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Storia della Chiesa (VI)

Gruppo del venerdì
Marzo 2001

Vorrei riprendere uno dei discorsi che la volta scorsa avevamo lasciato in sospeso, cioè la questione dello scisma con l’oriente perché è interessante vedere due testi: la sentenza di scomunica del cardinale Umberto contro Michele Cerulario (1054) e la dichiarazione congiunta di Paolo VI e Atenagora (7 dicembre del 1965).

Umberto entrò nel 1015 nel monastero di Moyenmoutier (Vosgi) e divenne un convinto fautore della riforma della Chiesa. Il papa Leone IX, che era stato vescovo di Tours, lo portò a Roma come segretario, lo fece cardinale e gli affidò molti incarichi, tra cui quello di messo a Costantinopoli. Era un uomo di carattere, ma rude, senza elasticità e senza misericordia.

Michele Cerulario (1000-1058), nato in una grande famiglia di Costantinopoli, era diventato monaco dopo la carcerazione per un complotto contro contro l’imperatore. L’amicizia di un altro imperatore gli valse la dignità patriarcale nel 1043. Si mostrò molto avverso ai Latini. Nel 1058, fu arrestato e deportato dall’imperatore Isacco Commeno e morì prima di essere giudicato. Questi personaggi, Umberto per la parte latina, Cerulario per la parte orientale, si scomunicano vicendevolmente.

Documento: “Quanto a Michele, al quale si attribuisce abusivamente il titolo di patriarca, e ai sostenitori della sua pazzia, essi seminano un’abbondante zizzania di eresia, ogni giorno, nella città di Costantinopoli. Come i simoniaci, vendono il dono di Dio; come i valesi essi fanno dei loro ospiti degli eunuchi per elevarli in seguito non solamente al sacerdozio ma all’episcopato (…). Come i nicolaiti, permettono ai ministri del santo altare di contrarre matrimonio (…). Come gli pneumatomachi, essi hanno soppresso nel simbolo la processione dello Spirito Santo a filio (…). Come i manichei dichiarano che il pane fermentato è animato. Inoltre lasciando crescere barba e capelli, rifiutano la comunione a coloro che, seguendo il costume della Chiesa romana, si fanno tagliare i capelli e si radono la barba (…).

Per questo motivo, non potendo sopportare queste ingiurie inaudite e questi oltraggi verso la sede apostolica, noi firmiamo contro Michele e i suoi discepoli l’anatema che il nostro reverendissimo papa aveva pronunciato contro di loro qualora non avessero ritrattato:

Che Michele il neofita, che porta abusivamente il titolo di patriarca (…) e tutti quelli che lo seguono negli errori suddetti, cadano sotto l’anatema, Maranathà, con i simoniaci (…) e tutti gli eretici, anzi con il diavolo e i suoi angeli a meno che non si convertano. Amen, amen, amen!“.

(Citato in JUGIE M., Le scisme byzantin, pp. 205ss.)

L’aspetto interessante di questo testo è, come si vede, che tutto viene mescolato: questioni dogmatiche, come quella del filioque, questioni organizzativo-giuridiche, tipo il matrimonio dei preti, questioni ecclesiastiche piuttosto secondarie, come ad esempio il radersi la barba che per i latini, soprattutto intorno al mille, era un problema, perché la tradizione rimandava un’immagine dell’antica Roma con i romani rasati mentre i barbari portavano barbe e capelli incolti. Mettendo insieme tutto si giunge ad un tono assolutamente da massacro. Ogni volta in cui viene nominato Michele si dice che abusivamente si attribuisce il titolo di patriarca perché il patriarcato gli era stato attribuito dall’imperatore e non dal vescovo di Roma. E’ veramente l’esito finale di un paio di secoli di incomprensioni a partire dai quali, ad esempio, fino al codice del 1917, era proibito ai preti latini di portare la barba mentre, per contrasto, i pope ancora oggi portano capelli lunghi, dopo l’ordinazione, e la barba folta. E’ una storia di scorrettezze in cui tutto è stato mescolato.

Con la dichiarazione comune Di Paolo VI e del patriarca Atenagora, si trova un cambiamento radicale di clima.

Documento: “Tra gli ostacoli che si trovano sul cammino dello sviluppo di questi rapporti fraterni (tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa ortodossa) di fiducia e di stima, c’è il ricordo delle decisioni, degli atti e degli incidenti penosi che hanno portato, nel 1054, alla sentenza di scomunica lanciata contro il patriarca Michele Cerulario e due altre personalità, dai legati della sede romana guidati dal cardinale Umberto. Tali legati furono essi stessi poi colpiti da una sentenza analoga da parte del patriarca e del Sinodo costantinopolitano.

