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14 Maggio 2016
Stella Morra

8. Conversazioni

Commento a: Ap 21, 1-8; 22,17-20


Introduzione

Siamo arrivati al termine del nostro percorso. Nella scelta dei testi, all’inizio, ho pensato che, visto l’itinerario, sarebbe stato utile chiudere con un brano tratto dal libro dell’Apocalisse. In realtà, preparandolo ora nell’immediato, il senso mi pare un po’ diverso rispetto a quello immaginato all’inizio, più che altro per la direzione che ha preso il percorso nella condivisione con voi.

Abbiamo cominciato riflettendo su una domanda ricorrente negli ultimi anni, che riguarda l’umanità; se al centro dell’esperienza cristiana adulta ci sono uomini e donne non possiamo pensare semplicemente a una successione di giorni. Dunque, qual è il posto, quale la dimensione? Cosa vuol dire essere uomini e donne guardando in faccia questa realtà fino in fondo? Apro una piccola parentesi: non so se siamo noi ad aver anticipato Francesco o se è lui che conferma noi, ma di fatto siamo in grande sintonia. Mi riferisco in particolare alla lettera che ha indirizzato al cardinale Marc Ouellet (la trovate sul blog dell’Atrio) in chiusura della riunione della Commissione Pontifica per l’America Latina che aveva come tema “il ruolo dei laici nell’impegno politico in America Latina”. Devono aver detto cose tali nel corso della riunione che il Papa ha deciso, l’ultimo giorno, di inviare questo scritto che, credo, verrà studiato nei libri di storia ancor più di Amoris Laetitia. Sostanzialmente dice di essere d’accordo con quanto detto nel corso della riunione ma di voler aggiungere qualcosa di importante. La lettera è breve, di circa due pagine, ma è davvero incredibile perché aldilà di quelli che i miei colleghi chiamano “giri di parole” (tipo chi sono io per giudicare?), esprime tre idee fondamentali, o meglio un assunto e due conseguenze.

Il punto di partenza è: i cristiani devono guardare tutta la vita della Chiesa e del mondo dal punto di vista del popolo di Dio, ovvero chiunque vi entra non lo fa in virtù di un ruolo (prete, vescovo, ecc…) ma in quanto membro del popolo di Dio, in quanto battezzato. Il centro della Chiesa è nel popolo di Dio, bisogna guardare di lì per comprendere. Dopo aver espresso questo concetto Papa Francesco dice che le conseguenze di ciò sono molteplici e che sta a ciascuno di noi scoprirle, per cui si limita a esporne due: 1. un pastore non deve mai dire a un laico cosa fare perché il laico lo sa quanto lui anzi meglio, dal momento che il sapere della vita credente sta dalla parte del popolo di Dio. Si tratta di un bel rovesciamento, che era già stato anticipato nel documento sul sensum fidei e che in qui è detto in modo molto chiaro. 2. Abbiamo posto al centro dell’attenzione della Chiesa quanto succede nelle chiese, educando i laici in questa direzione e misurando il loro impegno in relazione alla collaborazione nella vita delle chiese. È un errore, perché il centro della vita della chiesa è quel che succede fuori, non quel che succede dentro. Anche questo di per sé è lapalissiano, eppure non così scontato. Il Papa aggiunge che i pastori sono distratti su quanto succede fuori dalle chiese, sono inconsapevoli e ignoranti, quindi bisogna che questo venga loro spiegato da chi sta fuori. Sostiene che ci siamo occupati di quel che riguardava noi invece di “sostenere quei laici che bruciano la loro speranza nella fatica quotidiana di conservare la fede nella vita”. Credo sia una delle definizioni più belle che abbia mai sentito, perché è esattamente quel che succede a tutti noi e ai nostri amici preti, non in quanto preti ma in quanto credenti. Ciascuno di noi rischia di consumare la propria speranza un giorno dopo l’altro, consolando la fede nella vita; la funzione della Chiesa, dice Papa Francesco, è semplicemente di supportare e nutrire questa speranza, facendo in modo che non si esaurisca. Spero di avervi messo un po’ di curiosità su queste due paginette.

