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14 Aprile 2012
Stella Morra

7. Affidati a Dio

Commento a: Gv 17, 1-26


Premessa

Il tema che stiamo trattando è quello della Chiesa, ma l’associazione mentale che noi facciamo sempre tra Chiesa e chiesa istituzione nelle sue varie forme, dal Vaticano fino al Parroco, in realtà è solo un aspetto della riflessione Chiesa. L’esperienza di Chiesa ha più aspetti e quello su cui noi forse abbiamo lavorato di più è il tema dell’identità e dell’appartenenza.

Un esempio molto banale è questo: quando si fa parte di una famiglia ci sono dati concreti come il vedersi, il sentirsi, ma è solo un aspetto della vita di famiglia; ci sono parti della propria famiglia con cui a volte non c’è concretamente la possibilità di fare Pasqua o Natale insieme ma ci può essere un’appartenenza, un legame molto forte; oppure ci sono parti con cui ti vedi molto di frequente e hai legami di appartenenza molto diversi. Il legame di appartenenza non è solo un dato pubblico ma anche un dato di identità. La morte di mio papà, dopo quella di mia madre, ha per me segnato un momento in cui è sorto il pensiero di non sapere più bene chi ero perché non c’era più la quotidianità a cui appartenevo e quindi questo evento dice qualcosa di me. Il dire che sono io adesso la prima generazione della mia famiglia di fronte alla morte perché gli altri sono tutti più giovani di me è un’esperienza che sposta la comprensione di se stessi. In questo senso ogni esperienza comune è un’esperienza di identità e di appartenenza: di identità perché dice qualcosa di te e di appartenenza perché crea dei tessuti, dei legami che nella vita umana non sono praticamente mai esattamente corrispondenti a quelli pubblici, istituzionali. Ognuno di noi ha fatto l’esperienza di avere amici che consideriamo più di un fratello o di una sorella e di avere fratelli o sorelle con cui, almeno in alcune fasi della vita, non si è tanto amici. Non è detto cioè che i legami di identità e di appartenenza e i legami pubblici coincidano, anzi, per la precisione, secondo l’insegnamento biblico, non coincidono quasi mai. Il fatto che Gesù dica che noi siamo fratelli e non amici, dice una serie di cose: che nella Chiesa si è fratelli, cioè che c’è un legame pubblico, di sangue che prevale sul legame soggettivo di appartenenza e di identità, anche se ci sono entrambe le dimensioni.

Ho detto tutte queste cose perché a me sembravano scontate ma in realtà per qualcuno non lo erano. Qualcuno mi ha chiesto del Papa: questo non si trova nella Bibbia, è una forma storica, avvenuta molto dopo. La Bibbia non dice né bene né male del papato. I testi non ci aiutano a riflettere sul livello istituzionale in modo stretto perché l’aspetto istituzionale è molto più dovuto alla storia e alle varie forme in cui nella storia ci si è organizzati. Il percorso che invece abbiamo fatto e stiamo cercando di fare è quello di riflettere sui temi più profondi che sono l’identità e l’appartenenza e sul loro eventuale rapporto col lato più pubblico di forme storiche.

Eravamo partiti con il testo di Giosuè, l’alleanza di Sichem, ragionando di qual è il cuore dell’identità di questo popolo. Diciamo che ci sentiamo dei salvati per mille motivi anche piccoli, per il bene ricevuto nella vita quotidiana e si ha l’impressione che tutto cominci perché si dice: io scelgo il Signore.