Il papa Paolo VI e il patriarca Atenagora I con il suo Sinodo, (anche qui si usa la dizione soggettiva, cioè si dice il titolo di maggior prestigio per il papa latino dal punto di vista latino ed il titolo di maggior prestigio, per la Chiesa d’oriente. Ciò sembra banale ma è un passaggio fondamentale perché per la prima volta la Chiesa latina firma una dichiarazione costruita con il doppio sistema di gerarchia. La Chiesa latina anche prima, con gli Uniati, con i Maroniti, ha sempre preteso nel firmare una cosa in cui il testo fosse scritto secondo la logica latina, senza contenere alcuna espressione letteraria riportante alla logica degli altri. Questo documento invece è costruito in parallelo, come se fossero alla pari), consapevoli di esprimere il sentimento comune di giustizia e il sentimento unanime dei loro fedeli e ricordando il comando del Signore: “Se dunque tu, nel fare la tua offerta all’altare” (Mt 5,23-24) dichiarano di comune accordo:

  1. di deplorare le parole offensive, i rimproveri senza fondamento e i gesti condannabili che, da una parte e dall’altra, hanno contrassegnato o accompagnato i tristi avvenimenti di quell’epoca;
  2. di deplorare, anche, e di cancellare dalla memoria e dal seno della chiesa, le sentenze di scomunica che vi hanno fatto seguito ed il cui ricordo è stato, fino ai nostri giorni, un ostacolo al riavvicinamento nella carità e di condannarle all’oblio;
  3. di deplorare infine, i dolorosi precedenti e gli avvenimenti ulteriori che, sotto l’influsso di vari fattori, tra i quali l’incomprensione e la reciproca diffidenza, hanno, alla fine, condotto alla rottura effettiva della comunione ecclesiastica.

Il papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora I con il suo Sinodo sono consapevoli che questo gesto di giustizia e di perdono reciproco non può bastare a mettere fine alle controversie antiche o più recenti che sussistono tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa e che, mediante l’azione dello Spirito Santo, saranno superate grazie alla purificazione dei cuori, al rammarico dei torti avutisi nel corso della storia, così come grazie alla volontà efficace di giungere a una comprensione e ad un’espressione comune della fede apostolica e delle sue esigenze”.

Il fatto è inaudito. Tra l’altro è la prima volta, in epoca moderna e contemporanea, in cui la chiesa latina cancella una scomunica; alcune le ha lasciate volutamente da parte, ma non ha mai detto che non esistano più. E’ chiaro che l’operazione condotta da Paolo VI è equivalente, sul piano storico-giuridico, all’operazione di Michele Cerulario.

Il problema con cui noi oggi abbiamo a che fare è che, da quel punto, per mille anni si è verificato uno sviluppo di chiese, di mentalità, di teologia, di abitudini, di riti e, anche se riconosciamo l’errore e cancelliamo la scomunica, resta tutta la storia diversa. Perciò, oggi, diventa difficilissimo cercare di capire come sarebbe possibile una reale unione. Le grandi questioni sono date dall’intercomunione (cioè che non sia più proibito ai cattolici latini di ricevere la comunione durante l’eucaristia ortodossa e viceversa) e dal primato papale. Gli ultimi quattrocento anni hanno sviluppato ancora di più la centralizzazione nella chiesa latina, che non è un patriarcato come lo era, grosso modo, nel mille. Con l’accentramento, la chiesa latina è diventata un’organizzazione, non più territorialmente legata al mondo latino. Al momento della scissione la questione era territoriale: la chiesa latina era latina, quella orientale era orientale, ma il mondo latino si è progressivamente autopercepito sempre più come universale.

Domanda: è così importante tutto questo?

Dipende. Da un punto di vista teologico sì, nel senso che il fatto che l’unica chiesa di Cristo sia divisa in  comunità diverse è un problema: qual è quella vera? Chiaramente ciascuno pensa di essere un po’ più vero degli altri. Infatti, al di là della dichiarazione di intenti, molto bella, resta il problema. Da un punto di vista puramente storico, rispetto alla dichiarazione di Paolo VI, di fatto, non si è andati avanti con gli ortodossi, mentre ci sono stati progressi con i luterani e con gli anglicani.

Intervento: su questa premessa, raggiunta un’accettazione reciproca, non vedo perché non si debba andare avanti.

Andare avanti è l’intercomunione. Se io vado in Grecia, devo poter partecipare alla liturgia greca, ricevere la comunione e sentirmi cristiana a casa mia.

Domanda: chi è che impedisce alla chiesa cattolica di eliminare la proibizione della comunione comune?

Tutte e due non la vogliono perché la discussione è sul problema della successione apostolica. Secondo Roma la successione apostolica è interrotta nel patriarcato d’oriente.

Intervento: dovrebbe essere facile per la chiesa che ci invita ad essere il più possibile tutti uguali…..

Se si ragiona così, l’esito religioso sono i telepredicatori americani, al di là di quello che avete in mente, perché il discorso è: se non ci sono alcuni criteri “oggettivi” su cui bisogna fare la fatica, non di azzerarli, ma di incontrarsi per crescere, allora il risultato è veramente il supermercato del sacro. Personalmente, ad un esito con prospettiva da telepredicatori, preferisco la rigidità della chiesa cattolica verso la quale occorre esercitare capacità critica, non lasciare che si irrigidisca nel fondamentalismo, ma che dà un certo tipo di garanzie su cui non sono disposta a transigere. Ritengo che in una situazione culturale come la nostra sarebbe un rischio incommensurabile. Ad esempio il criterio della successione apostolica non è un fatto di potere, ma una cosa molto seria perché la questione è: o io ho un accesso al Gesù storico nel quale c’è stata la salvezza, un modo di accedervi legato unicamente al mio cuore, al mio sentimento, oppure ho una forma di accesso certamente modificabile, ma con un dato di oggettività (per esempio la Scrittura, il canone, la successione apostolica) che mi garantisce una continuità storica dentro la comunità di credenti, quindi fuori dalla mia piccola coscienza, e non è un’altra cosa.