La nostra questione era proprio questa, ovvero provare a rintracciare nella Scrittura alcuni assi portanti per riuscire a guardare la vita dalla parte della vita, non per fare pensieri religiosi sull’esistenza ma per capire come esseri umani come funziona e per rimettere al centro una questione solo apparentemente scontata, su cui la deformazione non riguarda solo i pastori ma anche noi: il problema non è definire cristiano l’essere umano, quanto piuttosto che un umano sia umano. Questo è il problema reale che ci tocca tutti: rimanere se stessi e umani nei rapporti di amicizia e al lavoro, in salute e in malattia, nel prenderci cura degli altri o nell’essere oggetto di cura. Restare umani, anzi se possibile diventarlo ancor più. Ogni giorno. E al tempo stesso aiutare chi ci sta intorno a fare lo stesso. Questo significa essere cristiani.

Dati simili presupposti è ovvio che la domanda emersa nel percorso delle lectio è stata: ma allora non serve a nulla parlare di cristianesimo? Quale tipo di testimonianza bisogna dare? Cosa vuol dire testimoniare, essere missionari? Siamo di fronte a uno dei grandi temi dell’esperienza cristiana e avremo modo di discuterne meglio durante il seminario a luglio.

Abbiamo iniziato leggendo il testo di genesi riguardante le origini: desiderio, tragedia, dramma. Il desiderio di una vita compiuta e felice, che ha in sé una struttura di tragedia, perché il desiderio di una vita buona è il desiderio di una vita in relazione con gli altri. Nel momento in cui si instaura una relazione, l’altro esige un’attenzione per cui io mi ritrovo costretto a dividere l’attenzione tra me e l’altro. Non si tratta di una questione etica ma di buone relazioni.

Non intendo ora ripercorrere ogni passo di questo ciclo di lectio, ma vorrei toccare i punti chiave. Abbiamo parlato di tragedia strutturale dell’essere umano, ovvero il fatto che non c’è modo di aver cura di sé senza aver cura di un altro, per cui in ogni situazione ci pare di venir posti di fronte a una scelta e abbiamo la sensazione che l’aver cura di un altro implichi una privazione per noi. È solo la visione d’insieme a farci comprendere che l’aver cura di sé significa aver cura di qualcun altro. Questa struttura di tragedia può mutarsi in dramma quando si rompe l’equilibrio nei singoli atti, quando non riusciamo a gestirli: può capitare di dedicarsi totalmente all’altro dimenticando se stessi o proiettarsi su se stessi dimenticando l’altro. Quando manca l’equilibrio nell’esperienza concreta di questi due desideri, la tragedia diventa dramma o, secondo il linguaggio religioso, diventa peccato.