Abbiamo poi visto con il racconto dell’Esodo che Israele comprende di essere popolo non a partire dall’alleanza di Giosuè ma a partire dall’esperienza dell’Esodo; l’alleanza di Giosuè viene già dopo. In realtà noi scegliamo perché c’era un sacrificio già in origine che ha prodotto una benedizione. Certo, noi possiamo riconoscere o no questa benedizione. Nel film “Il concerto” di Radu Mihaileanu, da una parte c’è questa madre, Lea, che si abbandona al sogno folle del concerto perfetto e dall’altra c’è ciò che incontra per la strada e cioè la persecuzione comunista, essendo lei ebrea, e quel sacrificio sembra sterile. Poi in realtà tutto si muove quando viene mandato il messaggino “fatelo per Lea”. È la memoria di quel sacrificio che muove tutti da dove erano, ognuno per la sua strada, seguendo le proprie benedizioni: un nuovo lavoro, un guadagno facile, un nuovo modo di vivere. Dal “fatelo per Lea” si muovono e può venire fuori l’armonia di un concerto. È un sacrificio che dà origine a tutto, che viene prima ma che in realtà noi riconosciamo dopo. Funziona come negli amori: ci si innamora perché si idealizza, se non si idealizzasse non ci si innamorerebbe e solo dopo un po’, cioè quando si esce dall’idealizzazione, si ama davvero. In realtà questo amarsi davvero era quello che stava prima perché altrimenti non ci si sarebbe nemmeno innamorati anche se alcune cose durante l’innamoramento non si erano viste.

Nel terzo passo ci siamo soffermati sulla prima lettera ai Corinti, e abbiamo visto che l’elemento fondamentale è la profezia o, per dirlacon il nostro linguaggio odierno, lo scambio di parola. È la parola che edifica ed è proprio su questo che le nostre comunità fanno acqua. Nessuno di noi può forse cambiare le forme istituzionali, come per esempio la riforma del ministero sacerdotale, ma può ricostituire dei circuiti di parola e di parole vere. L’esempio è proprio questa lectio. Durante questi incontri non abbiamo forse acquisito nuove amicizie ma sentiamo che c’è un legame profondo perché la riflessione sulla Parola di Dio muove delle identità e delle appartenenze vere, mentre nelle nostre comunità parrocchiali mediamente il legame è formale e non reale. Su questo tema della profezia come parola scambiata ci sarebbe da  fare un bel ragionamento e da individuare alcune strade da percorrere.

Abbiamo poi ragionato su strutture e martirio, la questione delle forme storiche. Ricordate il brano sul martire Stefano. La struttura nasce da un’esigenza concreta da un lato e dall’altro ci si dà una forma. Stefano viene martirizzato per aver proclamato la parola, come a relativizzare la struttura. La struttura viene data, Stefano legge il brano sui diaconi ma poi si vede che la vita funziona in un altro modo: la struttura serve se serve a far girare le cose, poi la vita fa quello che gli pare e quindi Stefano che è un diacono poiché predica la Parola viene immediatamente martirizzato ed è il primo martire.

La volta scorsa abbiamo analizzato il testo degli Atti degli Apostoli, Pietro in casa di Cornelio, con le questioni di identità, di distinzione; perché identità dice chi sono io ma dice anche identico e quindi il correlativo di identità è diverso. Non è un caso che in italiano come in molte altre lingue neolatine noi abbiamo questa sovrapposizione: identità dice me e dice anche uguale perché la radice etimologica dice che vivere significa diventare uguali a se stessi. Questo però si presta al fatto che è soggetto come me solo chi è uguale a me. Ogni identità pone un problema di confine.

Il testo di oggi è il capitolo 17 del vangelo di Giovanni e offre una traccia di risposta alla domanda dell’identità e dell’appartenenza, del privato e del pubblico, della difesa strenua della propria identità, della fatica di relazionarsi con le diversità che sono bellissime e colorate da lontano, ma un po’ più affaticanti da vicino. Se quindi la Chiesa è questa esperienza di equilibrio tra identità ed appartenenza, tra pubblico e privato, tra le forme che vanno credute ma anche relativizzate e il martirio che va percorso ma anche non preso troppo sul serio, come facciamo?

Si capisce molto bene come oggi sia molto difficile sentirsi e fare l’esperienza di Chiesa. Tutti ne facciamo una piccola riduzione. È talmente complicato questo equilibrio che quando si trova un gruppo in cui ci si trova bene si smette di cercare o si va a messa alla domenica, si legge la Bibbia per conto proprio, si pizzica qua e là qualche esperienza e basta. Oppure al contrario si hanno fasi forsennate in cui si fa il catechista, l’animatore e tutto quello che si può per sentirsi a posto. Ognuno di noi cioè ne prende un pezzo perché questo equilibrio, questo prendere profondamente sul serio il dato comune e contemporaneamente prenderlo molto sul ridere, che sarebbe l’operazione da fare, è troppo faticoso. E allora come si può fare?

