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24 Aprile 2004
Stella Morra

6. Potere e paura

Commento a: Eb 2, 10-18


Premessa

Tra quelli fin qui affrontati, il testo di oggi è forse l’unico un po’ ingarbugliato. Leggiamo un brano dalla lettera agli ebrei che, per lungo tempo, è stata attribuita a San Paolo, ma la critica contemporanea non la attribuisce più a lui. La preoccupazione dell’autore è sicuramente quella di reinterpretare l’esperienza cristiana dentro l’esperienza ebraica, utilizzando cioè le categorie dell’esperienza ebraica. Tra i commentatori ci sono state grandi discussioni per capire se questo stile sia usato perché la lettera è rivolta a degli ebrei o usato come espediente letterario rivolto ad altri, per far sapere in che relazione stanno ebraismo e cristianesimo. Questi problemi si potrebbero anche studiare, ma non sono immediatamente interessanti per la nostra riflessione.

Per noi è interessante tener presente che questa lettera usa linguaggio, immagini e punti di riferimento tipici del mondo ebraico, parla di sacrificio, di sommo sacerdote, di tempio, di tenda, cioè utilizza i luoghi dell’esperienza della religione ebraica dandoli per scontati. Capire la risonanza che una determinata parola faceva scattare nella testa non è per noi così immediato.

Per esempio, se diciamo “Langhe”, per noi è immediato pensare ai colori, ai vigneti, al cibo, ma per uno che l’ha studiato in geografia, questa parola richiama solo una zona del sud del Piemonte, non ha affetti, sapori, colori, spessori, profumi…

La parola spesso si porta dietro anche un significato biografico, che è diverso per ognuno di noi, a seconda del ricordo che ne conserva, legato alle proprie esperienze. Tutto ciò per uno che ha studiato le Langhe sui libri di geografia non c’è, non c’è né una pienezza, né una biografia.

Quando qui si dice “Sommo sacerdote”, tutti noi sappiamo più o meno di che cosa si parla, perché c’è nel racconto della Passione di Gesù, ma per la nostra esperienza certo non ha né spessore né sapore. Se si dice “Parroco”, a noi viene in mente tutta una tipologia precisa; non sappiamo forse la definizione giuridica, ma sappiamo delle cose più concrete, quotidiane, legate a quella parola.

Questa lettera a noi può creare difficoltà di comprensione perché, anche dove capiamo le parole, fatichiamo a capire il mondo che sta dietro a quelle parole e ci pare una cosa un po’ astratta, un po’ teorica. Il testo della lettera è molto complicato, ma qui non facciamo l’esegesi del testo, non andiamo a sezionarlo dal punto di vista letterario: in questo momento non è rilevante per la nostra riflessione. Noi recepiamo il testo canonico cioè il testo adottato dalla Cei.

La  novità di Cristo

La volta scorsa, con il brano di Matteo riguardante il paralitico, abbiamo parlato del potere di perdonare i peccati. Il titolo della lectio era “Poteri visibili e poteri invisibili” e con quel brano abbiamo cominciato ad entrare nel mistero cristiano.

Dopo aver fatto una descrizione fenomenologia, antropologica di quello che accade con il potere, con l’analisi cioè della sapienza della Bibbia che ci dice come gli esseri umani funzionano rispetto al tema del potere, – non solo a livello esterno, ma in profondità, secondo le dinamiche del loro cuore – con il testo di Matteo, siamo entrati in un’altra logica che è quella della novità di Cristo.

“…perché crediate che Dio ha il potere di perdonare i peccati, io ti dico alzati e cammina”.

Abbiamo sottolineato l’espressione curiosa che concludeva il testo:

“Furono presi da grande timore nel vedere quale grande potere Dio aveva dato agli uomini”.

Un tema di paura, e la constatazione che Gesù agisce in modo potente.

Il testo diceva che erano presi da timore vedendo “…quale potere Dio aveva dato agli uomini”.

