili, i Padri, sono la buona seminagione, ciò che consentirà, nei tre secoli successivi molto travagliati, che il cristianesimo non solo non si perda, ma sostituisca e costruisca le strutture, cioè lo scheletro capace di consentire a questa esperienza di diventare riferimento nella grande transizione culturale, e, addirittura, l’ esperienza vitale.

Questi tre aspetti sono la base della cristianità, non il suo contrario come spesso siamo abituati a pensare: cristianità, il potere, Bonifacio VIII e poi dall’altra parte i Padri della chiesa. Non è affatto così. Sono questi tre elementi che consentono alla cristianità di essere. Poi certamente succedono altre cose.

 Intervento: mi pare che ci sia stata una questione sui concili ecumenici.

C’è una grande discussione. Infatti ancora oggi non è ufficiale la lista dei concili ecumenici. Ecumenici significa convocati  dal papa o dall’imperatore nei primi secoli e con quasi tutti i vescovi presenti ed è una definizione poco giuridica nel senso che nei primi secoli questa è stata una delle questioni. Per esempio al concilio di Efeso in cui si doveva discutere la questione se Maria era o no Madre di Dio, tutti i vescovi contrari non sono stati invitati. Poi però ci sono andati lo stesso.

L’area era grosso modo l’impero romano con un maggiore ampliamento della costa africana rispetto all’impero ed un leggero ampliamento minore a nord. Più verso l’Africa che verso il nord Europa ed un po’ più allargata ad est. In sostanza il bacino del Mediterraneo.

Ai concili ecumenici di Calcedonia, Efeso sicuro, partecipano quasi unicamente i vescovi dell’Asia Minore, di parte dell’Africa del nord ed i legati del vescovo di Roma. I vescovi delle Gallie sono abbastanza tagliati fuori. Ad Efeso arrivano anche gli altri, si mettono a bisticciare e gli abitanti li chiudono dentro una basilica minacciandoli, se non raggiungono un accordo, di dar fuoco all’edificio con loro dentro. L’accordo non è raggiunto e la chiesa viene incendiata: la gente aveva un controllo diretto sui concili.

 

Su questa questione inizia il tema che ci interessa, cioè l’origine della cristianità ed in particolar modo l’organizzazione delle chiese. In questo tempo le chiese sono organizzate in modo molto diverso da oggi. Occorre fare lo sforzo di abbandonare l’idea che noi abbiamo attualmente perché, anche quando si usano le stesse parole, il significato è diverso.

Le chiese mano a mano sostituiscono le strutture imperiali; il che vuol dire che sostanzialmente le sposano assumendone lo stesso tipo di organizzazione. Il vescovo in genere è il capo di una comunità ecclesiale di una città, quindi di un territorio urbano. Corrisponde a quello che noi oggi diremmo un vicario, come se i cinque parroci della nostra città ne eleggessero tra di loro uno. Le città si integrano tra loro in una provincia ed il vescovo della capitale della provincia, chiamata metropoli, è il vescovo metropolita che ha in genere una sorta di privilegio molto concreto, non di onore: solo lui può indire i concili provinciali. Però parliamo di cinque, al massimo sette vescovi; una conferenza episcopale regionale, anche un po’ meno. Ed era la vecchia provincia romana. Nessun vescovo poteva essere eletto senza il beneplacito del vescovo provinciale. I vescovi venivano eletti dal popolo, non nominati da Roma, però occorreva il placet del vescovo provinciale garante della tradizione.

 Intervento: eletto tra i preti?

Non necessariamente. Ambrogio ad esempio è eletto diacono, poi ordinato prete e vescovo contemporaneamente. Però succede che ci sono posti migliori di altri e, dato che gli esseri umani sono sempre stati uguali, ci sono quelli che maneggiano per diventare provinciali. Su questo tema c’è una disciplina durissima  per cui un vescovo eletto a capo di un posto non può per tutta la vita andar via di lì perché il principio è che il vescovo è immagine di Cristo sposo della sua chiesa ed il matrimonio è indissolubile. Ad esempio si dà il caso che muoia il vescovo di una certa città ed i fedeli, non trovando intorno alcuno degno di sostituirlo, ne eleggono uno già vescovo di un altro posto, come è stato per Girolamo, vescovo di una borgata, eletto vescovo a Costantinopoli. Egli ci pensa un po’, poi decide di accettare. Ma il concilio lo rimanda malamente alla sua borgata perché non si può tradire la propria sposa.