Abbiamo poi letto il testo di Geremia e quello di Esodo, in cui abbiamo scoperto la grande risorsa degli esseri umani: la parola, probabilmente il luogo dell’immagine di Dio. La parola è il modo in cui usciamo da noi, ci affidiamo a un destinatario sperando di essere accolti e ascoltati. Così la parola si fa salvifica e questo è il modo per mantenere l’equilibrio. Nell’esperienza quotidiana è più facile sopportarsi se ci si spiega: se capisco le motivazioni dell’altro forse non mi passa l’arrabbiatura ma se non altro comprendo. Perché dico che la parola è il luogo dell’immagine di Dio? Perché noi crediamo nel Dio di Abramo, di Isacco e Giacobbe e di Gesù Cristo che ha preso carne come “la parola di Dio”. In principio era il verbo, Gesù è la parola di Dio per noi, è Dio che assume la nostra stessa struttura in modo profondo; dice una parola per uscire da sé e per trovare un equilibrio tra la cura di sé e la cura di noi. Nel passo di Esodo abbiamo visto come la parola possa assumere forme diverse e in particolare quella della legge. In riferimento a questo abbiamo riflettuto sul fatto che il contrario della parola ovvero il silenzio, è l’espressione della morte. Ci vogliono madri e padri per generare parole e noi dobbiamo imparare a essere padri e madri di noi stessi. A quel punto, data la struttura, ci siamo chiesti: c’è un posto per Dio in tutto questo o lui se ne sta fuori e giudica? Il Dio della Bibbia non sta fuori ma entra nello stesso meccanismo. In questo senso abbiamo provato a vedere cosa significa Dio che si incarna in Gesù Cristo; non è semplicemente una questione filosofica e astratta in cui la trascendenza prende carne, ma è proprio la logica secondo cui Dio assume la stessa tragedia. Anche Gesù ha il problema di mantenere la cura di sé, il rapporto con il padre, la cura del proprio desiderio e la cura di noi e in lui questo è così potente che viene giocato fino alla morte. E la sua non è una morte qualsiasi, perché si conclude con la frase “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. La sua esperienza soggettiva è quella di aver avuto talmente cura di noi da non aver più avuto cura di sé. L’esperienza della resurrezione assume dunque il significato di “i conti che tornano”, ovvero la cura di sé gli viene restituita. Come dice Battiato: ci vuole un’altra vita. E probabilmente lo pensiamo tutti, almeno una volta la settimana. Resurrezione non significa solo tornare in vita dopo la morte, significa soprattutto sapere che c’è un’altra vita. In questo senso a marzo abbiamo letto il testo della crocifissione. Io resto dell’idea che questo tema della morte di Gesù come sacrificio e dell’eucarestia come memoria del sacrificio, un tema tenuto poco in considerazione negli anni moderni, in realtà sia davvero centrale, a patto di non leggerlo in termini sacrali (capretto sgozzato sull’ara di Dio). La questione è che in questa logica del rapporto fra tragedia e dramma c’è un sacrificio, c’è un prezzo da pagare che consiste nell’attraversare quel momento di dubbio in cui ci si chiede: ma sarà vero che avere cura dell’altro significa avere cura di me? O sto per prendermi la peggiore fregatura della mia esistenza? Il gesto di affidamento alla umanità dell’altro è sempre un gesto di sacrificio. La volta scorsa invece abbiamo letto il racconto di Pentecoste e abbiamo visto la questione del rimanere in comunione (termine tecnico che mi piace poco perché è troppo religioso dunque ci svia), ovvero in relazione attraverso la pluralità delle lingue ma anche dei gesti, delle sensibilità, delle azioni, avendo cura gli uni degli altri finché il cerchio si chiude, finché si anticipa per quanto possibile una resurrezione, un’altra vita, meno costosa perché qualcuno porta almeno un pezzetto dell’altrui peso.

A questo punto molto è già stato detto e in realtà si sarebbe anche potuto chiudere il discorso ma abbiamo ancora la lettura di questo brano dell’Apocalisse. La necessità non è tanto di avere un testo per chiudere il ciclo di lectio, quanto di affrontare un ultimo punto che a mio avviso è di grande importanza in questo tempo, un punto su cui, nonostante papà Francesco ci richiami molto, produciamo pochissima riflessione: l’aspetto pubblico della questione. Normalmente siamo portati a vedere nei temi legati all’umanità e alla fede qualcosa che avviene nel cuore e nella mente, nell’interiorità, dato che siamo buoni europei figli di Heidegger, pur senza saperlo. Il testo dell’Apocalisse ci dice il contrario: c’è una battaglia in cielo, in un luogo visibile a chiunque, ci sono gli sconvolgimenti in mare, i cavalieri e la peste e accade di tutto. Il racconto dell’apocalisse ci racconta con simbolica filmica eventi pubblici e non dei cuori. Questo è un po’ il tema di oggi.

