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Storia della Chiesa (VIII)

Gruppo del venerdì
Novembre 2001

Il principio che sta dietro all’idea di monastero è sempre stato, in tutti i secoli, un principio “alternativo”, rispetto alla conformazione delle chiese che si sono modellate, e hanno modellato le culture, in relazione al potere politico, mutuando forme dall’esterno, dall’impero romano in poi. La forma monastica, fin dalle sue origini, con le forme anacoretiche del quarto e quinto secolo, immediatamente dopo la fine delle persecuzioni, rappresenta l’altro principio possibile, che è quello non di adeguamento, ma di straniazione (un’altra città, un altro abito, un’altra economia). Il principio è: o ci si mette dentro la logica del mondo, o ci si mette fuori dalla logica del mondo. E quest’anima monastica, dal punto di vista della visibilità è stata l’anima perdente, minoritaria, ma non è mai finita. Oggi, ad esempio, sono i mondi monastici, o neomonastici, che hanno un grande fascino per noi, perché ogni volta che il grande modello vincente va in crisi, ogni volta che si consuma una forma, c’è una grande passione per l’anima alternativa, che sembra incarnare tutti gli aspetti positivi che l’altro modello non ha.

Dal punto di vista teologico questo ha anche una sua spiegazione possibile. E’ assolutamente necessario che la Chiesa abbia sempre queste due forme: una forma numericamente maggioritaria, che è quella del rapporto con le culture, con i luoghi, con la visibilità, e una forma minoritaria, in qualche modo profetica che invece segna la differenza, il sovrappiù.

Nel XII-XIII secolo la forma monastica ha avuto una grande espansione anche numerica, un grande successo; sono stati secoli nei quali le due forme erano molto paritetiche, si scontravano l’una con l’altra, erano entrambi estremamente potenti (e proprio per questo la forma “alternativa” rischia di perdere la sua carica profetica). Si prenda, ad esempio, la grande espansione della potestà giuridica degli abati, potestà non solo sui membri del monastero, ma anche sui conversi, le popolazioni, e con rapporti molto complessi con certi vescovi che erano suffraganei di abati di monasteri… Sono passaggi di braccio di ferro fra le due forme. Vedendolo ora, il punto di sbilanciamento in cui la forma inculturante ha avuto la meglio ed è diventata predominante, sono il XII-XIII secolo, con la nascita delle università, cioè con lo spostamento del polo del sapere. Il grande successo monastico corrisponde anche al momento di decadenza del sapere nel mondo esterno (la grande opera degli amanuensi, la conservazione degli scritti, i monasteri come grandi luoghi di studio). Nel momento in cui l’asse del sapere, della conoscenza, si autonomizza dal mondo monastico, si sposta intorno alle cattedrali (poi c’è tutto il grande dibattito sulla laicizzazione, cioè sulla nascita dell’università), segna la fine dell’espansione monastica. Da quel punto in poi il mondo monastico rimane perenne, con periodi di fulgore e periodi di decadenza, ma nettamente minoritario, e senza più l’ambizione di diventare “il modello unico” ecclesiale.

Lo spostamento del sapere prende come forma dai monasteri anche l’idea che ci deve essere un modo di dedizione totale (come quella dei monaci) per servire il sapere, fuori. E nascono i grandi ordini di studiosi: i Domenicani e predicatori vari sui problemi concreti delle eresie, ma da lì al cinquecento c’è una grande fioritura di cui i Gesuiti incarnano il punto massimo (sono i monaci del Papa, con gli stessi criteri di rigore e di austerità della vita monastica, come esercito del papa)