Dietro questa norma c’è un principio organizzativo della chiesa sul quale ora si sta  ricominciando a discutere molto; ed è l’idea, al di là delle immagini simboliche, che esiste una soggettività delle chiese e poi ci sono ministeri che servono a delle chiese, cioè ci sono preti ordinati per servire una comunità e lì stanno finché sono in vita.

Man mano questa idea si rovescia radicalmente per passare ad una struttura con un suo apparato (preti e vescovi) e che dispone l’apparato a seconda delle proprie necessità. Così, se prima il canone antico proibiva addirittura lo spostamento di un vescovo, oggi canoni e regolamenti diocesani proibiscono che un prete stia più di un certo tempo in una parrocchia perché potrebbe, con il tempo, considerarla cosa sua. Quindi c’è tutta una serie di ragionamenti anche morali, ma, ovviamente, l’idea che sta dietro è che, essendo il prete un funzionario di una struttura, è a disposizione di questa. E’ chiaro invece che, per l’idea originaria, il soggetto è la comunità in cui c’è necessità di un servizio e la possibilità di controllo. E’ proprio un altro concetto: non sono i funzionari di un’organizzazione ma il servizio necessario alla comunità.

Tale idea rimane molto forte nel mondo monastico dove si dice che non è necessario che tutti i monaci siano preti ed è chiaro che il ministero serve a garantire l’eucarestia, e basta.

Questo è uno spostamento strutturale avvenuto dopo il sesto secolo ed ha cambiato il volto delle chiese. Oggi si incomincia a ragionarvi sopra perché, progressivamente, dal punto di vista giuridico, la questione, nel 1700-1800, si è strutturata, di fatto, con una doppia azione: dopo l’ordinazione un sacerdote riceve una ” missio canonica” cioè l’incarico di dove essere prete o vescovo e per fare che ed i due elementi non sono connessi per cui, ad esempio, l’ordinazione, come il battesimo, dà un carattere, non può essere cancellata; la missio canonica è un atto giurisdizionale che può essere ritirato. Per questo si dice “sospeso a divinis” quando il prete non può più celebrare e fare altre cose.

Il problema è che, se si struttura in questo modo, ci vuole un’autorità centrale per dare le missio canoniche mentre nella chiesa originaria l’ordinazione era contestualmente per la comunità alla quale veniva riconosciuto molto più potere.

La seconda questione è che nella chiesa, fin dalle origini, ci sono alcune sedi episcopali che, per motivi di prestigio, di legami a martiri o apostoli, hanno il privilegio di essere considerate sedi maggiori. Sono in particolare quelle che diventeranno i cinque patriarcati, tendenzialmente le sedi di partenza delle grandi evangelizzazioni: Roma, Alessandria, Antiochia, Cartagine e Bisanzio. I vescovi di queste città progressivamente acquisiscono un privilegio, di onore, prima, poi anche giuridico, sulle province sottostanti, per cui si inizia a parlare di sinodi locali. A partire da Diocleziano le province vengono raccolte in diocesi con privilegi sulla consacrazione, sui sinodi, su decisioni in materia di culto. Man mano si verifica, da un lato, una crescente importanza di Costantinopoli, legata ovviamente al suo ruolo politico e, dall’altro, di Roma per necessità di bilanciamento e di autonomia dall’imperatore.

Succede così che, da un lato Gerusalemme incomincia a richiedere  un privilegio di importanza e, dall’altro, cambiano via via gli equilibri politici. Alla fine di tutto ciò emergono Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme, Alessandria per l’oriente e Roma per l’occidente. Con lo spostamento dell’asse di potere verso nord e verso l’occidente (Spagna e Gallie diventano sempre più importanti) Roma diventa la più importante perché Aquileia, unico controbilanciamento possibile, verrà sopraffatta.

 Intervento: le diocesi praticamente sono create sotto Diocleziano in tempo di persecuzione?

Le diocesi sono nate come strutture imperiali, quando l’impero stava già sbriciolandosi Diocleziano istituisce una struttura intermedia tra le singole province e l’impero perché non riusciva più a controllare tutto. Immediatamente la chiesa si appoggia su questa mutazione politica ed inizia ad organizzare la logica dei patriarcati che sono sovraprovinciali perché intuisce che tale struttura può essere utile. Il termine diocesi viene mutuato dal linguaggio politico e quando dico che le diocesi nascono sotto Diocleziano intendo in termini politici.