Erano venuti fuori altri due temi:

  • il potere di fare nuovi, di rendere un’altra cosa, di perdonare i peccati, annullare una realtà. Il grande mito mai raggiunto dall’umanità è quello di tornare indietro nel tempo: una cosa accaduta non è cancellabile. Il perdono dei peccati, secondo la scrittura, è la cancellazione del dato di realtà. Noi abbiamo una percezione un po’ edulcorata del fare nuovi: ci pare che Dio perdoni i peccati nello stesso senso in cui noi perdoniamo un’offesa. Per noi, quando l’offesa c’è stata, io ci sono stato male, anzi ho ancora qualcosa che mi gira, ma siccome sono buono, non porto rancore. Il perdono di Dio invece è di un’altra qualità: azzera la realtà, fa nuovi, rende la possibilità di stare come se ciò che è accaduto non fosse mai accaduto.
  • Questo potere viene da altrove: “…perché crediate” ciò che non si vede: che ho il potere di perdonare i peccati, “… io ti dico…”. E’ un segno di qualcosa che viene da altrove.

Ecco le questioni che avevamo tirato in ballo intorno a questa novità cristiana: del modo in cui Gesù abita il tema del potere.

Gesù,  la Via

Non parliamo della novità cristiana sul potere come se fosse un tema etico, in cui Gesù spiega come devono comportarsi i cristiani. Non è questo. La Bibbia non funziona mai così, non è un trattato!

Ma, vedendo come si muove Gesù nel suo assumere l’umanità, in quanto figlio obbediente del Padre, la Bibbia ci dice delle cose rispetto ad alcuni temi.

Scrutare i modi in cui Lui gestisce la sua propria umanità, può essere per noi la traccia per conformarci a Lui, per scoprire come agire per diventare più simili a Lui.

La nostra, dunque, non è tanto la riflessione cristiana sul tema del potere, ma la riflessione cristiana su come Gesù si muove dentro le dinamiche di potere.

Il testo di oggi sta in questo nucleo: Gesù è asceso al cielo, nella gloria del Padre, non è più lì, a portata di mano, non è più sotto il regime dell’ambiguità dei segni, e l’autore di questa lettera, dopo la morte e la risurrezione di Gesù, dopo la fine della sua sorte terrena, riflette su ciò che Gesù ha fatto. E’ la stessa cosa che stiamo facendo noi.

Ci spiega come Gesù si è mosso rispetto alla vita, alla salvezza, al Padre… Noi prendiamo in esame il pezzo che ci interessa.

Siamo esattamente nello stesso punto in cui si pone l’autore della lettera, con la differenza che, secondo la tradizione, questo autore è ispirato, dunque scrive qualcosa che non è solo la sua opinione, come noi possiamo avere la nostra, ma attraverso di lui Dio stesso ci parla.

Gesù nella gloria

Dicevo prima: Gesù seduto nella gloria del Padre, asceso al cielo; su queste espressioni sarebbe necessaria un’altra grossa riflessione.

Il tema dell’Ascensione ci fa pensare ad una partenza senza bisogno di un mezzo di trasporto normale! In realtà la contrapposizione forte tra la vita terrena di Gesù e la sua ascensione, è il tema di come Gesù, che è sceso dai cieli nell’incarnazione, nel Natale, ascenda al cielo.

Gesù sta un tempo, quello della sua vita terrena, sotto il regime dell’ambiguità dei segni, dell’ambiguità della storia, dell’ambiguità della carne, ma prima e dopo sta nella gloria.

In  Lui non c’è ambiguità! E’ nella limpidezza, nella luce di Dio! 

Quando si dice che Gesù assume la nostra carne, vuol dire che assume il peso dell’ambiguità della carne e dunque si muove e vive sotto il segno dell’ambiguità. Perciò si può dire di Lui: “Voi chi dite che io sia…;  Ma non è costui il figlio di Giuseppe?”.

L’ascensione è invece la pienezza della manifestazione divina, senza ambiguità, Gesù torna nella gloria del Padre. 

Il testo di oggi sta in questo luogo, dove l’autore non cerca tanto di dire come si è comportato Gesù, come se fossimo eternamente dei bambini, ma rilegge il percorso di Gesù con le categorie, gli esempi, le figure, le immagini della fede del popolo ebraico e, come noi, cerca di carpirne il profilo.

Quello che c’è da cogliere di Gesù è il profilo, il modo in cui Lui si muove rispetto al suo rapporto con Dio, con gli altri, con le cose, e ricostruire questo profilo per avere una direzione.

Gesù, Figlio Unigenito

Il testo non è semplice da seguire, ma è molto bello e denso.

Il primo versetto è veramente illuminante nel nostro percorso!

“Ed era ben giusto (è proprio bene così!) che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza”.