Allora ci si deve decidere. Non si può volere una religione ragionevole, critica, pacata, non fondamentalista e poi dire: però su tutti questi criteri passiamo sopra. No, perché passare sopra la successione apostolica è entrare nell’altro modello, quello che affida unicamente al sentimento la possibilità dell’accesso storico al Gesù di Nazareth o ne fa un mito teorico.

Intervento: io ammetto che per noi occidentali il criterio è questo, però dal momento che il documento elimina la causa della frattura che risale al 1054, come si può evitare di imporre la successione apostolica?

Il problema è esattamente che noi facciamo fatica con gli ortodossi perché sono i più simili a noi. Non è che loro non hanno il criterio della successione apostolica. L’hanno, ma dicono che siamo noi ad esserne fuori. E noi a loro diciamo la stessa cosa. Per questo ci vuole un principio critico di contrattazione per ricostruire il senso profondo del significato della successione apostolica per cui si possa dire, noi di loro e loro di noi, che siamo all’interno di essa, compresa in modo più profondo, mantenendo il criterio e non facendone un ostacolo reciproco.

Con le chiese figlie della Riforma, nella sostanza, dopo la dichiarazione di Ausburg dell’anno scorso, non abbiamo più un problema dogmatico; sono chiese con le quali abbiamo problemi disciplinari. Con esse non è così complicato mettersi d’accordo perché le definizioni sostanziali dei criteri sono uguali. E la chiesa cattolica non ha mai sostenuto che la chiesa luterana abbia ordinazioni invalide, fuori della successione apostolica. Ha sempre detto che erano illegittime, non invalide, quindi il problema è mettersi d’accordo sulle norme “organizzative” della questione. Paradossalmente è più semplice proprio perché per alcuni versi siamo più distanti.

Con la chiesa ortodossa invece la discussione è sui criteri e quindi sarebbe molto fecondo anche per noi per andare avanti. La chiesa latina ha un suo problema interno di riforma del ministero e del ministero petrino, al di là dell’ecumenismo; ha il bisogno di capire meglio che cos’è il papa e chi sono i preti perché non funzionano così come sono. Allora, se noi riuscissimo ad avere un dialogo efficace con una tradizione che usa gli stessi criteri, ma li ha usati in un altro modo, saremmo aiutati a capire meglio che cosa il ministero del papa e dei preti possono essere per noi. Per questo non si riesce ad andare avanti in quanto è molto chiaro che, nel caso del dialogo con l’ortodossia, la discussione diventerebbe interna.

Da qui in poi, quando diciamo chiesa, intendiamo non più la grande chiesa ma la piccola chiesa latina perché, tutto sommato, si dividono le sorti e per alcuni secoli sono proprio separate da un’estraneità totale per problemi di comunicazione e di lingua: fino al millequattrocento-millecinquecento, con gli umanisti, praticamente non ci sarà più nessuno del mondo latino che capisca il greco; c’erano poi problemi oggettivi, come ad esempio l’impraticabilità dei mari per via dei saraceni che impediva la comunicazione. Non a caso la chiesa latina si espanderà soprattutto verso occidente. Le puntate verso oriente, intorno al millecinquecento, saranno tutte episodiche e finiranno molto male, come quella di Matteo Ricci con la questione dei riti cinesi.

Al tempo di Matteo Ricci, nel circondario di Pechino, esistevano più di settanta diocesi di rito latino, poi spazzate via dopo la soppressione della Compagnia di Gesù. E’ indubbiamente vero che non si erano fortemente radicate perché avevano sempre avuto un problema a sussistere in rapporto ad una cultura molto diversa.

Ben diverso, e non vuol dire migliore, sarà, dopo la scoperta dell’America, l’espansione non episodica verso occidente, oltre oceano, che segnerà la storia di quei paesi nei quali il cattolicesimo giocherà, nel bene e nel male, un ruolo determinante.

Vorrei soffermarmi ora su due aspetti:

 – la questione del papato. Dal 1059 al 1200, tutto lo sforzo, (le lettere dell’alfabeto con cui si inizia a costruire questo linguaggio totalmente nuovo che è la cristianità, non il cristianesimo), sarà posto, per quasi due secoli, sulla questione del papato. Qui nasce l’idea di papato che noi oggi conosciamo;

– la chiesa monastica, altro grande filone di questi secoli. Dal mille al milleduecento avviene la grande espansione di questa esperienza nella chiesa.

In qualche modo questi due aspetti restano due anime mai ben congiunte.

Sulla questione del papato abbiamo visto come, nel periodo immediatamente precedente, la confusione fosse somma per i rapporti tra i due poteri in cui vigeva un criterio pragmatico: è re di un luogo colui che esercita il potere di re. Quindi il papa era re del sud soltanto perché lì si trovava, e l’imperatore, per la stessa ragione, lo era al nord; il tutto in un equilibrio abbastanza precario che oscillava regolarmente in base alle figure che interpretavano questi ruoli.

Nicola II nel 1059 si pone esplicitamente per primo il problema di tale questione scrivendo che occorre chiarire le regole per l’elezione del papa e motiva dicendo che esiste una relazione tra l’autorità di cui uno è investito ed il potere che esercita. Se non si chiarisce chi è che fa il papa, non si può chiarire quale potere ha. “Inventa” così che il papa, come attualmente, sia eletto dai cardinali i quali non erano esattamente quello che sono oggi. Il papa, vescovo di Roma, aveva un ruolo particolare, ma veniva eletto dal popolo di Roma. I vescovi erano eletti per acclamazione dal popolo. Poi cambia l’elezione dei vescovi. Nicola II afferma che, se il papa deve avere un’autorità più universale, non può essere acclamato soltanto dal popolo di Roma. Inoltre, se già per i vescovi non è sufficiente un popolo acclamante, figurarsi per il papa che deve avere un valore più ampio.