Intervento: ma i vescovi quando sono nati?

Subito, nel senso che la lettera di Ignazio, considerata il primo scritto in cui si parla di un episcopato di tipo monarchico, è del primo secolo. Nei primi due secoli convivono forme diverse; si chiamano episcopato collegiale ed episcopato monarchico, cioè il governo di un piccolo gruppo di anziani o quello di vescovi singoli. Il problema è che l’episcopato nasce subito come riferimento, ma non c’è ancora la diocesi come noi l’abbiamo in mente.

Intervento: e invece i preti…..

All’inizio non c’è una netta distinzione tra vescovi e preti, ma una struttura che noi oggi definiremmo di gruppo che si riunisce nelle case ed in modo quasi naturale ci sono dei leader. Il celibato ecclesiastico è del sesto secolo, il che vuol dire che si inizia a sacralizzare questa figura e a darle un ruolo diverso sei secoli dopo. All’inizio semplicemente c’è un cristiano stimato che ogni domenica gestisce il gruppo ma non avvengono elezioni. Le comunità sono piccole, in genere si conoscono tutti personalmente ed ascoltano più uno di altri perché magari ha conosciuto gli apostoli, ha autorevolezza, è pio.

Per noi è molto difficile immaginare questi tempi. I vescovi, nel senso di figura giuridica nella forma di un ruolo riconosciuto, pubblico, con certi compiti e certi diritti, come noi lo immaginiamo, nascono più o meno tra il quinto e sesto secolo.

Poi, più si abbandona la dimensione di conoscenza personale, più si comincia ad organizzarsi per cesure geografiche, più si strutturano le figure perché non ci si può più basare su rapporti individuali di stima e di conoscenza, anche se ancora stiamo parlando di numeri molto limitati.

Intervento: ma questi vescovi e preti avevano già una differenza?

Questo è l’altro modo nel senso che, fino a quando il discorso del cristianesimo rimane un discorso urbano, in genere c’è il vescovo come figura unitaria; poi ci sono prestigi diversi. Quando, come vedremo adesso, intorno al sesto secolo, legato poi al settecento-ottocento, avvengono le invasioni barbariche, il cristianesimo si trasforma da religione urbana in religione agricola e, altro nodo chiave, nasce tutta la questione dei gradi all’interno dell’episcopato, nel senso di prete diverso da vescovo.

Intervento: e questo cosa c’entra con la liturgia?

Non confondiamo. I primi due secoli sono una questione a parte perché la strutturazione è praticamente inesistente, totalmente funzionale. Dal secondo al sesto secolo, invece, tutti i ruoli legati all’eucarestia diventano ruoli episcopali, molto chiari e connessi perché l’eucarestia diventa il luogo di identificazione di tutta la questione. Però stiamo ancora parlando di comunità molto piccole con un numero molto ridotto di vescovi. Al concilio ecumenico di Nicea il numero dei vescovi non arrivava a ottanta. Vaticano II ne aveva tremilacinquecento. Oggi sono quattromilaseicento.

Un conto è pensare ad un’organizzazione di presenze come ora, un conto è parlare di una realtà sparsa per tutto il bacino mediterraneo con ottanta vescovi.

Intervento: all’inizio non ci sono ancora particolari ordinazioni se a presiedere la comunità ci sono quelli più credibili?

No invece, si parla di ordinazioni fin da subito, ma non erano quello che noi oggi intendiamo. Quando dicevo che necessitava del riconoscimento da parte del vescovo provinciale egli imponeva le mani in un gesto sacramentale con altri due vescovi della provincia, era l’episcopato della zona che lo accoglieva. La nomina era popolare. L’atto sacramentale dell’ordinazione è antichissimo perché nato dall’idea della successione apostolica che non può essere interrotta. Ma perché questo si strutturi come oggi (si dice potere di governare, santificare, insegnare)…. questo è del millecinquecento.

Intervento: dunque la gente sceglieva poi seguiva l’ordinazione?

Non sempre, la questione era molto dialettica. Noi oggi abbiamo in mente che esiste un’entità di nome chiesa cattolica, con una sua vita propria e poi ognuno vi entra o no, se crede certe cose ne fa parte, se non crede può essere estromesso. Come dire: c’è la FIAT, mi assumono, non mi assumono, potrei essere licenziato in base ad una serie di criteri in cui è molto chiaro che posso avere motivi anche ottimi per dire che faccio in un certo modo, consapevole del rischio di essere mandato via. Però la FIAT esiste, c’era prima di me e continuerà dopo di me.