Questo versetto mette Dio al suo posto e dice: è ben giusto … questo Dio fa Dio di mestiere, non ha un’altra cosa da fare… questo è importante: non è un Dio invidioso, non si impiccia delle faccende umane. Dicendo: ‘Dio dal quale e nel quale sono tutte le cose’, non si dà una definizione di ordine filosofico. Qui si sta dicendo: è un Dio speciale, non come tutte le divinità del circondario che sono delle caricature di uomini un po’ più potenti, e che sono pieni di invidie, gelosie, bisticci… No,  stiamo parlando di un Dio di un’altra categoria.

Questo Dio, che è una spanna più su dall’ambiguità e dalla fatica di discernere degli uomini… volendo portare molti figli alla gloria…”

Nella liturgia si insiste molto nel definire Gesù l’Unigenito e poi, subito dopo, si dice di Lui: Primo di molti fratelli…. Ci viene da chiederci come sia possibile: se è unigenito, non è primo di molti fratelli, se è primo di molti fratelli, non è unigenito…!!! 

E invece in Cristo c’è questo grande mistero: Lui è l’Unigenito del Padre, ma Dio ha il desiderio di portare molti figli nella gloria, come è asceso Gesù nella gloria.

In altre parole, solo Gesù Cristo, essendo Unigenito figlio del Padre, non ha problemi a diventare simile a Dio: è già così! 

Ma il desiderio di Dio è che molti “figli” che, non essendo direttamente figli di Dio, non potrebbero da soli ascendere nella gloria, siano però portati lì: ad entrare nella gloria, a uscire dall’ambiguità, dall’incertezza della difficoltà di discernimento. Portati alla gloria non vuol dire portati in spalla e festeggiati come gli imperatori romani. Vuol dire portati nella pienezza della luce, della presenza di Dio.

Molti figli portati alla gloria vuol dire che tutti, in Dio, sono nella pace. Non vuol dire che tutti sono sdolcinati e melensi, ma che non hanno più incertezze. Vuol dire che nella pace noi potremo volerci bene gli uni gli altri, voler bene alla nostra vita, voler bene a ciò che è stato e a ciò che sarà, senza la fatica di capirsi, di voler bene quando all’altro pare non importare nulla, senza la fatica delle nevrosi che ognuno di noi ha e proietta addosso all’altro, quando volersi bene sarà facile.

Questa sarebbe la gloria.

Diventare adulti

“…volendo portare molti figli alla gloria, era ben giusto che rendesse perfetto mediante la sofferenza…”.

Che botta questa frase! Eppure è così drammaticamente vero! In questo secolo la psicanalisi ci spiega che non si diventa adulti senza separazioni, delusioni, frustrazioni del desiderio.

Distaccarsi dalla mamma è una fatica: da quando nasciamo impieghiamo molto tempo a distaccarci noi da lei e lei da noi, ma non c’è un altro modo di diventare un individuo che sta in piedi sulle sue gambe.

Da lì in poi facciamo una gran fatica ad entrare totalmente dentro la nostra pelle.

Non so se avete anche voi questa sensazione. Spesso penso che la fatica di diventare ‘uno’, diventare adulto, responsabile di me, più o meno pacificato nelle giornate, negli impicci, nelle fatiche, nelle tristezze, nelle cose gratuitamente belle e in quelle pesantissimamente guadagnate, questa fatica è che mi hanno dato un’anima extra large, rispetto ad una vita small e dunque tutta la mia anima non ci entra.

Rendere perfetto mediante la sofferenza non indica che Dio Padre sta lassù e quasi ‘gode’ a veder patire, ma è l’esperienza che, per avere la pienezza di sé (chiarissima a chi abbia più di 15 anni), per imparare a stare nella nostra pelle, ci tocca una fatica: quella di non essere più ‘tutto’.

Ci tocca scegliere una cosa e non sceglierne tante altre, stare di fronte a coloro che amiamo senza essere appiccicati, mantenendo una distanza, che è la condizione per avere un rapporto, ma anche ciò che rende complicato il rapporto.

Rendere perfetto mediante la sofferenza sarebbe questo: non è che Dio Padre dice: devi pagare il prezzo, un tot di litri di sangue, perché se no non sei abbastanza perfetto, e dunque giù frustate, prove, fatiche. Non è questo il senso.

“Era ben giusto che Dio Padre rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza”.