Il ragionamento sul potere universale aveva come modello il potere imperiale, rispetto alla logica dei feudatari: i vescovi erano dei feudatari ed il papa, come l’imperatore, funzionava in quanto Roma era capitale dell’impero. I cives romani, secondo uno statuto particolare all’interno del grande impero, acclamavano il loro vescovo che acquisiva un prestigio; ma, nella misura in cui Roma non era più tutto questo, perché mai i cittadini di Roma dovevano conservare tale diritto?. Nicola II afferma che la nomina avviene dai cardinali: ma chi sono i cardinali?. Sono i parroci o i vescovi, a seconda della dizione, più importanti di Roma e dell’immediato suburbio e quindi espandono la base geografica. Nicola fa in qualche modo la stessa operazione che l’impero degli antichi romani aveva compiuto quando, a fronte dell’invasione barbarica, aveva allargato la cittadinanza concedendola, insieme ad una serie di privilegi, agli abitanti di zone sempre più ampie per coinvolgere nella responsabilità dell’impero anche chi non stava a Roma. Ma per fare questo Nicola II considera come rappresentanza del popolo (non in senso democratico moderno) i cardinali che diventano poi un “antipotere” nell’elezione del papato. Pertanto, quasi immediatamente, l’imperatore nomina un proprio papa in alternativa a quello nominato dai cardinali.

Va tenuto conto che dalla fine del millecento in poi, quasi sempre, fino intorno al milletrecentocinquanta, si avranno due papi, spesso anche tre. Questa è una fase molto confusa proprio perché, andando a definire il ruolo del papato, si toccano questioni tali che provocano una parte reattiva. Tutto ciò non succederà più dopo il millequattrocento.

Quando Lutero pensa alla Riforma con un grande tema contro il papa di Roma, non nomina un altro papa: pensa ad una chiesa senza papa. Questo dice qualcosa del cambiamento. Infatti dopo il millecinquecento, viene messo in discussione il tipo di autorità per cui, se ci si ribella, non si fa un altro papa, ma un altro tipo di chiesa ed il problema si sposterà proprio sulla figura di chiesa che emerge.

Subito dopo Nicola II, viene Gregorio VII il cui tema è un po’ analogo a quello dell’attuale papa: il progetto di una grande riforma morale. E’ un uomo con ampie prospettive spirituali e, come spesso succede quando si pensano alte riforme morali senza grandi capacità di mediazione, anziché articolarle in strutture, leggi e ruoli, provoca una notevole confusione ottenendo effetti opposti a quelli che intendeva perseguire. Ad esempio Gregorio VII è il primo a dire, con intenzione assolutamente positiva di moralizzazione della chiesa, che i preti non dovrebbero sposarsi, ma ottiene un’ estesa alzata di scudi disperdendo e dividendo in questa fase ancora di più tutta la questione.

Domanda: quindi i cardinali sono parroci a Roma?

Sì, ancora oggi quando un cardinale viene nominato, riceve il titolo di una chiesa romana perché deve essere formalmente un parroco romano e chi non lo è non può essere cardinale. Adesso si fa il contrario: si nominano cardinali di dovunque e poi viene dato il titolo di “parroco”.

Domanda: quando si è aperto al territorio oltre Roma?

Progressivamente. Di per sé per un motivo politico: estendere il potere, originariamente legato alle famiglie romane, ad altri, per esempio all’influenza dei francesi. Man mano che si dovevano sistemare figli e cadetti di famiglie tradizionalmente non romane, si allargava di fatto.

La questione sull’elezione del papa posta da Nicola II dice così: “Istruiti dall’autorità dei nostri predecessori e degli altri santi Padri, noi abbiamo deciso e stabilito che dopo la morte del papa della chiesa universale di Roma, prima di tutto i cardinali vescovi devono insieme e con la più premurosa attenzione, ricercare il più degno, poi far venire i cardinali presbiteri ed infine, il resto del clero ed il popolo si faranno avanti per partecipare alla nuova elezione”.

C’è un sistema di acclamazioni successive: i cardinali vescovi lo scelgono, i cardinali presbiteri lo acclamano, infine si aggiungono gli altri presbiteri ed il popolo.

Gregorio VII invece dice: “Chiunque, con simonia, cioè con denaro, è stato promosso a uno degli ordini sacri, a una carica ecclesiastica, non potrà d’ora innanzi esercitare alcun ministero nella santa chiesa. Coloro che ottengono chiese col denaro, le perderanno e nessuno potrà d’ora innanzi comprare o vendere chiese. Coloro che hanno commesso il crimine di fornicazione, cioè i preti sposati, non potranno celebrare la messa né esercitare agli altari gli ordini minori. Noi decidiamo così che il popolo non possa assistere agli uffici di coloro che hanno disprezzato le nostre Costituzioni, quelle dei santi Padri stessi affinché coloro che non possono rettificare né l’amore di Dio né la dignità delle loro funzioni, siano umiliati dal rispetto umano e dal biasimo del popolo”.