In questi secoli la chiesa del vescovo comincia a chiamarsi cattedrale, e la sede del vescovo comincia a chiamarsi cattedra, cioè il luogo dell’insegnamento. E questo in polemica alle scuole monastiche, perché i vescovi cominciano a volere delle scuole intorno alle cattedrali, per togliere il monopolio ai monaci dell’insegnamento, delle biblioteche, ecc. Questo, tra l’altro, risponde ad una dinamica propria all’interno della vita monastica: mano a mano che diventavano più colti, i monaci avevano l’esigenza di viaggiare, di incontrarsi, di confrontarsi, di scambiarsi manoscritti, cosa che andava a scapito del modello reale della vita monastica che era quello della stabilità nella piccola città di Dio. Una stabilità numericamente fissa. Il risultato è che il mondo monastico da una parte si consuma all’interno, perché i monaci più colti cominciano a essere sempre meno monaci; dall’altra parte viene messo in crisi dalla richiesta episcopale, dalla nascita delle scuole delle cattedrali e da una crescente richiesta di sapere.

Nella nascita delle scuole delle cattedrali i vescovi stabiliscono un principio che è quello che sta nelle loro mani di concedere la licenza di insegnamento, cioè di concedere la potestà a qualcuno di essere chiamato maestro e di poter insegnare. (Il titolo in Gregoriana che abilita all’insegnamento, ancora adesso, si chiama licentia ad docendum; oggi questo è il titolo richiesto per essere fatti vescovi). Nel corso dei secoli nella figura del vescovo si sono compattate tutte le potestà: la potestà di governo, la potestà di santificazione, la potestà dell’insegnamento. Il processo che la struttura della chiesa, la sua forma visibile ha attuato, dal XII secolo fino a Vaticano II, è un processo di concentramento. Questo è evidentissimo dal punto di vista liturgico: nel XII secolo c’erano molti libri liturgici; nel 1800 era rimasto solamente il messale. Sotto tutti gli aspetti si attua il principio di concentrazione e di verticalizzazione.Quella che noi chiamiamo struttura gerarchica della chiesa è una struttura che si forma, dal XII secolo in poi, con una forza e una potenza incredibili.

Questo significa anche che ci sono stati, prima, dodici secoli in cui, pur avendo alcuni principi gerarchici, per esempio il primato del romano pontefice, di per sé non era una “chiesa gerarchica” nel senso in cui noi oggi intendiamo questo termine.  Esattamente il motivo per cui le chiese orientali sono sinodali o acefale è questo: essendosi separate prima di questo procedimento hanno mantenuto questa forma.

Mano a mano che le scuole delle cattedrali si allargano comincia il problema: perché, se gli studenti sono così contenti di un professore, di un maestro e se il vescovo non dà a questi la licenza di insegnare, lui non può insegnare? Chi ci può impedire di ascoltarlo? Possiamo trovarci in un altro luogo, per ascoltarlo. Questo è il principio sul quale nascono le università. Che sono, originariamente, delle corporazioni di studenti, nate da un’operazione economica, quella di dividere le spese. Se non c’è più la scuola della cattedrale che paga il maestro, occorre trovare il modo di pagarlo. Su questa cosa i vescovi e i papi sono molto attenti, capiscono subito qual è il problema e adottano una politica assolutamente intelligente, cioè invece di andare a scontro capiscono che si sta iniziando un movimento molto fecondo e vanno a contrattazione. In cambio dei privilegi che possono essere dati, devono essere accettati dei riconoscimenti. Ad esempio, nel 1231 papa Gregorio IX fa un riconoscimento ufficiale dell’università di Parigi, con cui attua uno degli investimenti più grandi per i susccessivi 3-4 secoli. Con questa operazione si porta a casa tutto ciò che sarà la teologia nei successivi secoli, tenendola dentro e riuscendo ad affrontare delle questioni che si porranno nel XII e XIII secolo, ad esempio con gli eretici, fino alla questione luterana, con alle proprie spalle un’università.

In questo periodo comincia l’idea del metodo teologico, cioè la teologia cessa di muoversi sul principio della ripetizione e comincia a chiedersi se esiste un metodo che noi, oggi, chiameremmo della ricerca. Nasce così il metodo che si chiamerà scolastico, perché è esattamente il metodo della scuola, che è un metodo ancora oggi usato, per certi aspetti, dalla teologia: un metodo assolutamente geniale.