Colui che ha assunto la nostra carne e il nostro sangue ha assunto una pelle, una vita troppo small rispetto ad un’anima extra large. Quando diciamo che Gesù si è fatto uomo non intendiamo dire soltanto che aveva bisogno di mangiare, mentre quando se stava in cielo non aveva fame, sete, sonno. Certo, diciamo queste cose come esempio, ma il problema non è quello, perché se no la logica ci dice: ‘ha fatto 40 giorni di digiuno nel deserto’… certo, ma era anche Dio, non aveva bisogno di mangiare. Non è come me, che sono solo un essere umano, e 40 giorni non li potrei sopportare! Se la logica è questa non torna più nessun ragionamento. 

Quando diciamo che Gesù assume la nostra umanità, diciamo che assume il meccanismo per cui diventare grandi, adulti, diventare ‘uno’, assumere il proprio nome, significa essere sottoposti alla purificazione di non essere tutto, di non essere infiniti.

Questo processo comincia con la nascita, col distinguerci da nostra madre, e continua fino a quando diventiamo vecchi e non riusciamo più a fare le cose che abbiamo sempre fatto, ci depotenziamo, ci distinguiamo da noi stessi, o meglio, dall’esperienza di noi che abbiamo fatto da adulti: potenti, creativi, capaci di sopportare, fare, andare, venire.

Abbiamo sempre la vita in ritardo rispetto all’anima, abbiamo sempre una vita una taglia troppo piccola.

Gesù assume la nostra umanità ed in questo diventa il capo che ci conduce alla salvezza.

Non è un condottiero da crociata, ma il capo che conduce alla salvezza è colui che, essendo Dio, essendo “Colui dal quale e nel quale tutto viene…” assume il nostro stesso peso di sofferenza identificante, lo stesso meccanismo della nostra vita, e in questo modo ci conduce verso Dio, non ‘nonostante’ o ‘contro’, ma in questo ci mostra come essere persone fino in fondo, persone che cercano la verità del loro cuore, della loro vita, la strada che ci mette di fronte a Dio.

Questo primo versetto riassume veramente tutto il percorso che fin qui abbiamo fatto.

Ecco le tappe:

  • Una grazia

“E’ veramente ben giusto…”.

La riflessione su Mosè salvato dalle acque, sulla grazia o la disgrazia di essere salvato dalle acque.. è ben giusto!… Dio dice: è una grazia!   

  • Uscire dal castello incantato

“Colui per il quale e dal quale sono tutte le cose”.

Come Mosè, uscito dal castello incantato, si è preso le sue responsabilità uccidendo l’egiziano – con scarsi risultati, peraltro, e poi ha dovuto rimuginare un bel po’ per prenderne coscienza – così Dio, Colui che è uscito dalla sua divinità, si è preso la sua responsabilità e, secondo il racconto di Genesi, ha fatto bene tutte le cose. Mosè per un attimo ha vacillato, mentre Dio ha fatto alberi, piante, pesci… ed era cosa buona; ha fatto le luci, i mari…. ed era cosa buona. Non ha trovato qualcuno che gli abbia chiesto: “chi ti ha costituito capo su di noi?” … Dio ha fatto tutto e tutto era cosa buona. Alla fine ha fatto l’uomo e la donna ed …”Era cosa molto buona”.

  • Potere dei desideri

“Voleva portare molti figli alla gloria”.

E’ il tema del desiderio. Ricordate la riflessione fatta sul testo di Marco: in Dio è un desiderio potente, un desiderio per gli altri, non per sé.

Vuole portare molti figli alla gloria. E’ il desiderio che tutti noi usciamo dall’ambiguità ed entriamo nella luce.

  • Potere dei segni

“…Rendesse perfetto mediante la sofferenza…”.

E’ il tema del potere dei segni affrontato nel terzo incontro. Il grande segno è la croce, è il segno dei segni di ogni potere. L’iconografia cristiana fino al 1200, fino alla riforma francescana dell’arte, ha raffigurato il Cristo in croce vestito da re. Non sono molti i dipinti rimasti. Il crocifisso in legno di Lerins ha il turbante regale. L’oriente aveva mantenuto l’immagine di Cristo Re in croce, ma, per una questione storica, questa iconografia è stata un po’ massacrata.

