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7 Novembre 2020
Stella Morra

2. Com-prendere/lasciarsi ferire

Commento a: Gv 19, 12-37


 

Grazie a tutti voi per esserci in questa modalità un po’ strana, che appunto da una parte permette la presenza di molti, che altrimenti non ci sarebbero stati, e dall’altra però ci costringe tutti dentro a una dimensione che, soprattutto ragionando intorno a temi spirituali, almeno per me è un po’ faticosa, un po’ asettica, un po’ distante. La situazione è quella che è, la realtà s’impone, dunque prendiamo le possibilità che ci sono per mantenerci nella realtà. L’altra volta abbiamo cominciato questo percorso in cui l’idea è di trovare delle parole, lavorando su delle coppie di parole, che non sono una sbagliata e una giusta. Sono parole che in qualche modo si tengono – in una tensione – rappresentando l’una qualcosa che ci sembra finire, nel bene e nel male, ci sembra comunque finire al di là della nostra volontà e invece cercando quelle che ci sembra che possano raccoglierne l’eredità e indirizzarci più verso il futuro. Parole, quelle usurate, che in qualche modo ci danno comunque un’eredità, degli aspetti e delle questioni da tenere, ma quelle in genere le conosciamo un po’ meglio, e poi cercando invece parole che, pur raccogliendo questi aspetti, ci rilancino verso il futuro. In questo momento credo che siamo tutti un po’ più appesantiti, pur nella difficoltà generale del periodo. Sento intorno a me, ma anche in me, che questo secondo giro è un po’ più pesante, più faticoso, per molti motivi e poi in questo momento, pensando in particolare al mondo dell’Atrio, degli amici conosciuti in comune, questa vicenda ci ha sfiorato o toccato intensamente molto più da vicino, ma vale per tutti, evidentemente.

Riflettevo, preparando l’incontro di oggi, che la scelta del brano di Giovanni, che è il racconto della morte di Gesù, mi sembrava un regalo particolare per questo passaggio, per questo tempo e in qualche modo per raccogliere le radici, i sogni e i desideri che ci sono in un passaggio così serio e duro, come la morte è. Ma anche per raccogliere altre tensioni che in questa esperienza ci sono: la tensione tra assenza e presenza, tra dolore e speranza. Di fronte a delle morti che ci colpiscono da vicino – di persone che conosciamo, a cui vogliamo bene – tutti credo facciamo l’esperienza della coesistenza di sentimenti che teoricamente sono opposti; che uno dice: vabbè se hai speranza non dovresti essere così addolorato, no? E invece non è vero: uno ha una speranza e contemporaneamente è anche molto addolorato; uno sente un’assenza e contemporaneamente sente anche una grande presenza. È un’esperienza questa – della coesistenza di sentimenti e di parole diversi – che credo ci abbia attraversato tutti e ci attraversi tutti.

Allora, da questo punto di vista, credo che partiamo proprio da qui: quello che ci serve per abitare i giorni che ci aspettano, quanti essi siano, è imparare la coesistenza delle parole che usiamo per dire come ci sentiamo, che cosa accade. Se c’è una cosa su cui io personalmente sto riflettendo molto è proprio questa: la necessità di uscire da una logica di opposizioni, che non è solo una questione morale, ma è proprio di pensare che se le cose vanno bene allora sono contento, se le cose vanno male allora sono triste, se ho fortuna va tutto bene, se ho sfortuna va tutto male. La vita non funziona mai così. Quasi tutte le cose coesistono e possiamo sempre avere un buon motivo per trovare ciò che va male o ciò che va bene, un seme di una cosa nell’altra. Allora, da questo punto di vista, io credo che anche il nostro sguardo sulla realtà dovrebbe imparare ad essere così inclusivo per poter immaginare un futuro.

Dicevamo prima: questo strumento ci limita, da una parte, dall’altra ha in sé la possibilità di vedere, almeno in schermo, persone che altrimenti non vedremmo. Allora bene: l’una cosa e l’altra coesistono e la vera questione non è scegliere tra l’una o l’altra, perché in genere è la realtà che sceglie, ma decidere uno come si mette, che cosa fai, quale parte servi delle due, quale nutri e quale, in qualche modo, cerchi di addomesticare, senza negarne nessuna delle due.