Quando Ignazio penserà alla grande istituzione che lui chiama Collegio Romano, come metodo di insegnamento adotterà quello dell’università di Parigi, della metà del 1200, riconoscendolo ancora totalmente valido, e aggiungerà una serie di cose tipiche del tempo, per esempio l’obbligo di residenza degli studenti, cioè non farà solo un’università, ma un “college”. Infatti si chiamerà Collegio Romano, e ancora  oggi funziona.

Nel metodo scolastico la lezione era così strutturata: una lectio, cioè un professore assegna, per la volta seguente, uno o più testi da leggere; in seguito, al momento dell’inizio della lezione c’è la explicatio dei termini: ognuno, sulla base dei testi letti, deve chiarire quali sono i termini del problema; chiariti i termini, il professore pone le quaestiones, la disputa, e divide gli studenti tra pro sed contra; gli studenti disputano sulla questione e alla fine della lezione si deve giungere ad una acquisizione. La funzione del professore sta in due passaggi fondamentali: primo, nel porre la questione, secondo, nel regolamentare metodologicamente la discussione, nel far rispettare le regole della logica aristotelica del pensiero. Non funziona come una lezione cattedratica nella quale il professore insegna ciò che sa; il maestro insegna ciò che “non sa”, cioè pone le questioni che sono le sue questioni.

Per gli scolastici era molto chiaro che c’era un’istruzione primaria che bisognava dare ai rudi; a chi non sapeva niente bisognava insegnare a leggere, insegnare a memoria la Scrittura, i Padri, far immagazzinare ciò che era già noto e, quando uno era “colto”, cioè aveva immagazzinato il precedente, a quel punto cominciava a studiare. Si metteva cioè in un consesso di persone colte di fronte a una questione, che era sempre una questione reale, mai retorica, e sulla quale, alla fine della lezione, si era fatto un passo avanti collettivo.

Questo metodo aveva un vantaggio fondamentale che noi abbiamo perduto, o meglio, che per noi si realizza in modo non formale nella comunità dei sapienti:  l’idea della “comunità degli studiosi”, che è l’idea che il sapere progredisce collettivamente.

La bontà di un maestro, di un professore, era valutata dalla capacità di porre grandi domande. L’organizzazione didattica delle facoltà teologiche odierne ricalca ancora un po’ questo metodo.

In questo modo è organizzata anche la Summa di San Tommaso: non per capitoli, ma per quaestiones. Tommaso ha provato a scrivere tutte le domande possibili, cosa che nessun moderno potrebbe più pensare. E’ come se avesse colto che si poteva fare una specie di enciclopedia, organizzata su domande. La prima questione è se si può sapere che Dio esista, strutturata come un dibattito. E’ il metodo con cui San Tommaso pensa, e dunque scrive.

Questa è la grande innovazione che sposta, fuori dai monasteri, la questione nel dibattito delle culture. Questa cosa diventa esplosiva per la vita della cristianità, perché da dentro l’esperienza della cristianità comincia a smuovere tutto, con una potenza trasformatrice.

Tutto il fiorire dei movimenti ereticali è legato a questioni economiche, a trasformazioni socio-culturali del tempo, ma non solo: in realtà il fatto della circolazione del sapere e la creazione delle comunità dei sapienti crea anche delle brutte copie. Allora si creano delle comunità di “illuminati” che cominciano, con questo metodo, ad interpretare la Scrittura facendo interpretazioni millenaristiche e ponendo questioni varie.

Questo meccanismo va a conflitto con la tenedenza accentratrice, scardinando tutto, fino alla crisi luterana, che segna il massimo punto di scardinamento. Da lì in poi tutto viene, in qualche modo, ordinato, per cui prevale la tendenza accentratrice, organizzatrice dal punto di vista disciplinare, giuridico, ecc. Prevale la linea della paura di questa ebollizione continua, il desiderio di governare questa ebollizione. Si comincia a marginalizzare ogni diversità e si andrà fino all’ottocento, nel quale il meglio che si potrà produrre sarà la neoscolastica, ribadendo che San Tommaso ha già detto tutto ciò che c’era da dire.