Nella testa delle persone non era così. Funzionava come una libera associazione nella quale ognuno partecipava sapendo che, senza l’apporto personale di ciascuno, essa non sarebbe sopravvissuta perché non era un’entità esistente in astratto, al di là di chi ne faceva parte. Ma, se si impiegano energie, poi si vuol anche poter dire la propria opinione. Per noi invece la chiesa è una struttura, come la scuola, lo stato, un’entità quasi metafisica che esiste prima di noi, dopo di noi, senza di noi. Questo deriva proprio dal rovesciamento di cui dicevo prima: nella misura in cui il ministero non è più per la comunità ma un funzionariato, autoreferenziale, si suppone l’esistenza di una struttura con questo personale.

Ciò è dovuto al fatto che la chiesa, innervatasi sulla caduta dell’impero romano, viene a trovarsi nella necessità di darsi una struttura visibile che faccia da referente alla gente sbandata. E, nel sostituire, diventa una struttura sociale come un impero, un esercito. Quindi la cosa nasce per sollecitudine pastorale, per mancanza di modelli alternativi ed impossibilità di prevedere che cosa sarebbe successo millecinquecento anni dopo.

L’operazione è stata fatta, ma con il risultato che noi oggi ci troviamo dall’altra parte della parabola. E’esattamente come nel discorso della vita fatto molte volte ed in cui si distinguono due ambiti per poter meglio chiarire ma, tempo dopo, c’è il problema di unirli perché non stanno più insieme.

Una figura chiave rispetto a questo passaggio è Leone, detto Magno, vescovo di Roma, nel 172, prima perché si occuperà di fronteggiare i barbari convincendo Attila ad andarsene, poi perché è stato un grandissimo vescovo. Le sue omelie sono di piacevole lettura anche oggi; quelle sul Natale sono una meraviglia. Molto colto, ha contribuito con il Tomusad Flavianum alla dichiarazione di Calcedonia sul tema Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, uno dei pilastri nell’esperienza cristiana, ed è proprio come ci piacerebbe avere oggi, vescovo preparato, perspicace e con il senso della gente, delle cose da fare; un Helder Camara che tanto contribuisce alla teologia del concilio quanto fa l’opzione per i poveri, sapendo dove deve stare.

Leone, nei suoi innumerevoli pregi è, ahimè, l’iniziatore della centralità romana perché grande cultore dell’impero nella sua forma migliore. Vedeva nell’impero la mano di Dio che si realizzava per l’ordine e la pace creata dall’impero stesso, ma si trovava a vivere con i barbari alle porte. Sarà molto contrastato dall’esperienza monastica che tenta una città alternativa, l’altra cosa, non il mondo pubblico, politico, ma quello piccolo, vitale. Egli è, comunque, colui che ha scritto la frase che ancora ci disturba: “Pietro parla per bocca di Leone”, con la quale iniziava le sue lettere.

Da qui in poi si incomincia a dire: il vescovo di Roma successore di Pietro mentre prima si diceva: il vescovo di Roma successore a Pietro, cioè succeduto sulla cattedra di Pietro, sullo stesso suo luogo. Da “successore di Pietro”, deriverà poi “vicario di Cristo”. Un bello slittamento. Pio XII verrà definito “il dolce Cristo in terra” e storicamente è inevitabile perché chiude la parabola arrivando fino all’estrema conseguenza di questa costruzione. Anche qui non si può essere dei puristi, non siamo angeli, non si può giudicare cento anni dopo quello che è accaduto di cento anni prima.

Intervento: al tempo di Leone forse era necessario avere anche l’idea di impero come grande ordinatore, ma al tempo del dolce Cristo in terra si poteva evitare perché c’erano già stati dei richiami alla prudenza

Questo mi pare un po’ semplicistico. Non sto sostenendo che sia giusto, sto dicendo che se tu strutturi una forma di chiesa in un certo modo, nata da motivi assolutamente comprensibili, non è una cosa banalissima invertire la tendenza. Leone, che di fronte ad Attila dice di non entrare nella città e di non violare l’impero, possiede grande carisma, ed è chiaro che poi dice: “ Pietro parla per bocca di Leone” perché ha bisogno di tutta l’autorità possibile per gestire la situazione. Ma poi da questa cosa viene costruita una storia delle conseguenze.