La lectio di oggi

Allora, da questo punto di vista, il brano di oggi, che è quello di una parte del capitolo 19 di Gv, mi sembrava un brano particolarmente fecondo, particolarmente ricco. Abbiamo già detto l’altra volta che la scelta non è sui sostantivi, i nomi, i concetti, che sono un grande segno di possesso; e se c’è qualcosa che stiamo imparando è che la realtà non si domina, soprattutto in questo tempo, ma non si domina mai in realtà. Citavo l’altra volta Mary Daly, che diceva che quando si parla di fede bisogna usare verbi e avverbi, non sostantivi, perché non bisogna possedere ma abitare dei processi, riconoscere l’azione, vedere ciò che accade, ciò che noi possiamo fare, ciò che Dio fa. Allora i due verbi di oggi, la tensione di oggi, legata a questo brano, è com-prendere e lasciarsi ferire, che mi sembra anche una parola adatta per il momento concreto che molti di noi nell’Atrio stiamo vivendo e che molti nel mondo stanno vivendo. Il dolore ci ferisce sempre, in un modo o nell’altro; spesso non ci lascia scelta, non possiamo scegliere di non provare dolore, dobbiamo lasciarci ferire e a volte spesso senza comprendere, ma cercheremo di vederlo un po’.

Il testo: Gv 19, 12-37

19 12Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà; ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».13Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. 14Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». 15Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». 16Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

Essi presero Gesù 17ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, 18dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. 19Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». 20Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. 21I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: «Il re dei Giudei», ma: «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei»». 22Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

23I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. 24Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice:

Si sono divisi tra loro le mie vesti

e sulla mia tunica hanno gettato la sorte.

E i soldati fecero così.

25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. 26Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». 27Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

28Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. 30Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

31Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. 32Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. 33Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 35Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. 36Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. 37E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.

Commento

19 12Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà; ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».13Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. 14Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». 15Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». 16Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

C’è questo punto di partenza: Pilato. Pilato non gode di buona fama nell’immaginario di chi un po’ ha frequentato il Vangelo, ma Pilato non è un malvagio, il suo punto di partenza è: cercava di metterlo in libertà. Sarebbe uno con delle buone intenzioni all’inizio, di per sé, ed esattamente come noi si mette dalla parte di un desiderio di libertà, dunque di un desiderio buono, per sé e per altri; non ha niente di malvagio in questo desiderio. È un pavido, ne è diventato un po’ la figura, di quelli che se ne lavano le mani, non fa proprio la figura di un coraggioso, questo è chiaro, ma contemporaneamente mi sembra che non sia semplicemente un pavido. Certo lo è, ma questa lettura moralistica come al solito non ci aiuta molto, perché possiamo raccontarci: io avrei scelto in un altro modo, poi chissà come avrei scelto. In realtà mi sembra che la questione sia più seria, lui si trova davanti a una scelta: Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare. La parola che viene detta da quello che qui viene chiamato il popolo, i capi dei sacerdoti – noi potremmo dire il buon senso comune, anche la nostra parte interiore di buon senso – è una parola che riduce a una scelta: o… o, esattamente il contrario di quello che dicevo prima, non è inclusiva, non tiene in tensione le cose: o stai da una parte o stai dall’altra. E Pilato qui fa il suo grande errore: Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale; il tribunale è il luogo immaginario – simbolico ma anche reale – del giudizio: o… o, o innocente o colpevole, o giusto o sbagliato, o da tenere o da buttare. È un luogo realistico, dove accade l’esperienza del giudizio, ma è un giudizio in cui Pilato entra in conflitto con il proprio desiderio: cercava di metterlo in libertà. Le parole che Pilato usa, dice: Ecco il vostro re!, sono parole comuni, quelle che ha a disposizione e che sono anche comuni da parte della gente che gli ha messo la questione sul piano di mettere Gesù in contrapposizione con Cesare. Qui si vede molto bene come questa questione di cercare le parole non è una questione – letteraria o puramente estetica – di avere delle parole giuste o raffinate o intelligenti. Il problema è che se la metti con certe parole non ne esci più. Se la questione è Ecco il vostro re! O lui o Cesare, non puoi uscire da una logica di contrapposizione. Devi decidere da che parte metterti, ti costringi da solo dentro una scelta.