Gregorio VII è un moralizzatore duro di fronte ad una serie di questioni in gioco. Ciò che rischierà di ottenere sarà una maggiore confusione nella chiesa. Egli pensa che in fondo tutto il male venga dalle componenti laiche dell’investitura. Nasce qui simbolicamente il grande fenomeno, nel senso che viene teorizzato, di cui noi siamo all’altro capo, cioè la clericalizzazione: da qui in poi, tutto ciò che è laico, poiché attinente all’imperatore, ai poteri temporali, comincia ad essere oggetto di diffidenza, come se ci fosse un’unica garanzia, quella che viene dall’essere dipendenti diretti, dallo stare dentro la struttura. Anche qui sono quei sassolini messi in movimento senza rendersi conto che otto secoli dopo diventeranno una valanga.

Tutto questo porterà ad una progressiva creazione dello stato sacrale del presbiterato che, come nel caso della benedizione delle puerpere, nasce non contro i laici, ma a difesa dei presbiteri. Poi questa cosa si perde per strada ed alla fine viene fuori che il prete merita rispetto, ha sempre ragione, tutte cose che non hanno a che fare con l’inizio.

Quello che vorrei far capire è che, intorno al mille, nascono dei movimenti che troveranno una forma teorica dopo la Riforma protestante; saranno teorizzati e sistematizzati da Trento. Ma nascono sempre, e fino a Trento è molto chiaro che sono in funzione della riduzione degli abusi del clero, mentre, da Trento in poi, una volta teorizzati, diventano invece il modo in cui si bacchettano i laici.

Allora bisogna fare molta attenzione perché, essendo il nostro modello quello clericale, spesso e volentieri, valorizzare i laici significa clericalizzarli: nella chiesa un laico responsabile ed impegnato sovente è solo un prete mal riuscito. Occorre fare attenzione perché abbiamo mille anni di storia su cui, se ci si sbilancia da una parte, si ha un effetto-globalizzazione che provoca una serie di altre realtà non previste.

Gregorio VII dunque afferma che il problema nasce dall’investitura laica e nel ’75 proibisce a qualsiasi vescovo di riceverla da un laico ed a qualsiasi metropolita di consacrare chi ha accettato tale investitura che, invece, precedentemente era un metodo normale. Ma è molto chiaro che egli, personalmente, non ha un interesse sulle questioni dei beni ecclesiastici, cioè del possedimento dei feudi; è molto onesto in questo perché ha realmente un problema di cura di anime ed è convinto che tutti i mali provengano dalla presenza dei laici i quali nominano i vescovi per motivi di potere. Tutto questo aprirà le porte ai peggiori abusi in fatto di potere legato al mondo dei vescovi perché a quel punto ogni investitura episcopale, che è interna, diventerà anche un’investitura dal punto di vista dei beni introducendo quindi maggiormente la corruzione.

Gregorio VII inoltre teorizza il suo diritto di agire sulla chiesa universale e sui prìncipi con i ”dictatus pape ”, i dettami del papa, che ancora oggi sono citati come fonte base del diritto ecclesiastico. Egli è il primo a dire il nucleo di quello che diventerà il magistero, per cui il papato che noi riconosciamo come tale, inizia qui a prendere forma. Prima nessuno aveva pensato a questo: il papa scriveva lettere ad una chiesa, ad un altro vescovo, su una questione o un problema, come un singolo, come ciascuno di noi farebbe in un ruolo pubblico che esercita. Gregorio VII invece teorizza che il papa può prendere carta e penna, scrivere un dictatus che vale per la chiesa universale e per i prìncipi vincolando tutti. Ed essendo un grande uomo spirituale, stimato, riscuote il consenso di tutti perché nella grande corruzione dei prìncipi che pensano solo al potere, nella rozzezza dei feudatari, porta un’autorità superiore con sano senso morale e pone una regola contro l’arbitrio.

Documento: “I Dictatus (decreti) del papa Gregorio VII (1073-1085)

  • Solo il romano pontefice è, a giusto titolo, detto universale.
  • Egli solo può deporre o assolvere i vescovi.
  • Il papa è il solo uomo di cui i prìncipi baciano i piedi.
  • Solo lui è autorizzato a deporre gli imperatori”.

Questo è importantissimo in quanto il papa tende ad assicurarsi l’arbitrato, un potere superiore, non perché volesse personalmente essere un uomo di potere, ma per affermare che non tutto è arbitrio come ad esempio il caso di capi che si dicono imperatori e si fanno guerra perché non c’è nessuno in grado di arbitrare. Tutto il tema, da noi oggi molto sentito, dell’autorità morale del papato, del mettersi su un altro livello, nasce da qui.

Domanda: come passava la comunicazione se non esistevano molti mezzi?.

Era certamente lenta. Occorre però dire che spesso questi scritti erano pii desideri di Gregorio VII e non sono stati applicati fino in fondo. L’episodio di Canossa spiega bene questa questione: Enrico non tiene conto di quanto gli viene detto, però dopo, siccome il caos è totale, gli altri imperatori riconoscono l’autorità del papa dando inizio ad un sistema nel quale l’autorità viene riconosciuta ed Enrico deve andare a Canossa.

Intervento: tutti i perdenti andavano dal papa.

Occorre essere molto attenti nei tempi di confusione a fidarsi di qualcuno, chiunque sia, non solo il papa, che si dichiari arbitro, perché non si sa mai bene come va a finire. Bisognerebbe invece, come per il dialogo con l’ortodossia, fare la fatica di provare testardamente a mettersi d’accordo per evitare rischi pesanti.

  • “Nessun sinodo (concilio) generale può essere convocato senza suo ordine.”