Il fatto straordinario è Vaticano II, la novità della linea di sviluppo, non la definizione di Cristo in terra su Pio XII. Questo è normale, secondo la logica degli uomini e secondo una struttura che mano a mano, per la storia delle conseguenze, rotola come una valanga ed evolve lì.

La botta di Spirito Santo è che, ad un certo punto, venne un uomo chiamato Giovanni e disseche i flabelli fanno un po’ imperatore egiziano, maglio lasciar perdere.

Noi ora siamo tutti superabituati ai viaggi del papa, ma chi va a Regina Coeli come prima uscita ufficiale da quando il papa si era chiuso contro lo stato italiano, è Giovanni XXIII. Quello è un atto critico e profetico che interrompe la logica delle cose e che nessuno poteva onestamente prevedere. E’come per l’89. Ora tutti dicono: “Era chiaro che i regimi comunisti sarebbero caduti. C’erano molti segnali”. Ma chi li aveva visti?. Nell’88 nessuno si immaginava la caduta del muro di Berlino.

Dopo Vaticano II tutti noi dicevamo: “Potevano svegliarsi prima i papi”. I segnali c’erano, ma non erano così facilmente decifrabili. Pio XII non mi stupisce; Giovanni XXIII sì.

L’altro giorno ero con dei ragazzi, tutti più che ventenni, con i quali si stava portando avanti un lavoro ed ho fatto loro vedere due cassette recuperate dalla RAI con il discorso di Paolo VI all’ONU in cui dice che bisogna interrompere la cultura degli armamenti perché  le armi sono pericolose, ma soprattutto perché le armi danno cattivi sogni ed i cattivi sogni danno cattiva coscienza e la cattiva coscienza rende infelici, tristi e rancorosi. Il discorso, di alto livello, è tutto sul perché della pace.

Reazione dei ragazzi, non bambini: “Ma questo non parla come un papa. Sei sicura che lo sia?”. Abbiamo fatto un lungo ragionamento e visto anche documenti (“Pacem in terris”, “Populorum progressio”) su cui anni fa ci eravamo anche permessi di criticare, ed erano allibiti in quanto c’è una distanza abissale tra quei tempi e questi. Se questo succede in vent’anni, figuriamoci nei secoli da Leone a Pio XII.

Tutto ciò ha un punto di crisi più o meno intorno al IV secolo: finiscono le persecuzioni, c’è un secolo di pace, l’intera società è sistemata ed arrivano i barbari. E’ un trauma mentale, paragonabile solo al trauma dei cristiani per la prima guerra mondiale, con la caduta dei grandi imperi, l’uso dei gas e la prima volta in cui si istituiscono i cappellani militari i quali stavano sia da una parte che dall’altra. Uno dei punti classici di questo dramma sono state le grandi conversioni degli anglicani con tutta la letteratura dei convertiti al cattolicesimo.

E’ lo stesso passaggio: si sposa faticosamente una struttura, si fa del proprio meglio per farsi accettare, si abbraccia una forma e, quando si pensa di essere riusciti, la forma si sgretola. E pare la fine del mondo.

Questo, di fatto, porta una nuova geografia: i monaci creano il sogno, l’utopia della città di Dio. Agostino scrive la città di Dio e muore con i Vandali alle porte. Leone è alle prese con Attila e poi cade Roma sotto i barbari.

Esaminiamo i documenti (88-89-90).

Il primo è di Girolamo, l’autore della Vulgata. Il suo ambiente di provenienza è quello di nobiltà colta romana. Poi egli finisce sul monte Carmelo a tradurre la Bibbia in latino con un gruppo di donne sue ispiratrici. Scrive molte lettere, un ricchissimo epistolario. Nel suo monastero di Betlemme apprende la notizia della presa di Roma e scrive:

“Contemporaneamente mi annunciarono la morte di Pammachio e di Marcella, la presa di Roma e la morte di un gran numero di nostri fratelli e sorelle. Io ne fui costernato, sconvolto, stupefatto.

Giorno e notte non pensavo ad altro, mi credevo prigioniero con loro, quei santi. Ero impaziente di saperne di più su questi avvenimenti, lacerato com’ero tra la speranza e la disperazione. Mi addossavo la mia parte di croce dei mali del prossimo. Ma quando la gloriosa luce del mondo si è spenta, quando la capitale del nostro Impero è stata presa, quando, in questa sola città, sono periti l’universo intero e la civiltà, allora io mi sono macerato, mi sono umiliato, non ho potuto più pronunciare una sola parola e il mio dolore è diventato più vivo; il mio cuore ha bruciato e, mentre medito, un fuoco mi infiamma.