Di certo la battaglia tra tragedia e dramma, la consapevolezza che “ci vuole un’altra vita”, ha un peso notevole dal punto di vista personale, implica una dinamica che si gioca nel faccia a faccia, ma è anche una questione pubblica e in questo momento storico mi pare che il mondo intero, e non solo l’Italia, si trovi di fronte più che mai a questa agonia davvero apocalittica. Si cerca di non prenderla troppo sul serio, ma ognuno di noi è coinvolto. Le grandi migrazioni, la situazione dei profughi, costituiscono un palese esempio di questa battaglia tra prendersi cura di sé e prendersi cura degli altri. Quando la scorsa settimana il Papa ha ricevuto il premio Carlo Magno ha dichiarato ai politici schierati davanti a lui che trova totalmente incomprensibile nell’Europa dei diritti della legislazione e dell’umanesimo, definire illegale colui che scappa da morte certa. Ha detto che non è compatibile con l’idea laica di diritto, non ha fatto alcun riferimento ai principi cristiani, semmai alla rivoluzione francese. C’è una grande distanza fra questo e i nostri ragionamenti razionali come “è giusto accogliere i profughi ma già manca il lavoro per noi e poi bisogna controllare i numeri e garantire la sicurezza”, in cui la cura di noi sembra prevalere sulla cura dell’altro. Questo è solo l’esempio più lampante, si potrebbe fare un elenco e in effetti Papa Francesco spesso fa elenchi sulle ingiustizie; a me pare che ci sia un dato pubblico che va al di là delle singole coscienze, le attraversa e le supera.

Questo è lo scenario in cui collochiamo il testo di oggi, che nelle mie intenzioni iniziali comprendeva i capitoli 21 e 22 ma che per forza di cose ho dovuto ridurre ad alcuni versetti. Spero avrete voglia di leggervi per conto vostro il testo per intero.

Faccio una piccola premessa per chi non ha mai avuto che fare con questo testo. Si tende a pensare che il testo dell’Apocalisse sia oscuro e simbolico per cui sarebbe necessaria la presenza di qualcuno che spieghi il significato delle diverse immagini. In realtà il problema non è tanto riscoprire il significato dei singoli elementi, su cui peraltro potete leggere biblioteche intere, ma riconoscere nel libro dell’apocalisse la struttura del film; in un film non ci si chiede perché la porta scricchiola nel buio mentre in sottofondo passa una musica che aumenta la tensione. Normalmente di fronte a una scena simile nessuno si chiede nulla, semplicemente prova paura, se il film è fatto bene. L’apocalisse è pensata esattamente in questo modo, ovvero intende costruire uno scenario in cui non è detto che ogni elemento abbia in sé un significato; l’obiettivo è creare un’atmosfera, farci provare certe emozioni. È chiaro che questo libro è stato scritto circa venti secoli fa e dunque non proviamo granché perché non riconosciamo gli elementi che dovrebbero suscitare una reazione. Ad esempio a me non fa effetto l’elmo di diaspro, non riesco neppure a immaginarlo; se penso a un elmo mi viene in mente il Medioevo, la Spada nella Roccia, figuriamoci il diaspro che non l’ho mai visto quindi non ho la minima idea di come sia fatto. È chiaro quindi che non crea in noi l’impatto emotivo desiderato, ma proprio per questo dovremmo leggerlo senza perdere tempo a chiederci quale sia il significato di ogni singolo elemento e provare semplicemente a immaginarci la scena, guardando con gli occhi prima che con la mente. Ci sono diverse scene di straordinaria potenza: scene di battaglie terrificanti, angeli con lame rotanti e raggi fulminanti che sembrano supereroi dei cartoni animati e così via. Bisogna semplicemente immaginare la scena ed entrare nel film. La parte che oggi non leggerò è ricca di queste descrizioni; ad esempio la città di cui parleremo ora è descritta come un quadrato, la lunghezza uguale alla larghezza; l’angelo misura la città con la canna e sono 12.000 stadi, anche in altezza, quindi sostanzialmente è un cubo e non un quadrato. Poi fornisce la misurazione delle mura, anche queste costruite con diaspro, mentre la città è di oro puro e cristallo; i basamenti delle mura sono incastonati di pietre preziose. Sembra il castello di Biancaneve a Eurodisney. È il lusso del lusso, un’esagerazione da emiro.

Il testo: Ap 21,1-8;22,17-20

1 E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. 2 E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. 3 Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:

«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!

Egli abiterà con loro

ed essi saranno suoi popoli

ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.