Questo provocherà dal 1215 in poi, dal concilio di Basilea, un disastro nella chiesa cattolica e sarà una delle cause indirette, ma non secondarie della Riforma protestante.

Il rapporto tra papa e concilio è un dato non ancora risolto nel senso che Vaticano II lo dribbla con la famosa nota previa alla Lumen Gentium ed è la questione che il cardinale Martini ha riproposto al Sinodo d’Europa dei vescovi dicendo che da settecento anni abbiamo questo problema e bisogna risolverlo. Vista la possibilità che un concilio si autoconvochi, egli ha chiesto se nel caso in cui la maggioranza dei vescovi ritenesse necessario un concilio ed il romano pontefice no, che cosa si farebbe?. Non ha posto la questione in termini teorici; ciò che stava dicendo era che la maggioranza dei vescovi europei ritiene necessario un concilio. Era chiaro questo. Ha fatto pure l’elenco dei lavori: ha suggerito i temi da trattare, in quale ordine, stilando un vero “programma” per Vaticano III ed esponendolo nel luogo giusto, non nei corridoi, sui giornali, alla televisione, ma al Sinodo Europeo, luogo dove i vescovi hanno il diritto-dovere di partecipare al governo della chiesa.

La questione che nascerà dalla affermazione “Nessun sinodo generale può essere convocato senza il suo ordine”, è nota nella storia della chiesa con il nome di “conciliatorismo” che vedrà disastri, maree di antipapi.

  • “Il suo giudizio non deve essere riformato da nessuno e solo lui può riformare il giudizio di tutti”.

Questo è il principio che poi il Codice di diritto canonico sancirà ancora a tutt’oggi: il giudizio del romano pontefice è personale e inappellabile. Non c’è istanza più alta, non esiste tribunale d’appello ed è uno dei motivi per cui sono state create le congregazioni romane che per noi sono il tempio del conservatorismo. Esse invece sono nate esattamente per correggere questo principio, cioè per creare un’istanza centrale che desse un giudizio che non fosse personale ed inappellabile: siccome sopra stava ancora il papa, c’era ancora possibilità di appello. Quindi perché, ad esempio, le questioni di dottrina sono discusse dalla congregazione per la dottrina della fede e non dal papa?. Per poter essere appellabili in quanto, se ne discute direttamente il papa, la questione è chiusa. Se condanna è finito. Quindi nascono come forma di garanzia della struttura. Ad esempio un papa come l’attuale che, ponendosi come Gregorio VII, quando è salito al soglio pontificio ha fatto un grande programma di spiritualizzazione, di snellimento, ha praticamente svuotato gran parte del lavoro delle congregazioni definendole vecchie ed ha avocato tutto a sé. Ma, dato che il suo giudizio è personale ed inappellabile, in funzione del suo ruolo, se egli scrive lettere apostoliche senza consultare le congregazioni, sempre firmate da sé, può provocare dei guai. Questo è un pontificato che ha prodotto molti documenti pontifici e pochissimi documenti delle congregazioni. Allora, mentre se la congregazione per l’educazione cattolica dice che bisogna insegnare questo piuttosto che quell’altro, il professore può ricorrere, se il papa dice come va fatta l’università da lì in poi così si deve fare.

  • “Egli non deve essere giudicato da nessuno.
  • La chiesa romana non ha mai sbagliato; e secondo la testimonianza della Scrittura non sbaglierà mai.
  • Il papa può sciogliere i soggetti dal giuramento di fedeltà fatto agli ingiusti”.

Sullo sbagliare dice la chiesa, non il papa. Mentre delle prime affermazioni il soggetto è sempre il papa, nel penultimo punto dice la chiesa romana. Nel 1870, per la dichiarazione del dogma dell’infallibilità, è stato preso questo principio per dire che il papa non sbaglia mai ed è l’altro capo della questione.

Noi abbiamo una reazione refrattaria su alcune questioni per cui, quando una persona qualsiasi afferma di non sbagliare mai, già ci indispone; qui stiamo parlando del 1073-1085, quando il soggettivismo non esisteva. Invece la logica non è sbagliata: Gregorio espone tutta una serie di attributi personali del papa, poi aggiunge che la chiesa non sbaglia mai, non il papa. E non è una distinzione da poco. Tra l’altro il problema della storia della chiesa non storicista, ma dal punto di vista teologico, come stiamo tentando di fare, è che, siccome un credente presuppone l’esistenza dello Spirito Santo sulla chiesa, noi supponiamo che, quando Gregorio diceva chiesa, forse intendeva “io”, ma cosa intendeva lui è irrilevante. Poi, siccome Vaticano II ha detto che la chiesa è il popolo di Dio, possiamo legittimamente mettere insieme le due cose in quanto crediamo che, tanto quello da lui scritto quanto il Vaticano II, sono guidati dallo Spirito Santo. Quindi, ciò che forse allora non era pensabile, comprensibile culturalmente, trova lì le premesse per essere esprimibile dopo.

A questo punto c’è la questione di cui tutti noi abbiamo studiato il titolo a scuola, cioè la lotta per l’investitura. L’opposizione di Gregorio all’investitura laica dei vescovi non passa tanto semplicemente, sia all’interno della chiesa che fuori, in quanto, giustamente, erano pochi gli imperatori, i prìncipi ed i feudatari disponibili a non aver controllo sulla nomina dei vescovi, mentre è molto chiaro che per Gregorio la nomina romana, papale, era un modo di salvaguardare la libertà di azione dei vescovi: per poter essere libero di agire anche contro il feudatario, un vescovo non deve essere stato investito dal feudatario, altrimenti come farebbe a difendere i poveri, a prendere posizione?