Niente è tanto lungo da non avere un termine; i secoli scorsi sono per sempre passati e si ha ben ragione di dire che tutto ciò che comincia deve perire, tutto ciò che cresce conosce la decrepitezza e la morte. Non c’è alcuna opera creata che la vecchiaia non attacchi e non faccia sparire. Ma Roma! Chi poteva pensare che, edificata con le vittorie riportate sul mondo intero, essa sarebbe crollata divenendo la tomba dei popoli di cui era stata la madre?. Tutte le coste dell’Oriente, dell’Egitto e dell’Africa sono ora piene dei suoi figli, schiavi fuggitivi. Chi avrebbe detto che Betlemme, la santa, avrebbe ricevuto, un giorno, come mendicanti, uomini e donne un tempo nobili e ricchi?. Ahimè! Noi non possiamo soccorrerli tutti, ma possiamo piangere con loro, mescolare le nostre lacrime alle loro”.

(GIROLAMO, Commento ad Ezechiele, Prefazione,

in M. MESLIN e J. R. PALANQUE, Le Christianisme antique).

 Sui barbari c’è invece Orosio, presbitero di Braga, in Portogallo. Fuggito davanti ai  Vandali si era rifugiato ad Ippona presso S. Agostino. Nella sua “Storia contro i pagani”, propone una visione cristiana della storia universale da Adamo al 417.  Scrive così:

“Chi può saperlo?. I barbari sono penetrati nell’Impero quando ovunque, in Oriente ed in Occidente, le Chiese del Cristo erano piene di Unni, Vandali, Burgundi ed innumerevoli altri popoli credenti. Non bisogna allora gioire e celebrare la misericordia divina perché, grazie alla nostra rovina, tanti popoli hanno conosciuto la verità con la quale non sarebbero mai entrati in contatto?”.

(Orosio, Histoire contre le paiens, VII, 41,

citato in SCHNURER, Eglise et civilisation au Moyen Age, t., p 152)

A me paiono, scusate il paragone, i discorsi di trenta anni fa nelle parrocchie e nelle chiese sulla secolarizzazione che era il grande crollo, la fine di tutto oppure la grande occasione, la purificazione.

Il terzo documento, di Gregorio di Tours, parla della conversione di Clodoveo. Nei suoi scritti e, in particolare nella Storia dei Franchi, Gregorio ci informa sulla vita politica e religiosa della Gallia del V e VI secolo. Egli scrive:

“L’armata di Clodoveo incominciava a essere sconfitta; vedendo ciò Clodoveo levò le mani al cielo e con il cuore spezzato e in lacrime disse: “Gesù Cristo, che Clotilde chiama Figlio di Dio vivente (Clotilde, sua moglie, era cristiana, egli invece pagano) che, si dice, vieni in aiuto di coloro che sono nei pericoli e accordi la vittoria a coloro  che sperano in te, io chiedo, con devozione, il tuo aiuto. Se tu mi accorderai la vittoria sui miei nemici e io potrò avere la prova della tua potenza, già sperimentata dal popolo consacrato al tuo nome, io crederò in Te e mi farò battezzare nel tuo nome perché io ho invocato i miei dèi ed essi non mi hanno aiutato. Ciò mi fa credere che essi non hanno alcun potere perché non soccorrono coloro che li servono. Io ti invoco, dunque, desidero credere in te; fa’ che io scampi ai miei nemici”. Appena disse queste parole i Germani, volgendo le spalle, si diedero alla fuga”.

(GREGORIO DI TOURS, Histoire des Francs, Ed 10/18, p58)

Questo tipo di cose può farci sorridere però dovremmo riflettere, nel senso che noi abbiamo una concezione della fede come scelta personale ed è una solenne storia, figlia dell’ottocento, del novecento, del romanticismo, della razionalizzazione. Questo, di Clodoveo, era un senso molto più storico-salvifico e molto più vicino all’Esodo. Il popolo, schiavo, grida dall’Egitto ed allora Dio fa cadere le città, spalanca il mare poi lo chiude agli egiziani.