L’occidente cristiano, a partire dalla riforma francescana dell’arte, ha rappresentato sempre più il Cristo in croce in termini realistici, con piaghe, spine, sangue, segni visibili della sofferenza ed ha abbandonato tutto il primo filone di rappresentazione.

Prima del 1200 i crocifissi erano rappresentati in termini teologici, non realistici. Non era la foto della croce, era una riflessione teologica: la sofferenza della croce è l’estremo atto di potere regale, il punto alto, dunque Cristo veniva rappresentato in croce parato degli abiti da re orientale, con corona o turbante. Normalmente aveva un piede calzato e l’altro senza scarpa e sotto il piede senza scarpa c’era il calice che raccoglieva il sangue. Tutto era rappresentato senza gusto dell’orrido, in modo molto rarefatto.

Il calice è segno dell’Eucarestia, della chiesa: si raccoglieva il frutto della regalità di Cristo per farne il nostro cibo, la nostra forza. Cristo in croce era in genere rappresentato addormentato, non morto, senza spasmi, dolori, con un volto sereno. Il Cristo di Lerins è sorridente sulla croce.

La croce è il grande segno.

 

  • Poteri che si vedono e poteri che non si vedono

“Ed era ben giusto che rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza”.

Qui è ripreso il tema della nostra ultima riflessione: i segni del visibile e dell’invisibile, il potere che si vede e quello che non si vede. 

La salvezza verso cui ci conduce questo capo reso perfetto dalla sofferenza, è il “non siete tutti lì”, il pezzo che non si vede, il pezzo in più che non ci è a disposizione, di cui non possiamo fare commercio, di cui non possiamo dire: il merito, o la colpa,  è mio o è tuo. La salvezza sta in quel pezzo della nostra stessa vita, delle cose che facciamo, degli amori, delle sofferenze, dei dolori che non ci è a disposizione, e dunque è un pezzo di cui non possiamo fare commercio.

Il testo escatologico di Matteo 25 lo spiega bene: “…Venite benedetti, perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, ecc.  ed essi risposero, quando Signore?…” .

E: “Andate maledetti, perché avevo fame e non mi avete dato da mangiare, quando Signore?…”.

Tutti e due hanno la stessa reazione: non se ne erano accorti!

Dal punto di vista di Dio

Questo versetto è la trasfigurazione potente, nella chiave della croce di Cristo, di tutto ciò su cui abbiamo riflettuto fino ad ora.

Il modo in cui noi funzioniamo rispetto al potere non è un’altra cosa dal modo di Dio, ma è rigirato di 180°. Qui ritroviamo tutti i nostri pezzi – Dio non ci chiede di diventare un’altra cosa – ma sono tutti girati al contrario, a gambe all’aria.

Faccio un esempio banale: per noi uno è potente quando può dare una botta sulla testa ad un altro, e chi si prende la botta sulla testa è impotente di fronte a lui. Questa è la logica dei segni del potere. Qui invece il segno del potere è la croce! Girato esattamente a gambe all’aria.

Il desiderio per noi è: se io potessi realizzare tutto quello che voglio! Qui il desiderio del potere è: “Per portare molti figli alla gloria”. C’è un meccanismo di desiderio, ma è capovolto. Qui ci sono tutti gli elementi con cui abbiamo descritto come funziona il potere in noi, ma sono tutti capovolti. Si può dire che finora li abbiamo guardati dal nostro punto di vista verso Dio e questo brano ci dice come Dio li guarda dal suo punto di vista verso di noi, dall’altro lato della medaglia.

Fratelli

“Infatti colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”.

Questo versetto adesso è chiaro: pensate a ciò che abbiamo detto sul conflitto.

L’altro giorno un professore di scienze delle religioni mi diceva che il racconto originario dei due fratelli che si uccidono è presente in tutte le mitologie antiche. Questo dimostra ulteriormente la tesi di cui abbiamo parlato l’anno scorso: il problema non è per che cosa si litiga, si litiga perché si è fratelli, perché è l’esistenza dell’altro che io percepisco come un furto, che mi appare minacciosa.

Anche questo elemento qui è girato a gambe all’aria: “…non si vergogna di chiamarli fratelli”.

Gesù ha il coraggio, la faccia tosta di chiamarci fratelli. Questo vuol dire che noi e Gesù siamo indissolubilmente legati.