Ho cercato quindi nella Scrittura un’interlocuzione su tutto questo.

Il testo di Giovanni fa parte del discorso sacerdotale. Subito prima del sacrificio di Cristo e della sua morte e passione, Giovanni dà il sonoro al video dei sinottici: nella preghiera nell’orto del Getzemani si parla di dolore, di solitudine ma non si dice per cosa Gesù pregasse; è Giovanni che ce lo dice. Ci dà cioè questo dialogo intimo di Gesù con il Padre subito prima del sacrificio e per questo è appunto storicamente conosciuto come la preghiera sacerdotale. Ci dice quindi che c’è una consacrazione sacerdotale, un dovere di culto.

Voi sapete che ogni battezzato è profeta, sacerdote e re. Della profezia abbiamo parlato abbastanza. Parlare di regalità significa parlare delle cose come stanno e cioè del lavoro, della famiglia, dei figli, delle malattie, delle cose che noi come re siamo chiamati a governare verso il regno di Dio. In mezzo c’è questa altra caratteristica sacerdotale un po’strana. Il Vaticano II dice che è di tutti perché se Cristo è profeta, sacerdote e re, ciascuno di noi, conformato a Cristo è profeta, sacerdote e re. Questo dato sacerdotale indica la capacità di rendere a Dio attraverso sè ciò che è pubblico, comune, e la capacità di ricevere da Dio ciò che serve per tutti e renderlo al mondo. La funzione sacerdotale è proprio questo luogo di mediazione. Se non ci facciamo abbagliare dalla forma del sacerdote attuale, è il punto di collegamento tra la vita com’è e l’esperienza di Dio che passa attraverso di me; tutto il mondo, le cose, le persone, la storia passano in me, io le assumo e le offro a Dio e contemporaneamente la parola che Dio dice a me, la grazia, la benedizione che opera in me non è per me, ma attraverso di me diventa parola, grazia, benedizione per il mondo. È quanto ha fatto Maria: ha generato il Verbo per il mondo e ha generato il mondo al Verbo. Quindi la funzione sacerdotale è forse quella più problematica perché a fare andare avanti le cose del mondo più o meno ce la facciamo, facendo del proprio meglio, secondo giustizia; cercare parole vere è faticoso ma ci si può provare, ma il farsi carico di tutto ciò che è comune per offrirlo a Dio e di ciò che Dio fa per me perché diventi comune è molto faticoso.

Dunque in questa preghiera, secondo Giovanni, Gesù si fa carico di tutto quel che è successo, offre i suoi al Padre e riceve dal Padre una benedizione che sulla croce e nella risurrezione diventerà benedizione per tutti noi.

Il testo

1Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. 5E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.

6Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. 7Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.

9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi.

12Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura. 13Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. 14Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.

Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.

20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.

22E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. 23Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.

24Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.

25Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto, e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato. 26E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Secondo la regola che ci siamo detti molte volte, nei primi versetti c’è già tutto. In questi primi cinque versetti ci sono già tutti gli elementi di tutto il lungo discorso di cui noi leggeremo fino al versetto 26, ma che di per sé continua ancora nel capitolo seguente riprendendo e rimettendo in gioco quello che già troviamo qui. Ci sono alcune parole chiave su cui richiamo la vostra attenzione. Sono: è venuta l’ora, più volte la parola gloria e derivati, poi tu gli hai dato potere e infine perché egli dia la vita eterna e questa è la vita eterna che conoscano te.

Purtroppo noi abbiamo queste parole nelle orecchie dalla liturgia e ci suonano come un sanscrito arcaico cioè capiamo le parole ma non riusciamo a vedere che cosa sta dicendo. Azzardo quindi un tono un po’ feroce di traduzione.

Innanzitutto questa questione della gloria che Giovanni usa molto. Pensate al racconto del cieco nato (Giovanni 9; qui i versetti 2-3): «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio».

