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9 Aprile 2022
Stella Morra

7. Desiderando

Commento a: Mt 13, 24-52


Siamo arrivati al penultimo incontro di quest’anno e, com’è ormai quasi tradizione, lo viviamo nel sabato che precede la Domenica delle Palme, nel momento liturgico particolare che è la soglia della Settimana Santa. In più, quest’anno, siamo dentro un tempo ancora più particolare, inquietante per tutti noi, un po’ perché le categorie che siamo abituati ad usare per eventi come questi, che non capitano solo da oggi, fanno acqua da tutte le parti, non riusciamo quindi ad avere dei punti di riferimento che consentano criteri di comprensione almeno accettabili o comunicabili, per cui ognuno si fa una propria opinione e vengono spesso fuori dei ragionamenti deliranti. Dall’altra parte tutti sentiamo questa guerra, un po’ per la sovresposizione mediatica, ma anche perché si svolge molto vicina a noi, ci colpisce e ci colpirà in molte questioni della nostra vita, economiche e sociali. Molte delle cose orribili che vediamo sono già accadute, in Siria, nello Yemen e in molte altre guerre in atto nel mondo, ma questi sono paesi lontani da noi, da cui non dipendiamo economicamente, le trattiamo come questioni che riguardano altri e non ci chiamano in causa in prima persona. Questa situazione che fa da sfondo alla nostra riflessione odierna non vorrei che entrassimo nella logica – che è la grande tentazione di tempi come questo – di vivere la dimensione spirituale dell’esistenza in maniera consolatoria, alienante rispetto alla fatica del vivere, come qualcosa che ci fa riflettere su un altro mondo visto che questo non riusciamo a renderlo accettabile ai nostri occhi. In questo senso oggi sono abbastanza divisa, perché da un lato mi piacerebbe fare seriamente un esercizio di fede quindi di una pacata, per quanto possibile, gioia nel cammino verso la Pasqua – che non è solo un rito astratto ma una indicazione precisa di realtà per chi crede alla Pasqua. Dall’altra parte trovo faticosa l’idea di individuare delle direttrici di speranza, di costruzione di futuro, di progetti, per quanto nella fatica o con tutti i limiti umani. Mi sembra proprio che ciò che sta succedendo a molti intorno a noi, e dunque a noi, rischia di mettere in discussione radicalmente l’idea di un noi, la possibilità di dire una parola comune, condivisa, per quanto dialettica e nelle differenze. Vi dico quindi tutta la mia fatica, e anche il fatto che negli ultimi giorni ho buttato all’aria la riflessione che avevo preparato, seguirò pochissimo il mio metodo solito, che è quello di leggere alcuni commentari, il testo dal punto di vista esegetico, i commenti dei padri della Chiesa, per poi costruire riflessioni attuali per noi, invece ho deciso di seguire l’istinto di oggi, proprio a partire da un clima più pasquale rispetto ai sabati precedenti, ma nello stesso tempo molto pacatamente pasquale, non facilmente risolutorio. Da questo punto di vista il testo ha acquistato un’altra luce, che vorrei condividere con voi. Una volta tanto la riflessione non è tanto pensata, macinata, quindi prendetela per quello che vale, come una condivisione del nostro tempo.

Il percorso fatto fin qui partiva dal testo dell’apparizione del Risorto alla Maddalena, il «non mi trattenere» – la riflessione su un noi non proprietario – e ripercorreva poi alcune dinamiche: Davide e le vite incastrate, la questione dei legami affrontata col testo di Osea, quella del riposo e della fatica nel testo di Isaia; poi nei testi del Nuovo Testamento, la tempesta sedata e il giovane ricco, la questione della povertà come condizione del noi.