Possiamo essere buoni o pessimi fratelli, ma l’essere fratelli è un dato che non dipende da una scelta. Si può essere un pessimo fratello, uno che se ne frega, non gli importa se stai bene o male, oppure si può essere un ottimo fratello che se hai bisogno di una mano c’è, passa a trovarti…  se è fratello, è fratello, come se uno è figlio, è figlio!

Noi rispetto a Gesù siamo fratelli, siamo in un rapporto inevitabile con questo unigenito.

Lui ci chiama fratelli, ci dice: “siete in un rapporto inevitabile”, ma anche: “attenzione, perché il rapporto inevitabile è anche sempre conflittuale, tra voi e con me”.

Gesù passa il suo tempo a cercare di spiegarci: “non prendetevela con me, non ho nessuna intenzione di furto nei vostri confronti”. Il problema dei fratelli è che li viviamo come una minaccia, ma Gesù ci chiama fratelli e passa il suo tempo a spiegarci che non è minaccioso.

Inoltre il primogenito è lui, e dunque dovrebbe essere lui quello con le crisi di gelosia. Noi siamo arrivati dopo, lui era l’unico figlio del Padre, aveva tutto lo spazio per sé, siamo noi che gli abbiamo fregato un po’ di posto!

Gesù, con queste tre belle citazioni, dice:

“Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi”; 

“Io metterò la mia fiducia in lui”; 

“Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato”.

      * “Annunzierò il tuo nome  ai miei fratelli…”,

Gesù sta dalla parte di Dio e dice: “Papà, calmo, glielo spiego io”. – questa è la traduzione in lingua corrente.

      * “Io metterò la mia fiducia in lui”.

Glielo spiego io, perché ho messo la mia fiducia in Lui, non in loro. Non perché sono sicuro che capiscono, ma perché sono certo che quello che ho da spiegargli viene da Dio ed è una cosa seria.

      * “Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato”.

Da fratelli siamo diventati figli … e ci porta da papà!
Non importa molto ciò che facciamo noi. In questa dinamica, che noi accettiamo o meno, non fa differenza. Qui ci viene detto che Gesù si è rivolto verso di noi per spiegarci qualcosa del Padre, che ce lo spiega perché ha fiducia nel Padre e non in noi – dunque non importa molto che noi capiamo o meno – e che ci riporterà da lui come figli. Se non ci riuscirà di essere fratelli, pazienza, possiamo fare i bambini piccoli.

La grande novità è tutta qui. Traduco in termini più seri, è una novità di relazione con Dio Padre.

Come si fa a fare come Gesù rispetto al potere, a rovesciare di 180° tutti gli elementi della nostra umanità rispetto al potere, come si fa a capovolgere i desideri, la responsabilità?

Con un rapporto diverso con Dio, non perché noi siamo bravi! Se mettiamo la nostra fiducia in Dio Padre, le cose si rigirano, si rigirano dall’altra parte.

La paura

“Per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere e liberare così coloro che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita”.

Il primo versetto ci mostra tutta la strada fatta fino qui e la gira di 180°. Come si fa a fare questa capovolta? Con la fiducia in Dio. Per arrivare dove?

La capovolta, la fatica di capire la mia vita e poi cercare di capovolgere il tutto per vederla con lo sguardo di Dio, si fa per arrivare a Dio. C’è un unico grande male che noi abbiamo, la vera cosa che ci fa male, è la paura. La realtà, le cose che accadono, belle o brutte, sono sempre affrontabili. E’ la paura che non è affrontabile!

Di fronte alle cose reali uno piange, si dispera, si fa consolare… può fare molte cose per rimediare all’accaduto, e alcune funzionano, altre meno… Poi passa il tempo, e noi conserviamo sempre dentro un pezzo di un dolore vissuto, nessun dolore passa mai del tutto, resta una cicatrice. Contemporaneamente, però, viviamo di nuovo e certe volte questo vivere ancora ci fa arrabbiare, perché ci sembra che ciò che è successo sia talmente tragico che il mondo intero dovrebbe fermarsi, che nulla possa più essere uguale a prima. E scoprire che tante cose sono esattamente uguali a prima ci fa incavolare. Così funziona, così va a finire la nostra vita.