La gloria è un termine tipico della cultura ebraica. Abbiamo sentito nelle letture di Pasqua della nube che guidava il popolo eletto (Esodo 13,21-22 e 14,19-20). La nube sta davanti per guidare il popolo ebraico nel deserto ma poi quando si arriva al Mar Rosso passa dietro perché gli egiziani non devono vedere cosa succede. C’è un bellissimo libro di Erri De Luca che si intitola “Una nuvola come tappeto”, espressione ebraica che dice che mentre camminavano nel deserto la luce stava davanti e li guidava e la gloria come tappeto gli faceva ombra per ripararli dal caldo del deserto.

Che cos’è questa immagine della gloria? È il luogo della vivibilità e della visibilità del rapporto con Dio, il luogo dove il rapporto con Dio si vede, si vive, si tocca. Purtroppo questo è abbastanza complicato perché Dio non si vede faccia a faccia, dice l’Antico Testamento.

I ragazzini ci chiedono: ma dov’è questo Dio? Noi adulti non lo diciamo più ma quando l’Antico Testamento afferma che Dio non si vede faccia a faccia vuole significare che non abbiamo con Dio lo stesso tipo di visibilità e di vivibilità che abbiamo con gli umani. La Scrittura però ci dice che c’è un luogo specifico dove noi possiamo vivere e vedere Dio che si chiama gloria. L’evangelista Giovanni ci dice che la gloria di Dio è Cristo e Ireneo, due secoli dopo, ci dice che “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Nell’Antico Testamento la gloria di Dio ci sembra assomigliare ancora un po’ alle apparizioni della Madonna, cioè un evento straordinario, come la nuvola che passa dietro per fare passare gli ebrei. Ha ancora il tono di una sacralità, di un evento eccezionale: nella vita quotidiana siamo da soli, poi Dio compare, per esempio sul Sinai. Molti cristiani vanno ancora alla ricerca di questo modo di incontrare Dio, sia nelle sue forme più estreme seguendo tutte le apparizioni possibili e immaginabili, sia nelle sue forme quotidiane: se non posso andare in chiesa non trovo Dio. È la forma veterotestamentaria, quella di una gloria speciale. Ma Cristo ci dice qui, prima di morire, in modo molto chiaro, che lui è la gloria di Dio, lui è la gloria dove Dio si incontra. Di lui, della sua vita noi abbiamo la narrazione nel Vangelo e nell’eucarestia. Ireneo, che aveva capito, dice: per questo la gloria di Dio è l’uomo vivente. Cioè, l’esperienza della nostra vita, incontrata davvero, è il luogo dove noi rendiamo vivibile e visibile l’esperienza con Dio. Dopo Ireneo siamo precipitati verso il basso e abbiamo trasformato questo in una lettura morale e cioè la nostra vita è il luogo in cui noi siamo coerenti con il fatto di avere incontrato Dio, che è diverso. Un conto è dire che lì lo incontro, lì vivo il mio rapporto con Dio e un conto è dire che lì sono coerente con il fatto di averlo incontrato.

Gesù dice che “è venuta l’ora”, siamo al dunque, glorifica il tuo figlio cioè rendi il tuo figlio il luogo dove tu puoi essere incontrato, rendi vivibile e visibile l’incontro con Dio.

Se volete lo trasformo ancora: noi tendiamo a immaginare il rapporto personale con Dio come qualcosa che avviene dentro e ad attuarlo con una serie di pratiche devote per cui bisogna avere silenzio, tempo per pregare. Tutto questo fa bene ma la questione è un’altra: il nostro rapporto personale con Dio è nella nostra vita, nel nostro essere vivente com’è e nell’essere vivente di Gesù, perché lì è la gloria. Quindi non si può avere un rapporto con Dio e tenerselo per sé senza rapporto con il mondo pubblico. Come quando si dice: “io credo un po’ a modo mio”; è una cosa tenera ma una sciocchezza perché se il nostro rapporto con Dio è nella nostra vita, non c’è un modo nostro ma c’è la nostra vita, c’è la gloria che gli altri incontrano nella nostra vita oppure no, c’è il nostro farsi carico della vita degli altri oppure no.

In più Gesù dice: in questo tu hai dato potere al figlio perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato e questa è la vita eterna: che conoscano te.