La lectio di oggi

Il testo che abbiamo scelto per oggi, il testo ben noto che raccoglie le micro parabole sul Regno, successivo alla parabola del seminatore, mi sembra molto stimolante: ci dice che la logica è quella del desiderio e non del risultato, un buon viatico per iniziare una riflessione in un tempo come questo. Il desiderio del Regno trasforma le cose anche quando non lo sa o quando non si vede che si stanno trasformando e apparentemente non succede niente. Il risultato è un’altra questione, lo vedremo nei vari esempi. Il risultato, a volte, deve aspettare la fine dei tempi, perché si possa tirare una riga e vedere qualcosa bisogna attendere. Ma non si può smettere di desiderare, per esempio smettere di desiderare un noi significa aver ceduto alla sua impossibilità. Questo è particolarmente problematico in un tempo come questo, perché aspettare si traduce in numeri di morti, in dolore, in disastri di vario genere, quindi non è un’attività neutra, non basta avere pazienza, ci sono questioni da risolvere al più presto. Ma forse la logica risolutiva usata come criterio finisce per aggrovigliarsi su se stessa, se ci chiediamo che cosa risolve forse non troviamo una risposta. Se ci chiediamo che cosa desiderare forse individuiamo delle strade e possiamo cominciare, almeno parzialmente, a risolvere. Credo sia un’esperienza che tutti stiamo facendo nel vedere quali e quante iniziative di solidarietà si stanno attivando, che non sono risolutive, ma – desiderando una soluzione – intanto si comincia a risolvere un problema alla volta, ad aiutare un bambino alla volta. Certo, bisognerebbe anche costruire un nuovo ordine mondiale, ma questo è al di fuori della nostra portata di singoli, e deve tradursi in progetti più politici, capaci di fare pressione su coloro che ci governano ed hanno la possibilità di agire a quel livello. Ma anche questo bisogna prima di tutto desiderarlo, non semplicemente aspettare che loro decidano, immaginare come premere perché lo facciano.

Il testo: Mt 13,24-52

13 24Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”.

31Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami “.

33Disse loro un’altra parabola: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”

34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:

Aprirò la mia bocca con parabole,

proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo.

36Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!

44Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

45Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

47Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.

51Avete compreso tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. 52Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.

Commento

Espose loro un’altra parabola”. Questa parte del discorso Gesù nel vangelo di  Matteo è in parabole e le parabole, come poi si dirà esplicitamente, sono uno strano modo di comunicare, comunicare per non comunicare. Al catechismo ci hanno raccontato che le parabole servivano a spiegare, che erano gli esempi che Gesù faceva per spiegare. Questo non è vero. Le parabole fanno parte di un tipo di discorso spirituale, mostrano, nel contenuto ma anche nella forma, l’ambiguità possibile. Mostrano che non c’è un accesso diretto e una via facile alla verità. Questo credo sia uno dei motivi dello sconcerto, che si sperimenta in ogni discussione su ciò che sta succedendo, nello scoprire che abbiamo tante opinioni diverse. Le parabole sono la possibilità di avere opinioni diverse, dicono che il reale è ambivalente, non è immediatamente comprensibile, la norma è che non capiamo, e da lì dobbiamo ripartire, dalla nostra vulnerabilità, incapacità a comprendere. È stato il mito di almeno due secoli di radiosi soli dell’avvenire, l’illusione di poter spiegare tutto. Il Covid e la guerra sono situazioni in cui la nostra pretesa di comprendere e governare, ognuno nel proprio piccolo, si scontra con una realtà che è complessa, ambivalente, polisemantica. La realtà è sempre plurale, non c’è mai un motivo solo per le cose che succedono nella vita. Ce n’è uno solo forse per le questioni tecniche e banali, per tutto il resto, per le questioni appena appena più profonde dell’esistenza, i motivi sono contemporaneamente tanti e probabilmente non tutti nobili allo stesso modo. Alcuni sono intenzioni positive, altri sono incertezze, bisogni, altri movimenti interiori che fanno la nostra complessità. Noi abbiamo la sensazione che le parabole siano storielle da bambini, spiegazioni che chiariscono, per il semplice fatto che da venti secoli ce le spiegano, e in genere in un’unica direzione. In realtà, per come sono raccontate, hanno sempre avuto un grande tasso di ambivalenza. I buoni parroci che fanno l’omelia la domenica pattinano da morire, per esempio dando un po’ ragione al fratello maggiore del figliol prodigo, e poi spiegando che la logica di Dio non è la logica nostra. Chili di moralismo per evitare l’ambiguità, che invece è propria dello strumento parabola, che non è un esempio chiarificatore, è un’immagine moltiplicatrice per dirci che il mondo è grande, ci sono dentro tante cose, e il nostro cuore è ancora più grande e complicato. E Gesù lo sa. Quindi è meglio andarci cauti a dire «questa è un’evidenza», «questo è giusto», perché non siamo in grado di dominare tutte le ragioni e tutte le immagini e i sensi che stanno dentro la realtà e il cuore degli altri. Normalmente le parabole indicano una strada, un percorso, un motivo per sporcarsi le mani, cercando un modo di tenere dritta la barra del timone dentro la tempesta.