Questo è il principio che tutti noi, anche quelli tendenzialmente non conservatori, abbiamo stampato nella testa con l’idea che la fede sia una risposta.

Fino al metodo della Scolastica è molto chiaro che la fede è una domanda. Ma dopo l’irrigidimento, quando l’idea di Dio era appunto quella neoscolastica (tutte le domande sono già state fatte), gli ultimi figli siamo noi, che diciamo sempre: “Ma perché Dio non risponde?” usando una categoria culturale che noi viviamo come spirituale, o interiore, ma che in realtà di spirituale e interiore ha pochissimo. E’ invece una categoria culturale che nasce da questo spostamento a 180 gradi del percorso. Nel 1200 era chiaro che Dio era Colui che faceva tante domande, dato che il maestro bravo è quello che fa delle belle, utili e importanti domande.

Noi siamo figli di una mentalità che ha cercato di spiegarci che tutte le domande sono già state fatte, e adesso si trattava solo di mandare a memoria le risposte. Il catechismo di San Pio X è esattamente lo spostamento a 180 gradi dalla Scolastica: si imparano a memoria le risposte, compreso il caso nel quale non si ha la domanda. Noi di conseguenza sappiamo sempre che cosa fare, ma non sappiamo rispetto “a che” e sulle domande reali non abbiamo soluzioni.

Ora noi abbiamo, in qualche modo, buttato via le risposte del catechismo di San Pio X, ma abbiamo mantenuto lo stesso metodo, che è quello di dire: “Ci deve essere una risposta”.

Andiamo a cercare una risposta, invece di cercare una domanda.

Questo è il momento in cui si sposta l’asse, lo spostamento della cultura.

Trovo che sia fondamentale rispostare questo asse. Questo asse del sapere ha un peso anche rispetto alla conformazione delle strutture delle istituzioni, del visibile.

Oggi, la rivoluzione strisciante, per cui comincia ad esserci di nuovo un sapere diffuso della teologia, con donne e laici che sanno fare teologia, che la fanno “altrove”, in altri luoghi, con altri soldi e altre licenze, con altre autorizzazioni, alla lunga sposterà di nuovo l’asse.

Nei secoli di cui stiamo parlando, XII e XIII, nella cristianità che, in qualche modo, sta cominciando il cammino di verticalizzazione e accentramento, succedono due cose che, tra la fine dell’undicesimo e il quattordicesimo secolo, funzionano da moltiplicatori dell’accentramento, perché scatenano una serie di paure, di insicurezze e di confusioni. Due secoli prima forse avrebbero funzionato da grande motore di dialogo, ma in questo momento nel quale la cristianità ha la sensazione che tutto gli stia ribollendo da dentro, queste due cose che accadono all’esterno scatenano la peggior reazione possibile.

Le due cose sono: l’impatto con l’Islam, e come sottocorollario la prima, grande espansione missionaria, in particolare verso oriente e, dall’altra parte, la questione interno-esterna della nascita dei primi movimenti ereticali potenti: Valdesi, Catari, ecc.

Nasce dunque l’immagine, assolutamente percorsa in quei secoli con orgoglio, convinti che fosse una bella immagine, della cristianità armata. E’ l’idea di una cristianità che si dà alle armi del sapere, della dottrina, della crociata, dell’organizzazione, ecc. Una cristianità che mette in movimento tutto ciò che può verso coloro che minacciano il suo edificio. Di questa idea di cristianità assediata noi siamo ancora molto figli. Oggi però forse abbiamo più l’idea di una civiltà assediata, il che è un po’ diverso.