Gesù ha un potere speciale che gli è stato dato da Dio e che noi non abbiamo: darci la vita eterna. La vita eterna ci evoca gli angeli, il paradiso, ma in realtà la vita eterna non è solo questo, è soprattutto non solo una vita in lunghezza ma una vita in larghezza. È il non essere tutti lì, il non essere esauriti dalle gioie e dai dolori, dalle fatiche, dai dubbi, dalle decisioni. L’esperienza della vita eterna è che c’è un pezzo in più sempre: in ogni momento, anche nel nostro più atroce dubbio, nella nostra più grande sofferenza, c’è un altro pezzo, un’eccedenza che è come Dio ci vede e in cui noi possiamo metterci a vivere. Questa distanza ci salva, perché non anneghiamo mai dove siamo. Nella nostra vita questo non è banale perché noi tendiamo ad essere tutti lì: se siamo contenti ad essere tutti contenti, se stiamo male a stare tutti male, se siamo indecisi ad essere tutti ansiosi. Dobbiamo fare l’esercizio di trovare questa eccedenza: mettersi nel grembo di Dio per vedere come Dio vede le nostre vite. Come dice il Salmo 2,4 bisogna guardare quel pezzo della nostra vita per quello che è sorridendo.

C’è un ultimo elemento nei primi cinque versetti, è lo scambio: Io ti ho glorificato… E ora padre glorificami con quella gloria che io avevo presso di te. Niente accade se non con la logica dello scambio, cioè nessuno se lo può dare da solo. È come la tristezza che viene se ci compriamo un regalo da soli, perché un regalo è bello se qualcuno ce lo regala. Metà della poesia di un regalo è perduta se l’altra persona non ha scoperto cosa volevamo o cosa non sapevamo neppure di volere e non ce lo ha regalato. La logica del rapporto con Dio è una logica di scambio. Nella liturgia c’è sempre botta e risposta: è l’esperienza concreta che nessuno da solo si basta. È come quando si recitano le lodi da soli: ci si fa la domanda e ci si dà anche la risposta perché si mostra che nessuno basta da solo. Ciò che è ricevuto diventa benedizione. È tutelando i diritti degli altri che tuteliamo i nostri. Questo nel periodo attuale è abbastanza sconvolgente perché tutto ci spinge a dire che ognuno deve tutelare se stesso e che ogni tutela dell’altro è un impoverimento, però la logica è quella dello scambio.

Salto un po’ di cose perché il testo è lungo ma ognuno se lo può leggere con calma per conto suo.

6Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato nel mondo. Erano tuoi, li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te… hanno creduto che tu mi hai mandato.

Per prima cosa si sofferma sullo scambio. Nella Trinità unità e differenza fanno parte della perfezione: Dio è uno ma è anche trino e quindi quello che è un po’ diverso da Dio è anche Dio e sta in relazione con Dio. Questa perfezione è propria solo della Trinità. Per noi che differenza e relazione facciano parte della perfezione avverrà solo nell’ultimo giorno, quando lo riceveremo da Dio. Però abbiamo questo modello di un Dio non uno, ma uno e trino in cui la relazione tra Gesù e il Padre, il loro essere uguali e contemporaneamente diversi è segno di perfezione. È una logica in cui la scambio non è l’umiliazione di dover ricevere dagli altri qualcosa ma è il più alto luogo della perfezione possibile.

9Io prego per loro; non prego per il mondo ma per coloro che tu mi hai dato perché sono tuoi. Tutte le cose tue sono mie e le mie sono tue e io sono glorificato per loro. Io non sono più nel mondo, essi invece sono nel mondo e io vengo a te. Custodiscili nel tuo nome quelli che mi hai dato perché siano una sola cosa come noi.

Gesù dice al Padre: se questa perfetta comunione è solo in noi e io me ne devo andare, c’è bisogno che qualcuno tenga una mano sulla testa al mondo perché possano anche loro essere una cosa sola come noi e rimanere distinti dal mondo, cioè accettare la loro differenza dal mondo non come un errore né loro né del mondo.

12Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome… dico questo mentre sono nel mondo perché abbiano la pienezza della mia gioia.