Le parole che usiamo per raccontare noi stessi e per condividere con gli altri o per interpellare gli altri, sono parole che già contengono una risposta e quindi, per esempio, avere le parole giuste per questo tempo è fondamentale. Credo che tutti noi siano sovrastati dai ragionamenti comunicativi di migliore o peggiore qualità su giornali, telegiornali, radio, perché tutti ne siamo invasi grandemente e credo che, in una situazione come questa, tutti siamo irritati da chi pone le questioni in modo radicalmente opposto: ha ragione il governo centrale, hanno ragione le regioni, ha ragione chiudere, ha ragione aprire. Siamo tutti molto consapevoli che in questa situazione non c’è una soluzione sola; tutti continuiamo a dire la stessa cosa: ci va una cooperazione di tutti: istituzioni, cittadini, governo centrale, governi locali, perché non ne usciamo da un problema vero, che la realtà ci impone, se non uscendo dalle parole che siamo abituati ad usare e che, come qui la parola re e la parola Cesare, usandole come sono sempre state usate, diventano un cappio senza uscita. Abbiamo bisogno di saper spiegare a noi stessi, ma anche di condividere con altri, ragionamenti che siano più et… et, non aut… aut, che tengano insieme il meglio possibile, se riusciamo il meglio e qualche volta anche il peggio, delle diverse situazioni. E riconosciamo subito quando c’è un interlocutore che parla – ad esempio in questo momento delle cose legate all’epidemia – con questa logica mentale, con questo tipo di parole. Pilato non ce la fa, non ha altre parole, ragiona nei termini del potere istituzionale: re, Cesare, la folla ecc. e dunque a un certo punto deve cedere: Non abbiamo altro re che Cesare lo mette con le spalle al muro. Viene messo alle strette: lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Non è quello che voleva.

Il paragrafo inizia: cercava di metterlo in libertà e si conclude: lo consegnò loro perché fosse crocifisso. E quindi questa esperienza che, non avendo le parole giuste, si viene costretti contro la propria libertà è un’esperienza per cui poi alla fine è sempre colpa di un altro. Alla fine, essendo profondamente insoddisfatti di essersi messi contro il proprio desiderio, dobbiamo trovare un colpevole: sono i sacerdoti, è il popolo, io non volevo, non è colpa mia, è la gente che è irresponsabile … ognuno si inventa ciò che può e vuole. Da questo punto di vista, Pilato è messo alle strette dalla necessità di una razionalità interna, rimane dentro, cerca di com-prendere dall’interno, non esce dalle parole, dalle strutture, dalle questioni; non ha un’altra narrazione possibile e, non avendo un’altra narrazione possibile, è costretto ad agire contro il proprio desiderio. Per questo io credo che il lavoro da fare in questo tempo – iniziandolo adesso ma che sarà un lavoro molto lungo per tutti, perché quello che ci sta attraversando è qualcosa di molto grande, di molto pesante, e non sarà cosa breve – sarà quello di imparare delle parole per porre le questioni senza che vadano contro il nostro desiderio iniziale, che normalmente è buono; imparare ad usare altre parole, con una razionalità esterna, o trasversale se volete, cioè con un comprendere che rimane necessario, ma che sia un comprendere che lascia che la realtà lo ferisca, che non rimanga dentro alla realtà già stabilita. Il testo dunque continua esattamente ponendoci immediatamente l’alternativa, l’altro pezzo, l’altra metà:

Essi presero Gesù 17ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, 18dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.

La figura cristologica, cioè Gesù, qui è proprio l’altra metà, l’altro comportamento: porta la propria croce, viene condotto in un luogo che si chiama il cranio. Mi faceva sorridere quando ragionavo su questa cosa, perché ci sono anche molte icone che rappresentano la crocefissione su un monticello, dentro cui c’è il cranio che secondo la tradizione leggendaria sarebbe il cranio di Adamo, del primo uomo, perché il nuovo Adamo esce dal vecchio Adamo, c’è tutta una poetica su questa cosa. Io pensavo che visto come ragioniamo in questo tempo, la nostra poetica leggendaria, non è esegesi, è una riflessione di ampio raggio, è proprio questo: la razionalità interna ci sta uccidendo. L’Ottocento ha prodotto la festa liturgica del sacro cuore, ma la Chiesa non ha mai prodotto la festa del sacro cervello e un motivo ci sarà. L’idea di comprendere, nella sua parte più negativa, di prendere, di possedere i nomi, i concetti – e dunque tutto ciò che è legato nell’immaginario alla testa, al cranio – su questo viene piantata la croce; perché è una radice necessaria, bisogna comprendere, ma non si può prendere tutto, perché altrimenti si rimane in una razionalità interna alle questioni. Bisogna che l’esterno ci attraversi, perché solo così si può con – prendere, prendere insieme agli altri e stare in un altro linguaggio, e stare dunque in mezzo, come Gesù sta, uno da una parte e uno dall’altra, lui sta in mezzo. In buona compagnia? Mah, forse sì, in compagnia di due non sappiamo chi, certo se erano crocifissi probabilmente erano stati giudicati colpevoli di qualcosa di abbastanza grave; ma, detto questo, lui sta in mezzo esattamente a quella parte che non ha parola, che non invoca Cesare, il re, la ragione, la comprensione, che non reclama diritti. Sta in mezzo a due ammutoliti. E non è un caso che la devozione popolare cattolica ha prodotto, per esempio, tantissima riflessione spirituale sulle sette parole che Gesù avrebbe detto sulla croce. Le ha pensate tanto quelle sette parole, perché sono parole decisive, sono parole dette a partire dal cuore di coloro che si sono ammutoliti, e non sono il luogo comune, sono parole trasversali, sono parole che arrivano da fuori, parole che si lasciano ferire. Qualcuna la vediamo nel brano di oggi:

19Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». 20Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. 21I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: «Il re dei Giudei», ma: «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei»». 22Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».

È interessante perché il piccolo cammeo che ci dice i tre gesti di Gesù – prendere la croce, accettare che la croce sia piantata in un luogo che si chiama il cranio e stare in mezzo a due ammutoliti – è incastonato dal ragionamento che facevo prima, dalla razionalità interna. Pilato si vuole togliere una soddisfazione: poiché lo hanno costretto ad andare contro il proprio desiderio, deve comunque rivendicare qualcosa e questa è la spirale che comincia ogni volta che, non riuscendo ad avere delle parole inclusive, siamo costretti dalle scelte, dalla vita, dalla realtà, ad andare contro il nostro desiderio. Questo non ci lascia uguale a prima. Tradizionalmente si dice, ci lascia pieni di rancore e mette in moto un meccanismo per cui dobbiamo toglierci qualche soddisfazione, per cui Pilato – che sembrava pavido – si toglie la soddisfazione e cioè decide che comunque spiega lui perché e dice: Il re dei Giudei e lo scrive nelle tre lingue che vogliono dire tutte le lingue del mondo, ebraico, latino e greco, per tutti, perché tutti capiscano, perché la razionalità di quel gesto, di quella scelta, sia riconosciuta e ribadita, perché in qualche modo lui non possa essere accusato di niente. E giustamente i sacerdoti, il popolo gli pongono la questione formale: Non scrivere: «Il re dei Giudei», ma: «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei». Dicono: no, la parola è sbagliata, la tua comprensione è sbagliata e Pilato chiude con questa frase che mi sembra veramente molto indicativa per noi in questo tempo: Quel che ho scritto, ho scritto. Che sarebbe quando noi diciamo: vabbè ma questa non è un’opinione, è un’evidenza. Tutti in questo tempo invocano fatti e a me ogni tanto verrebbe da dire: ok, per prendere delle decisioni ragionevoli in ambito medico, scientifico, abbiamo bisogno di fatti, ma i fatti da soli non bastano mai: parole per favore, parole perché quei fatti abbiano un senso, sappiamo dove metterli e cosa farne. Perché se non abbiamo una razionalità trasversale, se volete, nel caso di cui stiamo parlando, se non abbiamo una politica che decide delle priorità, se tutti dicono: è un’evidenza… Bisogna mettere prima l’economia o la salute? È una scelta assurda, perché è come la scelta se morire di fame o morire di covid: non voglio arrivare a questa scelta, vorrei vivere, vorrei che tutti potessero vivere. Allora è chiaro: abbiamo dei fatti ed è necessario pigliarli e guardarli per quello che sono, ma questi fatti hanno bisogno di parole, di parole espresse e confrontate, perché non sono mai evidenze, i fatti da soli. Eppure, Pilato si rifugia dietro questo: dice ok, basta, mi avete rotto con questo ragionamento, in cui mi continuate a tenere dentro una razionalità interna: Quel che ho scritto, ho scritto. Sarebbe a dire: sono io il Procuratore, decido io, sono il Procuratore dei Romani, il potere ce l’ho io, decido io. Che è un modo un po’ sbrigativo, ma è il punto a cui si arriva sempre. Allora io credo che qui c’è veramente tutta la nostra fatica e la nostra debolezza: spiegare e per di più voler spiegare l’universale e farlo con una logica aut.. aut di parole che – se si assumono di essere l’evidenza in quanto parole e in modo universale per tutti – è una scelta che fa male, che produce male. Abbiamo bisogno di parole che diventino, un giorno dopo l’altro, condivise e perché possano essere parole trasversali che in qualche modo, partendo dall’evidenza della realtà la trasformino, perché la realtà non è un destino, non è un fato. Può essere molto ingombrante, come quella di questo tempo, ma come noi stiamo dentro questa realtà, i nostri comportamenti individuali, comuni, pubblici, istituzionali fanno la differenza, le cose possono cambiare, almeno per una parte, almeno per la parte che ci riguarda. E poi c’è questo pezzo bellissimo, che a me personalmente piace veramente tanto – vabbè, non faccio le solite premesse del tipo che qualunque esegeta mi ucciderebbe, però lo sapete – che dice così:

23I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. 24Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice:

Si sono divisi tra loro le mie vesti

e sulla mia tunica hanno gettato la sorte.

E i soldati fecero così.

Questa scena mi ha sempre molto intrigato, intanto perché metodologicamente è un testo in cui il Vangelo usa le Scritture, cioè fa l’operazione che facciamo noi: legge con gli occhi di oggi un brano di un profeta di molti secoli prima, lo rigira, se voi andate a cercare il riferimento di questo testo non c’entra niente, si prende la libertà di rigirare e ci mostra che cosa dobbiamo fare: leggere con la nostra domanda, abitare questo testo, lasciarlo parlare, farlo venire fuori per noi oggi. E allora mi colpisce sempre molto questa piccola discussione sui vestiti, è una delle cose su cui sto riflettendo in questo tempo di Covid. Il vestito è il nostro volto pubblico senza parole e senza toccarci, ognuno di noi veste a modo proprio, cerchiamo di esprimere chi siamo, di dare un messaggio agli altri prima ancora di avergli detto buongiorno, passa solo per gli occhi, che è una delle cose che ci restano di più. Non è un caso che in questa crisi Covid una delle prime cose commerciali partite è la produzione di mascherine di tutti i tipi, colori e decorazioni possibili e immaginabili. Perché ci è molto chiaro che in un tempo di limitazioni non ci possiamo toccare, parlare solo a distanza, incontrare poco, e così via; ci vediamo in video e allora almeno dalla vita in su ci vestiamo, poi sotto abbiamo i pantaloni del pigiama, però ci mostriamo al mondo. E Gesù viene spogliato di ciò con cui si è mostrato al mondo, derubato dei suoi abiti, non ha più un volto pubblico, perché sceglie di non entrare nel circuito del linguaggio comune, della razionalità comune, si lascia condurre fuori dalla razionalità di cui parlavamo. E quindi è spogliato come i bambini, come gli anziani che non sanno più vestirsi da soli, come tutti coloro che hanno bisogno di un aiuto per vestirsi, e non a caso è una condizione faticosa, difficile. Ed è bello: ne fanno delle parti ma Gesù ha una tunica senza cuciture, e qui mi veniva da pensare che Buddha, Gesù Cristo, e pochi altri – cioè praticamente nessuno di noi – ha una tunica senza cuciture. Tutti noi abbiamo una tunica piena di rattoppi, la nostra immagine pubblica ha dei buchi, poi più o meno li abbiamo un po’ aggiustati, cerchiamo di fare in modo di tenere un po’ nascosta la parte più rovinata, che si veda meno, cerchiamo di mostrare la parte migliore, la maglia più carina, che ci sta meglio, ma tutto sommato le nostre tuniche sono tutte un po’ a pezzi. Per questo su Gesù si può tirare la sorte, ma Dio non gioca a dadi con noi, perché Gesù poteva sopportare la sorte, la sua tunica senza cuciture non importava dove fosse finita, sarebbe stata il nuovo vestito per tutto il mondo, a chiunque fosse finita in mano. Noi no, noi abbiamo dei vestiti un po’ tutti a pezzi, al massimo vogliamo bene a cinque persone, a dieci persone, non arriviamo tanto lontano, possiamo dividere un po’ i nostri pezzi e condividere le nostre toppe, ma non molto di più, tutto sommato. E quindi Dio non gioca a sorte con noi, non ci spoglia della nostra immagine pubblica a caso, perché non abbiamo la sua dimensione, ma ci chiede di spogliarci della nostra immagine pubblica almeno di fronte a noi stessi, di uscire comunque, di fare lo sforzo di uscire dalla razionalità comune, dalle parole che costringono ad andare contro il desiderio di libertà e questo è mostrato dai versetti seguenti:

25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. 26Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». 27Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

Non tira le sorti, sceglie il discepolo che amava, non è un caso, e assegna uno a uno. Poi noi abbiamo costruito su Maria, una universalizzazione di comprensione, madre della chiesa, madre di tutti, è sicuramente vero, in Giovanni siamo rappresentati tutti noi, ma Gesù ci dice quello che possiamo fare, ciascuno di noi: accettare che il dolore faccia assegnare uno a uno, faccia scegliere l’amato, l’amata, gli amati, e accettare di potere solo dividere le parti, fin dove ne abbiamo. Perché non siamo Dio, perché non abbiamo una tunica senza cuciture, perché non siamo una unità che può presentarsi al mondo intero con la pretesa di universalità di Pilato, latino, ebraico, greco. Perché possiamo solo donare l’uno all’altro e questo è un linguaggio traversale, nasce da una ferita, la ferita che per Gesù è molto chiara: la sofferenza di sua madre, la sofferenza del discepolo amato, non c’è niente di generico in questo, lui sta morendo, sta morendo ingiustamente, sua madre e il discepolo amato soffrono e lui li dona l’uno all’altro.

28Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». 29Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. 30Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

Questa è una delle sette parole, ed è molto bella perché il dolore e l’amore che ci sono chiesti non comprendono, non prendono, non raccolgono, domandano: ho sete. È indicativo, la prima parola che Gv mette in bocca a Gesù crocifisso è una parola di bisogno. L’unico che tutto sommato avrebbe avuto l’autorità per sedere in tribunale al posto di Pilato, per dire una parola esclusiva, per mettersi dalla parte di ciò che ho scritto ho scritto, la parola che esprime, che mette in circolazione, è una parola di bisogno, è una richiesta, è una presa d’atto del proprio limite, del proprio bisogno dell’altro. Bisogno che peraltro viene anche un po’ non corrisposto esattamente, gli si offre aceto per la sete, che non è proprio il massimo, ma è una parola di bisogno. In questo Gesù porta la propria croce e in questo sta in mezzo, in questo spacca la razionalità comune, la logica che fa nascere il rancore, la spirale del comunque doversi togliere una piccola soddisfazione, è la logica in cui ciò che io offro è il mio bisogno. Qui credo che io potrei personalmente, soprattutto in questo tempo, parlare circa tre ore e mezza – ve lo risparmio – ma credo che, per esempio, questo sarebbe un bel tema su cui mercoledì 18, se avremo voglia di condividere alcune riflessioni su questo, a me farebbe molto piacere. Per me è un tema molto grosso, molto difficile questo: il desiderio di libertà che muove l’inizio di questo testo va a finire in una parola di bisogno. Mi piacerebbe confrontami con voi su questo.

E poi c’è la conclusione di questo piccolo pezzo che vi ho letto, Gesù che dice la seconda parola: è compiuto e consegnò lo spirito. E’ compiuto, su questa parola ovviamente gli esegeti, le omelie, i libri spirituali si sono divertiti a scrivere biblioteche, a squartarla in quattro, a fare tutti i ragionamenti, e credo che ancora una volta questa – proprio perché è una parola trasversale non di comprensione ma di ferita – è una parola che resterà mai compresa fino in fondo, in cui tantissimi sensi ci sono dentro e ogni lettore credente ne troverà altri, darà un altro spessore, sentirà con un’altra potenza la forza di questa parola assoluta. È compiuto le profezie dell’AT, è compiuto quello che era stato preannunziato, è compiuta la volontà del padre, è compiuta la vita di Gesù; ok, ci sta tutto, questa è una parola nuova, perché è una parola che non esclude, che contiene un sacco di cose, è una parola ferita, che nasce da una parola di bisogno e dunque che non produce rancore, non innesca una spirale di autoaffermazione o di narcisismo. È una parola che in qualche misura si qualifica come una parola inclusiva. [Io trovo che di questi tempi dovrebbe essere una parola che dovremmo…] Siamo tutti – almeno io – molto angosciata, psichicamente molto provata, da quest’esperienza che facciamo di non poter programmare, che tutto quello che pensiamo, diciamo: ok, faremo così se, compatibilmente a, se sarà possibile, se non sarà possibile, e ci viene a tutti un po’ l’ansia, sarà che io ho sempre vissuto con l’agenda in mano e con tutti i buchi pieni di impegni, ma questa cosa di non riuscire a programmare niente, e tutto quello che programmi salta, si sposta, si deve riorganizzare, dici: ma come? ci ho messo una settimana ad sistemare la cosa così e adesso? Adesso succede un’altra cosa? Siamo tutti molto presi da questo e preparando questo brano mi chiedevo: perché sono così preoccupata di non essere mai in grado di dire: è compiuto? Che cosa si compie? Perché ci sono tanti: è compiuto. Dobbiamo poter compiere dei pezzi, non sbilanciati sul futuro ma abitando questo presente e dire: questa cosa, questa relazione, questo incontro, questa persona è compiuto; perché è così che si consegna lo Spirito, che non è solo un modo elegante per dire che uno muore, ma anche per dire che si consegna lo Spirito, che la cosa può andare avanti anche senza di me, che una cosa compiuta ha la sua anima e va, è viva.

31Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.

La chiusura ci riporta all’inizio: il dolore ulteriore che viene richiesto è un dolore introflesso, gli si spezzano delle ossa che non si vedono, si rompe qualcosa dentro, è appunto la razionalità interna.

32Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. 33Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, 34ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.

È una strana annotazione questa: se uno è morto il sangue non pulsa più, ma è interessante, il dolore interno, introflesso, della razionalità interna non si può applicare a Gesù; è già morto e quindi gli trafiggono il costato, lo aprono, colui che è con le braccia distese viene ulteriormente aperto e ne escono sangue e acqua. Sapete benissimo tutta la simbolica – anche eucaristica – di questa cosa: sangue e acqua; per me questa è un’immagine che mi ha sempre molto colpito: è proprio il lasciarsi ferire, senza abiti per un volto pubblico, con le braccia allargate e il cuore spaccato, da cui ancora esce qualcosa. E perché questo accade? Perché vedono che è già morto, cioè perché secondo la razionalità interna è inutile: è già morto, è un dato negativo, gli altri non sono ancora morti, gli spezzano le gambe, di per sé lui sta peggio, almeno nel nostro modo di ragionare. In questo suo avere compiuto c’è la possibilità di un lasciarsi ferire ancora, emettendo sangue e acqua, aprendo l’apertura, accettando una trasversalità ancora più trasversale. Io non so bene, ad esempio, questo cosa voglia dire in un tempo come quello che stiamo attraversando, ma credo che sia di un’urgenza pazzesca per poter pensare il futuro. Non sono in grado – per adesso – di descrivervelo più di tanto razionalmente, ma ho la sensazione che se non ci gireremo così, se non accetteremo che – in qualche modo – il modo di vivere che abbiamo avuto fino qui è già morto, se ci limiteremo a spezzargli le gambe, non avremo il sangue e l’acqua sufficienti per immaginare un futuro. Certo è duro, è brutto dire: il modo che avevamo prima è morto; abbiamo bisogno di un altro modo – qualsiasi cosa succeda – abbiamo bisogno di un altro modo di essere credenti, di vivere la comunità. Lo sapevamo anche prima, però tutti facevamo un po’ finta, trovavamo qualche piccolo aggiustamento personale, eppure abbiamo bisogno di prendere atto di questa morte, di avere compiuto questo percorso e di lasciarci ferire, probabilmente senza comprendere – per intanto – e adattandoci alla fatica di comprendere un po’ alla volta. E la conclusione mi conforta, perché Gv in prima persona dice:

35Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. 36Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. 37E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto.

Ancora una volta fa l’operazione che è la stessa a cui siamo chiamati noi: scrive in modo aperto, radicandosi in un passato, nella tradizione che ha, nel proprio patrimonio di fede. Perché voi crediate: perché in futuro sia possibile, perché questo evento di apertura radicale – da cui sgorga sangue e acqua – diventi la possibilità di altri eventi, di quello che noi siamo oggi, di quello che il mondo è, dei bisogni e delle parole che siamo in grado di far circolare. Perché si spezzi la spirale della razionalità interna e perché in qualche modo troviamo parole che includano e non che feriscano, non che rivoltino ciascuno contro se stesso, contro il proprio desiderio d’origine. E io qui mi fermerei.

Fossano, 7 novembre 2020

Testo non rivisto dall’autore

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