La questione delle crociate nasce abbastanza anticamente. La crociata, di per sé, è un pellegrinaggio e si arma per motivi di difesa: andare ai luoghi santi diventa sempre più pericoloso. L’idea iniziale è che i cristiani sono dei pellegrini in via di purificazione e gli altri sono pirati che assaltano, rubano e se possono, fanno schiavi i pellegrini. Questo è il nucleo di partenza che finisce per legittimare progressivamente un’idea più ideologica e ben diversa che è la grande idea della liberazione dei luoghi santi. E’ un crescendo che a partire da un dato di realtà, il pellegrinaggio a Gerusalemme difendendosi dagli attacchi dei rapinatori, arriva all’idea della liberazione dei luoghi santi. La prima idea sulla quale viene legittimata la prima crociata è quella di soccorrere i poveri cristiani d’oriente, senza sapere però quanti cristiani c’erano in oriente e come vivevano. Si prende l’idea del cavaliere che va a soccorrere i deboli.  Da qui in poi si incastrano livelli successivi di interpretazione ideologica.

Ci sono crociate che si esauriscono per strada, in cui i crociati vengono decimati prima di arrivare a Brindisi; ce ne sono altre, le più famose, che creano nuovi regni. Nascono anche gli ordini cavallereschi, che saranno un grande modello per gli ordini religiosi. Ci sarà l’idea, mista, del combattente religioso. I Templari, i Cavalieri di Malta, gli Ospedalieri, ecc. sono ordini religiosi che, a seconda delle loro evoluzioni storiche, si sbilanciano verso un’associazione militaresca di tipo massonico, o un ordine religioso, e attorno ai quali si crea una leggenda di immenso potere. Diventano organismi molto compatti, chiusi, autoreferenziali, che avranno svolte laiche o religiose, mantenendo una caratteristica settaria, di cui i Gesuiti rappresenteranno una forma evolutiva.

Dopo la quarta crociata, che si chiude col sacco di Costantinopoli, i risultati reali sono praticamente inesistenti, E’ il tipico caso in cui un’idea molto parzialmente percorsa rispetto alla sua enunciazione, tendenzialmente fallimentare da un punto di vista materiale, ha una potenza evocativa, organizzativa, ideologica notevole. Fino al Vaticano II rimarrà un’idea identificante.

L’altra faccia della crociata è questa prima fase di espansione missionaria. Dico prima fase, perché la fase storicamente studiata di espansione missionaria è quella del ‘500, a seguito delle grandi scoperte geografiche. Ma c’è questa prima fase, nella quale, su questo appello alla crociata, molte persone non erano d’accordo, ma non per questo volevano dirsi fuori della cristianità. E anche nel tentativo del dialogo tendenzialmente, pensiamo a Francesco che incontra il Sultano, si tenta di aggirare alle spalle l’Islam e convertirlo, venendo da più oriente di loro stessi; si cerca di non andarci a scontro armato, ma aggirarlo e in qualche modo riportarlo alle proprie radici. In questo ambito c’è una grande esperienza che è quella della prima espansione in Cina. Su cosa è accaduto in Cina, rispetto al cristianesimo noi sappiamo poco o niente. Quando muore Matteo Ricci, la Cina aveva quasi duecento diocesi; Pechino era metropolita di una incredibile quantità di diocesi. C’era una penetrazione molto cinesizzata, che puntava alla comunità dei sapienti, convinti che bisognava parlare  di cultura e di musica, ma anche di astronomia, di matematica.

E’ interessante che nel XIII secolo è il Khan mongolo che manda a chiamare i missionari. In questo primo movimento di aggiramento si era arrivati fino ai mongoli, e il Khan ne era rimasto toalmente affascinato e aveva chiesto al papa di mandargli molti di quei “sapienti”. Il Khan si converte e con il principio di quel tempo converte tutto il suo popolo. C’è perciò una gloriosa conversione della Cina al cristianesimo, assolutamente strepitosa. Ma i cui effetti saranno però assolutamente superficiali e temporanei, senza una penetrazione reale; questo farà sì che la cristianizzazione potrà essere radicalmente e totalmente cancellata in brevissimo tempo.