Guardate la delicatezza del ragionamento! Gesù dice al Padre: di per sé potevo andarmene, veniva lo Spirito Santo che era l’ennesima differenza di Dio che si prendeva cura di loro e che ancora oggi si prende cura di noi negli amici che incontriamo, nelle cose che accadono. Ma Gesù, prima di andare via, dice queste cose perché abbiano in sé la pienezza della gioia. Perché è brutto non sapere, ci verrebbe l’ansia, perché avremmo paura di confonderci di fronte a questa necessità di lavorare su noi stessi, sulla nostra vita, sull’identità e sull’appartenenza non prendendo niente di tutto ciò troppo sul serio. Quindi prima di andarsene Geù pronuncia il messaggio del Risorto che abbiamo sentito tante volte: non abbiate paura! Dio ha cura di voi, vi custodisce!

Bisogna fare tutto un discorso su Gesù che c’è e Gesù che non c’è. La chiesa ha sempre molto insistito su Gesù che c’è. È vero, Gesù c’è nell’eucarestia, nei poveri, nella liturgia, ma c’è secondo la logica della gloria. Come quando noi diciamo che coloro che noi amiamo sono morti in Cristo; certo, ci sono, ma dobbiamo imparare ad avere con loro un altro tipo di rapporto; che non vuol dire che non ci sono ma ci sono in un altro modo. Non è banale imparare ad aver con loro un altro tipo di rapporto. Allo stesso modo Gesù c’è, non ci lascia soli, ma c’è in un altro modo. Non è sulle nostre strade, non fa miracoli e dobbiamo imparare ad avere con lui il rapporto che abbiamo con i sacramenti.

17Consacrali nella verità.

Questo piccolo versetto è stato usato tanto e tanto male nel corso della storia della chiesa. Era il motto degli inquisitori, il motivo per cui venivano torturati quelli accusati di eresia, le streghe. Ancora oggi è un modo di esercitare un potere di controllo. A me sembra che qui, in questa logica, è soprattutto un invito a non avere paura perché chi cerca seriamente la propria verità, in buona coscienza, prima o poi troverà Dio. Perché il Signore ci ha consacrato nella verità e per questo noi possiamo non avere paura. Se siamo onestamente credenti possiamo fare molte cose sbagliate ma non ci possiamo sbagliare: siamo consacrati nella verità. Questo vuol dire che se onestamente cerchiamo la verità di noi nella nostra vita, nei nostri rapporti, nel nostro rapporto con Dio, da qualche parte, in qualche modo, prima o poi ci arriviamo non perché siamo bravi ma perché siamo pre-destinati a questo. Non c’è modo di sfuggire a questo destino benedetto: siamo consacrati nella verità. A volte la chiesa ha interpretato questo come un dato di partenza: ci sono un elenco di verità e noi dobbiamo mettere la firma sotto. Noi oggi comprendiamo un po’ meglio che essere consacrati nella verità è un dato di arrivo. Possiamo fare strade molto diverse, anche perderci, ma sappiamo con certezza che arriveremo a quelle verità. L’idea che la verità è alla fine e non all’inizio dice tutta la tolleranza delle molte strade diverse che si possono fare.

Alla fine Giovanni riprende il tema della gloria: 22La gloria che tu hai dato a me io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me.

Il luogo della gloria è il luogo dove si vede che Dio ci ama. Per questo la tradizione ci ha sempre detto che i cristiani dovrebbero essere un po’ contenti. Chi incontra un cristiano dovrebbe incontrare una persona non troppo stressata, una persona che è un po’ contenta della propria vita che è una vita amata. Il nostro farci carico della storia del mondo davanti a Dio sarebbe in primo luogo smettere di essere uccellacci del malaugurio provando invece ad esser contenti della nostra e dall’altrui vita. Don Mario Picco diceva sempre che un cristiano, a cui qualcuno dice che è stupido, dovrebbe rispondere: “Però, hai una bella voce”. È un criterio molto semplice: imparare a nutrire la benedizione, a riconoscerlo anche quando è un frammento piccolo o addirittura non intenzionale e quello che è intenzionale forse è male. Questo è il luogo dove riceviamo la gloria.

Fossano, 14 aprile 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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