L’imperatore Enrico IV si oppone alla decisione delle investiture papali romane e raccoglie intorno a sé un certo numero di feudatari, poi dichiara che Gregorio VII è un antipapa, e come tale decaduto. Il papa depone l’imperatore e per un certo tempo c’è un reciproco scambio di “gentilezze”. Si arriva comunque a Canossa quando Enrico va ad umiliarsi di fronte a Gregorio perché tutti coloro che si erano schierati con lui passano dalla parte del papa, che però muore e alla fine l’imperatore è in esilio.

La lotta per l’investitura andrà avanti in modo violento fino al Concordato di Worms, 1122, in cui si afferma che l’imperatore rinuncia alla consegna del pastorale e dell’anello ai vescovi, cioè all’investitura spirituale, ma il papa accetta che sia l’imperatore a consegnare lo scettro ai vescovi scelti dal papa, che conferisce la “missio spirituale”, mentre l’imperatore ne riconosce il potere di governo.

I tre poteri, santificare, insegnare, governare, vengono spartiti, ma in un equilibrio molto fragile; però, di fatto, i papi, per la prima volta, iniziano ad agire come capi della cristianità (ciò è favorito anche dall’indebolimento degli altri poteri) e a dire che i documenti papali, nel loro insieme, hanno la stessa importanza delle Sacre Scritture. E’ la teologia attuale. Noi studiamo che tre sono gli elementi a costituire l’unica fonte della Rivelazione: Scrittura-Tradizione-Magistero.

In questo periodo nascono molti falsi “decretalia”: si incomincia a retrodatare e ad inventare testi confondendo la lista dei papi, anche per la mancanza di mezzi comunicativi, e producendo cose assolutamente incredibili ed improponibili. Però viene così favorito un aspetto: il creare archivi per capire chi erano i papi, che cosa avevano detto e fatto per davvero. Quindi comincia a nascere la raccolta delle fonti, anche all’indietro, con il recupero di manoscritti attraverso i monasteri dove il lavoro rimarrà sommerso nelle biblioteche fino al millequattrocento-millecinquecento e sarà il grande territorio di lavoro degli umanisti, i primi a tentare di ordinare, leggere, capire, per sistematizzare il tutto. Addirittura, per timore di perdere qualcosa, si archiviava tutto ciò che veniva trovato per cui si trovano codici cuciti insieme, nei quali c’è di tutto: scritti in latino, siriano, greco, copto. Però, in questo modo, effettivamente sono state salvate documentazioni di sinodi minori dell’Asia ed altri.

In questo tempo comincia a crescere la figura di S. Bernardo che diventa il primo grande fustigatore di papi e da lui in poi avremo sempre ricorrentemente un santo, cioè un uomo carismatico, spirituale, che se la prende con i papi. Ad esempio S. Bernardo si lamenta con Eugenio III dicendo: “ Ma quando preghiamo, quando insegniamo ai popoli, quando edifichiamo la chiesa? Il palazzo pontificio risuona ogni giorno delle leggi di Giustiniano e non di quelle del Signore”. Bernardo è molto preoccupato dal fatto che si incominci a dare più spazio al diritto ed ai documenti che alla Scrittura.

In questo tempo ci sono i vari concili lateranensi che, con l’accentramento pontificio, si svolgono tutti in Laterano; sono Sinodi abbastanza parziali, ma molto importanti dal punto di vista dell’organizzazione. Noi, in quanto all’organizzazione, siamo figli della sistematizzazione di Trento nata sul materiale disorganizzato di questo periodo.

La crisi è sempre più generalizzata, inizia il periodo conciliatorista e alla fine del XIII secolo verrà pronunciata la famosa frase che tutti ripeteranno fino a Lutero e alla riforma: “in capite et membris”, nel capo e nelle membra. Il dire questa frase significa riconoscere che il romano pontefice è un capo, che nella chiesa esiste un doppio livello fino ad allora non considerato.

Documenti:

Le due spade (commento a Luca 22,35-38):

“L’una e l’altra spada appartengono alla chiesa, cioè sia la spada spirituale che quella materiale. Questa deve essere usata per la Chiesa, quella dalla Chiesa; la prima dal presbitero, la seconda dal cavaliere, ma sicuramente su ordine del presbitero e il comando dell’imperatore”.

(S.BERNARDO (1090-1153) Lettera 256, in PACAUT M, La Théocratie, p.251.)

La coscienza pontificale del papa Innocenzo III (1198-1216):

(Nel giro di secolo questo papa è il primo ad avere un senso di sé come pontefice universale segnando già il passaggio, da lui dato per scontato, che essere papa significa una serie di cose).

“La Chiesa mi ha dato una dote preziosa, cioè la pienezza del potere spirituale e un gran numero di possessi temporali, con molte ricchezze. Gli altri apostoli sono stati chiamati a partecipare al potere, ma solo Pietro è stato chiamato a godere della pienezza. Io ho ricevuto da lui la mitra per il sacerdozio e la corona per la regalità; egli mi ha stabilito vicario di colui sul manto del quale è scritto: “Re dei re e Signore dei signori, Sacerdote per l’eternità secondo l’ordine di Melchisedech”. (…).