Il vero grande male, la cosa che ci schiaccia, ci paralizza, ci manda fuori di testa, ci deprime, è la paura. Perché la paura non è reale, è come i buchi della groviera: ci si mette il formaggio intorno per far credere che esistano! La paura è un niente. Lo sperimentiamo anche nelle cose piccole: di fonte a qualcosa che ci preoccupa ci agitiamo prima, poi quando siamo lì, affrontiamo la situazione a mano a mano, nel bene e nel male. La paura è il nostro grande male.

La paura radicale, l’ultima grande paura, è la paura della morte. La morte non ci farà paura quando ci sarà, ci fa paura prima. Quando ci sarà ci faremo i conti, moriremo. La morte degli altri è un problema, non la nostra.

E’ la paura di morire che rischia di renderci schiavi per tutta la vita, perché la paura ha un potere terribile. Uno riorganizza la sua esistenza sulla paura. Fa o non fa non in base alla realtà, ma in base alla paura, alla paura di soffrire, alla paura di compromettersi, a tutte le paure, piccole e grandi morti della nostra esistenza.

La domanda era: verso dove? “…per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù…”.

Gesù, con la sua morte, ci libera dalla paura della morte: la realtà scaccia la paura! (traduzione impropria). La morte reale di Gesù è la realtà della sua risurrezione. Questo non ci dice qualcosa su cosa ci accadrà dopo, ma soprattutto sul fatto che possiamo vivere liberi dalla paura.

Non ci può accadere niente di male, mai, perché siamo nella mano di Dio e dunque, come tutti i santi possiamo essere tutti lieti e coraggiosi, fidarci, non avere più paura e affrontare la realtà un pezzo dopo l’altro, per quello che è, non per il mostro che ci abbiamo costruito sopra

Quando si ride si ride, quando si piange si piange, quando c’è ricchezza c’è ricchezza, quando c’è povertà c’è povertà!… E ogni cosa è solo quello che è, niente di più né di meno. Noi siamo più di quello che siamo, le cose sono solo quello che sono.

Liberati dalla paura

A quale scopo capire tutto il problema del potere, rigirarlo, far la capovolta dal punto di vista di Dio?  Per essere liberati dalla paura che è la grande, pessima compagna di tutta la nostra vita!

E per poter sapere che siamo più di quello che sembriamo, ma non c’è niente nella vita che non sia semplicemente quello che è. Dunque il bene, il male, la sofferenza, la fatica, l’allegria, la gioia, il riposo, il senso, il non senso non sono mostri, sono solo quello che sono, né di più, né di meno.

E se oggi è un giorno oscuro, siamo certi che siamo nelle mani di Dio nel nostro giorno oscuro e che prima o poi ci sarà un giorno chiaro, in cui saremo ancora nelle mani di Dio.

Questo  non vuol dire “va tutto bene”! Quando c’è un giorno oscuro, si fatica, si soffre… così come in un rapporto con le persone ci sono momenti in cui non ci si capisce, si sa che non va bene, ma si rimane lì anche se non si capisce.

Non ci viene in mente che quel capirsi o non capirsi sia un’altra cosa che non la verità di quel giorno, di quel rapporto. Tutti ci diciamo: speriamo che la verità di questo rapporto domani sia un po’ meglio perché oggi è un po’ pesante… ma domani sarà meglio!

Rispetto a Dio la questione è esattamente questa: siamo nella mano di Dio, siamo in una vita con lui  e lo siamo quando le cose vanno bene e quando non vanno bene. Quando non vanno bene ci arrabbiamo con lui, gli chiediamo di intervenire, di farci capire, e quando vanno bene siamo soddisfatti. Una cosa non esclude l’altra. Ognuno di noi sa che un rapporto che sta fermo, in cui succede solo sempre una cosa, non è neppure un rapporto. Un rapporto vivo ha dentro tante cose, non tutte piacevoli, ma sono la faccia di quella storia e alla fine ci fanno tenerezza anche le cose che non ci piacevano.

Quando si dice ‘abbiamo condiviso tanto’, vuol dire: ci siamo fatti una grande faticata per reggere anche quello che non ci piaceva! Con Dio funziona allo stesso modo.

Con questo percorso si arriva ad essere liberati dalla paura per essere nella certezza di stare con Dio e prendere il bene e il male, la gioia e la tristezza, rimanendo con lui perché il Signore Gesù ha pagato con la morte per liberarci dalla paura della morte.

Fossano, 24 aprile 2004

(Testo non rivisto dal relatore)

Lectio 2003/2004

DataTitoloCommento a:
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