Gesù parla alle folle in parabole, regala loro un principio di realtà; questa lettura è rafforzata  dalle due caratteristiche che emergono da tutte le parabole sul regno dei cieli, la prima costituita dall’espressione “Il regno dei cieli è simile a…” , non si dice “il regno dei cieli è…”. Ancora una volta si crea una possibile polisemia, si usano degli esempi che fanno venire in mente tante cose diverse. Il regno di Dio è inafferrabile: anche quando i testi ci dicono “il regno di Dio è in mezzo a voi, è vicino a voi” oppure “venga il tuo regno” in realtà ci dicono che tutti desideriamo la figura messianica del regno, un mondo dove il lupo e l’agnello possano dormire insieme, le armi siano forgiate in aratri. Desiderando questo, proviamo a cercare strade per realizzarlo, ma di per sé è un sogno messianico. Come dice Woody Allen, se il lupo e l’agnello dormono insieme, l’agnello dorme poco e male… Per adesso è così, e in questo scarto, nella pluralità dei modi in cui ciascuno di noi può attuare – dal pregare fino al partire per i confini dell’Ucraina – c’è il lavorio del regno, un lavorio, come vedremo, segreto.

La seconda caratteristica, tranne per una eccezione che vedremo, il regno è sempre simile a un’azione, non a un oggetto; un agire che implica un prima, un dopo, un tempo, responsabilità. “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Apparentemente, l’esempio è molto semplice, un contadino che fa bene il suo mestiere, semina del buon seme per avere buoni frutti dal suo campo. Perché qualcosa dovrebbe andare male?, ha fatto bene tutto ciò che doveva fare. Qui ritorna il tema del riposo – “non prendetevi mai riposo” (Is 62, 7) – perché “mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. Il peggio della cattiveria possibile, diremmo noi, perché fa danno per far danno, senza alcun vantaggio per sé, e questo accade mentre tutti dormono – in questi tempi si può riposare poco, perché “il diavolo, come leone ruggente, si aggira cercando chi divorare” (1Pt 5, 5). Se c’è una dimensione molto chiara in questo tempo, poco polisemica e molto evidente, è che il male fa parte della nostra esperienza, personale o altrui; lo riceviamo, lo facciamo… nessuno di noi, nemmeno con le migliori intenzioni, ne è esente. In questo senso spesso nel Vangelo il male viene personalizzato: è il nemico, il demonio, il leone, come se fosse un’altra entità, per dire che non è semplicemente una questione di volontà o di morale, che non esiste nessun essere umano in grado di essere sempre perfettamente giusto. Il male è una realtà che ci riguarda, per debolezza, per fatica, per distrazione, ma soprattutto per la complessità del reale, perché spesso non capiamo in tempo qual è il bene. Questa è una cosa cui dobbiamo rassegnarci, non necessariamente c’è una responsabilità morale, non è colpa di qualcuno, semplicemente può accadere che io non capisca fino in fondo di fronte ad una realtà così complessa. Questo significa che il male opera, anche se io non ne ho una colpa diretta in termini morali.

“Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania”. C’è un tempo nel frattempo, che non è breve, in cui tutto lavora nel segreto, non si vede ancora niente, e l’uomo che ha seminato un buon seme è tranquillo, perché ha fatto tutto quello che doveva, non riesce ad immaginare che il male riguardi anche lui. Ma il male riguarda direttamente ciascuno di noi. Quando noi cristiani diciamo che tutti siamo peccatori, non lo diciamo nel senso di un’assoluzione generale per deficienza comune, diciamo una cosa molto più seria, che le nostre vite, di loro, non funzionano ed è sciocco aspettarsi che funzionino solo perché noi abbiamo fatto tutto bene; e che bisogna attivamente non dormire, agire contro il male, non basta fare tutto bene.

“Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». Questa è la logica del mondo, su cui abbiamo già tanto riflettuto. La logica mondana è: un errore – un colpevole. Se qualcosa va male è perché c’è qualcosa che tu non hai fatto come dovevi, perché ciò che si vede è la zizzania. Questo è il primo modo di incrinare definitivamente il noi. Cominciamo a dividerci tra accusato e accusatori, a chiedere giustificazioni.

Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». Se si fermasse qui sarebbe un disastro, perché non è nella logica del regno dare la colpa ad un altro – “non sono stato io!”. È la logica che rompe ogni possibilità di noi e ogni possibilità di lotta contro il male. Ma il brano continua: “E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?» rimanendo nella logica del risultato, non del desiderio.

 «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». L’uomo, che ha fatto le cose bene ma si trova contaminato dal male, assume un atteggiamento attivo, di lotta al male. Il primo atteggiamento attivo, nella lotta contro il male, è salvaguardare la benedizione, non perderne niente. Tagliare la zizzania subito sarebbe una soluzione facile, ma lui dice di no, perché il grano deve essere salvaguardato, perché il primo atto è custodire il bene.

 «Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura»: «sopportate l’ambiguità». Atteggiamento leggermente faticoso, per dirla elegantemente. Ma la scommessa – se volete, l’atto di fede in senso proprio – è sopportare il tempo del mondo come un tempo ambiguo, senza cercarsi un altro mondo, senza immaginare che si possa andare altrove e salvare se stessi, a scapito del noi.

«Al momento della mietitura dirò ai mietitori: raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio».  Ci sarà un tempo di giudizio e discernimento. Condivido con voi la riflessione che sto facendo in questi giorni sul giudizio finale. Non tanto perché pensi che quella che stiamo vivendo sia un’apocalisse, ma perché mai come in questo momento penso che, se non ci fosse la fede in un giudizio finale, sarei disperata. Ci sarà un giorno in cui si tira una riga e c’è un discernimento. Magari un discernimento di misericordia, e spero che mi sia data la pazienza di sopportare il fatto che una misericordia ci sia, ma non è tutto uguale a tutto, le nostre vite, la vita comune, la vita del mondo non sono la stessa cosa. Usare come unico criterio per la vita le questioni economiche, fregandosene di quali costi questo abbia per le persone e per la loro vita, non può essere indifferente. C’è un dovere di giudizio e di discernimento intermedio, che abbiamo anche noi, custodendo la benedizione; il dovere di dire attivamente «non riposo e lotto contro il male», nei modi, magari piccoli e irrilevanti rispetto ai risultati epocali, che mi sono consentiti, ma non posso sottrarmi a questa responsabilità, perché se no anch’io, nel momento del discernimento finale, sarò trovato mancante, non per il male che ho compiuto senza responsabilità diretta, ma per non essermi preso la responsabilità di fronte a quel pezzo di male che ho compreso.

“Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Questo è l’unico caso ,di cui vi dicevo, in cui il regno non è paragonato ad una azione: è simile a un granello di senapa, un oggetto. In realtà il senso della parabola, se non grammaticalmente, almeno logicamente, si riferisce ad un movimento, un processo, perché dice che è il più piccolo di tutti i semi, ma quando cresce è il più grande. Dopo aver affiancato buon grano e zizzania, qui appaia piccolo e grande, e ci dice che il criterio del grande è di essere inclusivo, c’è spazio per tutti gli uccelli del cielo. Si può diventare grandi solo allo scopo di avere più spazio per molti, per molta della complessità, per non avere un’opinione sola, per non essere così convinti di se stessi.

“Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Un terzo carattere, dopo buono/cattivo, piccolo/grande, farina/lievito, l’apparente trasformazione di una cosa in un’altra. Scopo della farina è quello di essere trasformata in nutrimento, ma non lo può fare da sola. Il lievito ha lo scopo di aiutare la farina a diventare ciò per cui è fatta, ma da solo non lo può fare, perché il lievito, da solo, produce solo altro lievito. Non possiamo nutrirci di lievito. Noi ci nutriamo di pane, cioè di un’operazione congiunta – un noi – di farina e lievito, che possono diventare se stessi soltanto attraverso quel noi che rispetta il senso e le proporzioni di ognuno. Altrimenti non succederebbe niente e moriremmo di fame. C’è una trasformazione che è data da un noi rispettoso ma profondamente trasformativo. Personalmente amo tantissimo questa parabola, perché trovo che ogni esperienza di noi passa di qui, per quanto ciascuno di noi sperimenti anche nei rapporti interpersonali quanto possa essere difficile. L’interazione tra soggetti che hanno scopi diversi, che in qualche modo devono trovare la pienezza di se stessi attraverso un altro, che non possono mai farlo da soli ma solo attraverso la costruzione di un noi.

Alla fine di queste brevi parabole senza spiegazioni c’è questo versetto:

“Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: “Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”. Si dice che la folla, cioè tutti, quelli senza un carattere particolare, quelli non qualificati in modo specifico alla sequela di Gesù, hanno diritto solo alle parabole. Traduco: ciascuno di noi ha diritto alla complessità del mondo e del reale, non altro. Questo è ciò che ci è dato, “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, che si vanno mostrando attraverso la molteplicità del loro essere al mondo, nella loro ambiguità.

Poi c’è un versetto che dice:

Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Dalla situazione esterna con la folla, si entra in casa. Questa parola, nel linguaggio biblico ha molti significati, è molto ricorrente, sia in senso verticale, di genealogia e figliolanza, sia di una convivenza, condivisione di intimità e di spazi. Gesù entra in casa e i discepoli – non più la folla – gli chiedono. Qui ci siamo tutti noi, anche un po’ la storia di questi 25 anni dell’Atrio, di gente che non ha smesso, ognuno con la propria sensibilità, di desiderare una spiegazione, e che si ostina, dopo tanto tempo, ad entrare nella casa della Parola per dire «spiegaci». Da questo punto di vista mi sembra che siamo su un buon cammino, sul cammino di coloro che vogliono capire almeno un po’ per poter opporsi al male, almeno fin dove sono in grado di farlo. Questo rimane il nostro desiderio, su cui abbiamo coinvolto altre persone; qualcuno lo ha semplicemente attraversato, altri sono rimasti; a volte ha preso forme coinvolgenti e gratificanti, altre volte un po’ più faticose, in cui ci sembrava di non capire dove stavamo andando, ma continuiamo a darci il tempo di entrare in casa per chiedere spiegazioni. Faccio questo esempio, che riguarda noi, perché sia chiaro che non sto parlando di cose astratte. Per chiedere spiegazioni, per entrare in casa, bisogna metterci tempo e pazienza, una fiducia di fondo che fa sì che si chieda, anche quando una risposta non arriva. Immagino che ciascuno di noi lo faccia nella sua vita, ma abbiamo anche questa esperienza in comune. Non si tratta tanto della forma più tradizionale e più semplice che i poveri hanno usato nella storia della Chiesa, che è la forma della preghiera, del mettersi individualmente a chiedere «spiegati!», magari anche insultandolo un po’ – come posso starci se non capisco?. Questa è la forma più comune e quotidiana che ogni adulto nella fede può praticare. Ma c’è anche una forma di noi già nel chiedere spiegazioni. Nel brano, infatti, non sono i discepoli singolarmente, ma tutti insieme si rivolgono al Signore per chiedere spiegazioni. Dunque, come dice il testo di Isaia, non bisogna prendersi mai riposo e non dare riposo nemmeno a Dio finché non abbia mantenuto le sue promesse e non abbia ristabilito Gerusalemme. Fino al giorno del Regno dovremo continuare a chiedere «spiegati!»

Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno”. È interessante osservare che, nelle spiegazioni omiletiche, si commenta questo testo in modo che noi ci immedesimiamo nei servitori. Invece, i figli del Regno sono il seme buono, che come il seme del grano, finisce sotto terra e muore. Non siamo i servitori, e nemmeno gli angeli della mietitura, siamo il seme buono, o almeno proviamo ad esserlo, a non diventare zizzania. Questa piccola annotazione cambia il senso del testo. In fondo il nostro ruolo non è proprio passivo, ma è un ruolo di vigilanza abbastanza impotente e che sopporta su di sé, che sta sotto terra, tenendo le dita incrociate di spuntare come grano e non come zizzania.

“La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro”. Come dire che finalmente si capirà. L’immagine della luce, per un mondo che non aveva l’energia elettrica e campava di luce solare e qualche candela o lampada, è metafora di chiarezza, un atto di fede che questa complessità giungerà ad una chiarezza. Non perché noi avremo mietuto, o saremo stati servitori, ma se saremo stati seme buono, capace di morire sotto terra.

“Chi ha orecchi, ascolti!” Questa frase spezza la spiegazione della complessità e del tempo necessario rispetto alla condizione della povertà: «non c’è molto di più da capire, non vi arricchite di eccessive spiegazioni, chiedete di capire per diventare poveri».

Poi le parabole riprendono, con altre sottolineature, altri caratteri che vengono messi in luce.

“Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra”.

Sono due parabole sul valore: il Regno è simile alla decisione grave di diventare poveri. Ne abbiamo parlato commentando il testo della volta scorsa, il giovane ricco, e qui si dice semplicemente questo: entrambi vanno, vendono tutto e comprano una sola cosa. Il Regno di Dio è simile alla decisione responsabile di diventare poveri. Su questo, secondo me, per troppo tempo noi abbiamo sorvolato, abbiamo addomesticato questa questione, mentre questo diventa, alla fine di tutto questo testo, uno dei pochissimi criteri concreti applicabili nella complessità. La povertà è condizione di ogni noi possibile, di ogni atto da compiere nella complessità. Non c’è un’alternativa, è un aut-aut molto duro, uno degli elementi che fanno la differenza, nell’Evangelo.

“Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.  Altra parabola che si caratterizza per una distinzione, un discernimento, un giudizio. Ma anche qui, noi non siamo i pescatori, non abbiamo diritto di giudizio, noi siamo i pesci.

“Avete compreso tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Questa è la nostra pacata gioia pasquale da desiderare. Abbiamo capito tutte queste cose? Forse diremmo un un po’ più incerto dei discepoli, forse diremmo «quasi…» ma la conclusione dice che, da bravi scribi divenuti discepoli del Regno dei cieli possiamo, da qui in poi, per tutto il tempo che resta da qui alla mietitura, trarre dal nostro tesoro – perché siamo ricchi di famiglia e abbiamo un tesoro – cose nuove e cose antiche, cioè ciò che ci serve per continuare a vivere, un giorno alla volta. L’immagine dello scriba che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche mi ha sempre ricordato l’idea dell’Atrio, rimanendo fedeli ciascuno alle nostre storie di relazioni di chiesa e di chiese. Sicuramente ha avuto altre stagioni più semplici e gratificanti, ma da questo tesoro traiamo cose antiche ma anche cose nuove, la possibilità di continuare ad essere scribi, discepoli del Regno fino al giorno della mietitura. È un po’ l’immagine della manna, traiamo da ciò che abbiamo ricevuto quello che ci nutre e un giorno dopo l’altro arriveremo ad un discernimento, a condizione di povertà e di giudizio intermedio per non essere coloro che dormono rispetto al male.

Fossano, 9 aprile 2022

 Testo non rivisto dal relatore

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