4 E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi

e non vi sarà più la morte

né lutto né lamento né affanno,

perché le cose di prima sono passate».

5 E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e vere». 6 E mi disse:

«Ecco, sono compiute!

Io sono l’Alfa e l’Omèga,

il Principio e la Fine.

A colui che ha sete

io darò gratuitamente da bere

alla fonte dell’acqua della vita.

7 Chi sarà vincitore erediterà questi beni;

io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio.

8 Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte».

Questa immagine è proprio la conclusione del libro; ci sono già state le battaglie, le lotte, i 144.000 giusti che hanno lavato le loro vesti nel sangue. Giunti a questo punto cambia improvvisamente il registro linguistico, si passa a un tono più pacato e viene detto vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Il cielo e la terra di prima sono scomparsi, il mare non c’è più. Gli ebrei e i cristiani di provenienza ebraica sono da sempre, anche oggi, molto diffidenti nei confronti del mare perché il mare ha sempre portato guai. Nell’antico testamento dentro il mare c’è il leviatano, un mostro; nel mare Giona rischia di annegare. I loro vicini ovvero i filistei erano grandi navigatori, mentre loro erano legati alla terra. Sono un popolo del deserto. Nel libro dell’Apocalisse dal mare viene la grande bestia, spaventosa e orrenda, perché il mare è il luogo dell’incertezza e del pericolo quindi nel mondo futuro il mare non c’è più. Ma trattandosi di un popolo del deserto si sa quanto conta l’acqua è in effetti la grande promessa è A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Il mare è orrendo ma l’acqua che si può bere è un’altra cosa, per chi vive nel deserto. Giovanni o chi per esso sta utilizzando il registro simbolico più emotivo della cultura in cui si trova. Cieli nuovi e terra nuova perché quelli di prima sono scomparsi. Trovo bellissima quest’immagine; non sono mutati, non sono evoluti, semplicemente non esistono più.

Dal mio punto di vista questo versetto dovrebbe essere il luogo della consolazione per ogni cristiano nei momenti della stanchezza. Non è il contesto di Ezechiele che dice “toglierò a te il cuore di pietra e te ne darò uno di carne”, qui il cielo e la terra sono scomparsi. Il mio nipotino di quattro anni di fronte a un quadro si è spaventato ma quando io l’ho raccontato alla mamma lui mi ha corretta dicendo: nonna, non mi sono spaventato io, è lui che fa paura.

In effetti la distinzione non è secondaria perché noi qui non ci sentiamo in un cielo nuovo una terra nuova, sono i cieli la terra che sono nuovi. Si tratta di un dato pubblico, potremmo dire oggettivo.

E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.

Al centro di questi due capitoli vi è Gerusalemme, che viene descritta e misurata e in questa Gerusalemme che scende dal cielo c’è un po’ il senso di tutta la questione. L’ho già detto molte volte, la Bibbia comincia in un giardino e per gli antichi il giardino è la natura, è ciò che Dio crea mentre la città, a partire da Babele, è la creazione dell’uomo. Nell’apocalisse la grande battaglia avviene tra Gerusalemme e Babilonia, ovvero tra due città, due opere possibili degli uomini. Abbiamo detto la volta scorsa che Babele è il contrario di Pentecoste poiché la prima è la confusione delle lingue, mentre la seconda riporta ciascuno a capire nella propria lingua. Alla fine l’Apocalisse ripropone la lotta tra Gerusalemme e Babilonia ed è chiaro che per un popolo antico la città è la cultura e per questo si ha così paura. Questo è lo stesso motivo per cui tutti inconsciamente pensiamo che il cristianesimo ha sempre funzionato meglio in campagna. La città è un posto più complicato. C’è un bellissimo testo di Bergoglio cardinale che trovate in Internet e che si intitola Dio nella città. Si tratta di un’omelia tenuta di fronte ai parroci di Buenos Aires in cui sostanzialmente dice: o Dio ha deciso che potevano essere cristiani solo i contadini o siamo noi a non saper riconoscere Dio nella città. Siccome credo sia vera la seconda, la vera domanda è: perché?