Voglio dire, attenzione prima di avere una reazione immediatamente a partire dalla nostra sensibilità considerata, per altro, l’unico modo corretto e spirituale di vivere la fede. La fede ha tante storie, dunque nell’ottocento e novecento non potrebbe essere altro che misurata sulla soggettività, sull’individualismo borghese, ma, ad esempio, c’è tutta una componente storica, collettiva, di percezione di intervento di Dio nella storia che questi autori raccontano così come Giulio Cesare racconta il De bello gallico. Ma al di là delle parole è la percezione che Dio sta da una parte o dall’altra, non è neutrale.

Quando noi oggi diciamo che Dio sta dalla parte dei poveri, non diciamo tanto di diverso. A noi pare più intelligente perché sembra brutto dire: “Io sono il re, sto dalla parte di Dio, ho ragione”; ci pare antidemocratico. Però non c’erano alternative ai tempi di Clodoveo.

Ho scelto questi tre testi perché , da una parte, c’è Girolamo disperato, “non c’è più religione”; dall’altra il prete del Portogallo periferico, già un po’ meticcio, un po’ barbaro di suo e bisogna essere nati ai confini dell’impero per poter  pensare che, in fondo, se crolla Roma si può sopravvivere ugualmente. Orosio, prete di Braga, non contava neanche con Roma in piedi.

Infine c’è Clodoveo, barbaro, ma franco, quindi un po’ diverso da Ostrogoti ed Unni visti come la rovina. Ma i Franchi saranno il tramite verso la inculturazione cristiana dell’Europa. La stirpe dei Franchi, con Carlo Magno, sarà poi il veicolo con cui l’asse si sposta verso nord e cambia la storia.

Allora, tra la sensazione che sia la fine del mondo e la sensazione che fosse un’opportunità, tutto ciò che succede in questo sconvolgimento che ha rotto una serie di strutture, per la chiesa ha una svolta fondamentale con la presenza dei Franchi di cui i longobardi, grandi mediatori culturali, sono il tramite. I barbari convertiti al cristianesimo sono quasi tutti ariani, seguaci di Ario, il quale, contro Nicea, non accettando Gesù vero Dio e vero uomo, sosteneva che in Lui c’era una sola natura, quella divina. Era Dio e basta.

Il ruolo dei Franchi sarà fondamentale in quanto innesterà la questione di deculturalizzare il cristianesimo dei Padri, misuratosi con la cultura greca, ma strutturerà il cristianesimo. Ed i Franchi saranno il grande veicolo con cui l’asse si sposterà verso nord e verrà fatta una grande opera di semplificazione e di riorganizzazione che contribuirà ulteriormente ad incanalare la visione unitaria.

Nel frattempo succedono due fatti abbastanza importanti che vedremo: nasce l’Islam e in Oriente Giustiniano elabora il primo codice di legge che sarà la base su cui è costruito il codice di diritto canonico e nasce la codificazione.

Stiamo parlando del VII-VIII secolo quando inizia a formarsi la chiesa così come noi la conosciamo perché si cominciano a stabilire le cose per scritto: bisogna fare una regola e si scrive in un codice con tutti i casi previsti attuando l’idea di semplificazione dei Franchi con l’eliminazione delle infinite discussioni. Esempio: qual è la soluzione migliore per eleggere un vescovo? Lo nomini il vescovo di Roma. Il vescovo di Roma nomina tutti i vescovi.

 

Intervento: in quali anni?

L’operazione va dal settecentocinquanta al novecento, grosso modo fino intorno all’anno mille.

 

I Franchi, essendo grandi organizzatori, codificatori e semplificatori, sono assolutamente negati per la dottrina. Lasciano l’aspetto dottrinario alle università ed alle scuole delle cattedrali e ci saranno, dal mille al millequattro, i quattro secoli d’oro della teologia in cui tutto il materiale copiato nei monasteri e poi tutti i greci, attraverso traduzioni fatte dagli arabi, arriveranno in Europa. Nessuno leggeva più il greco, così dal greco all’arabo, dall’arabo al latino, S. Tommaso riuscirà a leggere Aristotele.

Qualcuno potrebbe pensare, essendo noi in una situazione abbastanza simile: forse per i prossimi quattro secoli bisognerà copiare. Da chi, e che cosa? Per esempio per me un’opzione è spiegare la tradizione, lavoro di copiatura non particolarmente originale, ma resta chiaro che è un modo per mantenere “i manoscritti”.