Come la luna riceve la luce dal sole, così il potere regale riceve dall’autorità pontificia lo splendore della sua dignità. La pienezza del potere che noi abbiamo ricevuto da colui che è il Padre delle Misericordie, dobbiamo usarla prima di tutto in favore di coloro con i quali bisogna agire con misericordia”.

(Testo citato in PACAUT M., La Théocratie, pp. 255ss.)

La prossima volta incominceremo con il discorso sul mondo monastico perché è quello che conserva in qualche modo l’ideale della Cavalleria: i monaci sono i cavalieri con un atteggiamento di aristocratica sufficienza rispetto alla spendersi negli aspetti giuridici della chiesa, ma anche con una capacità di costruzione molto concreta di realtà operative, economiche e strutturali.

Domanda: per espansione universale che cosa si intende?

E’ la stessa idea dell’impero, cioè Italia, centro Europa, Francia. Verso est un po’ si era andati perché stavano salendo gli ortodossi, ma Romania, Ungheria… erano ancora terre incerte. E’ in quel periodo che tutte quelle terre cadono in qualche modo sotto l’influenza di quello che noi oggi chiamiamo Europa dell’est. Lì erano ancora molto compattamente legate al nucleo che noi oggi definiamo tedesco perché si era in una fase complicata di cerniera; invece, dopo il milleduecento-milletrecento, saranno nella sfera totalmente bizantina e quindi cambierà. Inoltre non dimentichiamo che due secoli dopo inizieranno le grandi esplorazioni: appena si assesta un po’ tutto il caos europeo e si stabiliscono le grandi monarchie nazionali, si parte per vedere che cosa c’è oltre le colonne di Ercole.

Intervento: se ci fosse stato un sinodo da mitigare un po’ la tentazione del capo, forse….. E’ un po’ come è stato per la chiesa orientale.

Mica tanto. Tu oggi pensi ad un sinodo alla luce di una mentalità che sta dentro ad una cultura delle democrazie. C’erano i Consigli, ma erano dei feudatari che non mitigavano perché la loro autorità veniva dal capo. Quando la chiesa romana, in questo specifico periodo, fa un’operazione di accentramento, in realtà, rispetto al tempo che vive, fa un’operazione assolutamente progressista, di difesa dei più poveri, in quanto ha chiaro che deve garantire la propria autorità come non proveniente dai poteri, se vuole essere in grado di difendere rispetto ai poteri. Quindi, in quel momento, dato che non esiste proprio l’idea che l’autorità salga dal basso per delega o rappresentanza, ma solo che l’autorità scenda, ogni Consiglio riceve la propria autorità dal capo, quindi non è un Consiglio in senso moderno.

Un sinodo, in quel momento, avrebbe voluto semplicemente dire una funzione di rafforzamento dell’autorità personale del papa. Per questo hanno avuto un grosso problema con i Concili. Chiaramente, vista oggi, questa questione ha mostrato una serie di limiti enormi: andava mitigata non allora, ma nel cinquecento, andava in qualche modo accolta l’istanza posta da Lutero sulla superiorità della Scrittura rispetto al magistero, cioè andava raccolto in positivo il problema posto da Lutero che metteva in luce i reali limiti di quella struttura nata pure con rette intenzioni. Se questo fosse stato fatto dopo tre secoli, visti i ritmi di allora, ci sarebbe stata la possibilità di favorire una mutazione dolorosa e faticosa, ma reale.

Il problema è che, a fronte della questione luterana, si ha invece una confessionalizzazione, un irrigidimento che fa perdere di vista il motivo per cui alcune cose erano nate e per agire esclusivamente contro Lutero. Da lì in poi si tenta, con grandissima cecità, di tenere la struttura assolutamente immobile il più a lungo possibile, con l’unico criterio di non cambiare perché si entra nella spirale della paura. Il risultato è che l’hanno portata non solo fino al limite di tollerabilità, ma molto oltre.

E noi siamo dopo tutto ciò. Ma questo ha significato che, nel bene come nel male, quella struttura si è radicata per mille anni e, come dice a ragione il papa, si è intessuta con la vita culturale di questa Europa per cui non è più possibile distinguere e quindi è un problema smontarla: occorrerebbero sette o otto concili per farlo.

Intervento: c’è una certa istanza legata alle varie democrazie che reclamano un loro coinvolgimento ed anche autonomia di decisione, ma non riescono a farsi ascoltare.

Smontare mille anni di storia non è uno scherzo. Non so come farei se avessi il potere di decidere, ma capisco che chi ha tale potere, anche in assoluta buona fede e non solo per biechi motivi di conservazione, abbia grandi preoccupazioni su questa questione. Personalmente, in questo momento, avrei molti problemi circa l’assunzione acritica di un concetto di democrazia nella chiesa e spero che essa riesca a continuare a non essere democratica perché mi pare che la democrazia sia il migliore sistema politico che abbiamo, per adesso non esiste altro di meglio quindi va benissimo così per la convivenza civile, ma ritengo che la chiesa dovrebbe riuscire a giocare su un altro livello, maggiore, e non abbassarsi in qualche modo.

Intervento: però c’è stata l’esperienza di Giovanni XXIII che ha visto il bisogno di un rinnovamento, ha accettato il coinvolgimento dell’episcopato…

Mi sembra una lettura un po’ semplicistica. Giovanni XXIII era un uomo di curia, perfettamente dentro a questo sistema e direi che gli uomini migliori di curia sono molto meglio degli uomini non di curia perché esiste un problema di governo che bisogna saper gestire, come del resto nel mondo della politica.