La Bibbia da questo punto di vista è molto chiara; i nostri parroci ricordano bene Babele ma non ricordano che la fine del libro è una città e non il ritorno all’Eden; non è la campagna ma è Gerusalemme, l’opera dell’uomo. È un’opera dell’uomo strana perché scende dal cielo. È un’opera dell’uomo che riceviamo come un dono, è l’essere più umani che ci viene restituito da un altro. E questa è esattamente la grande questione. La cura di noi, la verità di noi ci vengono date da un altro punto. La vera città, non certo la torre che crolla, ci viene restituita nello stesso modo in cui Maria di Magdala riceve il proprio nome dal risorto. Lei si rivolge a Gesù chiamandolo Maestro ovvero usando un nome di relazione e lui le risponde “Maria”, che è il suo nome assoluto. In quel momento lei viene restituita a se stessa.

Se leggerete il pezzo che segue e che io qui non leggo vedrete che la città contiene il giardino; c’è la stessa descrizione di Eden dentro la città: due fiumi, due alberi, eccetera. L’opera di Dio, il capitale di partenza, c’è, ma intorno c’è quello spreco assoluto che è la città. Di fatto in tutto quello che Dio aveva creato c’era già quanto serviva per vivere e dunque la storia serve a costruire una città inutile ma veramente lussuosa, adorna di pietre preziose che non si mangiano e non servono a niente ma sono favolose. Questa mi pare la grande questione finale: la nostra umanità è chiamata a diventare l’esercizio di un lusso pubblico, uno schiaffo alla miseria, la capacità di essere esagerati.

E vedete come la struttura subito si ritrova: Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva. Serve subito una parola perché il dono possa essere ricevuto, serve lo sbilanciamento del donatore.

«Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.

Qui riconosciamo il riferimento al capitolo 1 del Vangelo di Giovanni: “mise la sua tenda tra di noi”; la tenda non è un semplice accampamento ma la città di Dio tra gli uomini. Nel testo che stiamo leggendo non si tratta di una tenda quanto piuttosto dell’attendarsi di Dio tra di noi, di prendere dimora.

La voce dice una cosa meravigliosa ovvero che il tempo non è finito ma comincia. E qual è la storia che comincia? Egli sarà il loro Dio e il Dio con loro, cioè la tragedia che caratterizza l’umanità e che è il dubbio permanente se avere cura di me o dell’altro è definitivamente interrotta; la relazione è al centro. Lui sarà per loro e loro saranno per lui.

Il risultato è:

4 E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».

Questa è esattamente la cancellazione della tragedia originale poiché la nostra tragedia non è spirituale ma è lacrime, morte, lutto, lamento, affanno. È il dover continuamente trovare la misura. Le cose di prima sono passate, la pienezza dell’umanità è il definitivo “attendarsi” sulla relazione.

5 E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e vere».

Anche qui perdiamo un po’ il gusto del film perché per noi la scrittura non ha lo stesso peso che aveva a quell’epoca. Fino alla macchina da scrivere se non altro ci rendevamo conto che facendo troppi errori bisognava buttare via il foglio mentre oggi con il computer non vi è nemmeno più questa percezione. Ricordiamo che allora scrivevano su pergamene, pelli di pecora e tavolette di pietra il che comportava innanzitutto una fatica fisica, dunque ci voleva molto tempo e il risultato era sempre piuttosto incerto. Chiunque studi i manoscritti antichi sa quanto spesso sia difficile la lettura per diversi motivi: mancano i titoli, non si va mai a capo, non vi sono spazi tra le parole, eccetera. L’atto di scrivere dunque è impegnativo e merita soltanto per parole che siano certe e vere. Verba volant, scripta manent, dicevano gli antichi mentre noi oggi diremmo che la scrittura vola ma se metti qualcosa in Internet rimane, non si riesce a toglierla, soprattutto se è sgradevole. Non c’è più un atto di fiducia necessario, la scommessa sulla relazione è vinta. Queste parole sono certe e vere. Non si fa più fatica a dover bilanciare perché la pienezza dell’umanità si dà in una tragedia finalmente risolta, dove non ci sono più lacrime.

6 E mi disse: «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omèga, il Principio e la Fine.

A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita.

Come nella precedente porzione di testo, anche qui la prima parte costituisce l’annuncio e la seconda la realizzazione concreta. Il desiderio più grande di chi vive nel deserto è poter bere. Qui non c’è più sete.

Cosa vuol dire sono compiute? Vuol dire che il fine e la fine coincidono, ovvero si finisce di faticare perché il fine è raggiunto. Ripeto che questo è un carattere oggettivo e non dei cuori. A scanso di equivoci, l’operazione da compiere è cominciare a porre situazioni oggettive, per quanto parziali, perché solo così si costruisce la Gerusalemme celeste. Solo in una piccola pietra preziosa che viene collocata in un lusso inaudito per fondare qualcosa di davvero inutile si comincia a vedere che il tempo è finito.

7 Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio.

8 Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte».

Tutti muoiono, ma la fine della vita biologica è solo l’accesso a cieli nuovi e terra nuova. Ma c’è una seconda morte possibile, quella definitiva. Spesso i cristiani hanno chiamato così chi fa prevalere il dramma e non entra in questi cieli nuovi e terra nuova. E qui è interessante perché l’elenco dei peccati è quello tipico di quell’epoca. La questione più grave è la menzogna, anche se su questo termine vi è un problema di traduzione dal greco, ma non è tanto questo il punto quanto piuttosto il fatto che anche qui c’è un aspetto pubblico ovvero ci sono cose che non sono semplici emozioni interiori, ma sono atti oggettivi che non servono l’umano e portano alla seconda morte.

Vorrei fare una riflessione sul Papa che afferma “chi sono io per giudicare?”; è lo stesso Papa che quando parla della corruzione giudica eccome. Perché? Perché si tratta di non giudicare la vita del singolo ma l’oggettività degli atti. E nel suo modo di vedere il mondo, la corruzione è una delle cose che più nuoce ai poveri, è uno dei peccati che starebbe nell’elenco se venisse scritta oggi l’Apocalisse. Papa Francesco ribadisce sempre che si riferisce alla corruzione a tutti i livelli, anche all’abitudine quotidiana di ogni individuo, tipo “io faccio un piacere a te e tu ne fai uno a me”.

Sarebbe molto interessante come adulti credenti provare a ragionare insieme su quali sono i peccati che oggi potremmo mettere in questa lista che conduce alla seconda morte; quali sono gli atti oggettivi su cui oggi siamo chiamati a essere vigilanti? Questa è la questione, perché un giudizio è necessario.

22 17 Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!». E chi ascolta, ripeta: «Vieni!». Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita. 18 A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; 19 e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. 20 Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. 21 La grazia del Signore Gesù sia con tutti.

Perché ho scelto questi versetti finali? Perché questa è l’unica cosa che si può ancora dire: vieni. È un desiderio e il desiderio non è più quello di partenza ovvero quello che abbiamo visto nel testo di Genesi ovvero quello della cura di me ma è il desiderio della venuta di un altro. Lo capiamo bene, sappiamo bene che l’impazienza nell’attesa di una persona amata è fondamentale: voglio che arrivi perché se c’è sto meglio.

E il criterio su questa attesa è bellissimo; bisogna rispettare le parole, senza aggiungere né togliere nulla. È bello perché non si sa bene chi si deve aspettare. Lo spirito la sposa dicono vieni. Chi ha sete venga. Allora chi deve venire è chi ha sete?

Alla fine il testo dice: Colui che attesta queste cose dice: «Sì, vengo presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. Ma chi è che deve venire? È sempre l’altro, tutti gli altri possibili. Non è solo un pensiero devoto, una parusia, è rivolto a tutti gli altri possibili, a tutti i profughi, a tutti quelli che hanno più sete di noi.

E, ribadisco, il criterio è continuare a vigilare sulle parole. L’unico modo per sopportare l’attesa di chi viene è conversare nella maniera giusta. Ci vuole una buona conversazione.

Fossano 14 maggio 2016

(testo non rivisto dall’autore)

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