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6 Aprile 2013
Stella Morra

6. Eccesso di zelo?

Commento a: At 17, 16-34


Premessa

Il nostro percorso continua, faccio un breve riassunto degli incontri precedenti. Stiamo riflettendo sulla questione dei segni dei tempi. Il percorso partiva dal testo di Siracide tutte le cose sono a due a due, ovvero il segno sempre come un esercizio di relazione, di mettere in relazione. Richiamo il punto da cui siamo partiti perché il rischio è di dimenticarselo perché l’attività di riconoscere i segni non ha a che fare con la nostra intelligenza e con la nostra bravura nel capire, ma tutta la nostra vita e la nostra relazione con Dio ha una struttura relazionale: come in un rapporto tra due persone ci sono delle cose da capire, ma poi le cose cambiano perché la relazione stessa le fa cambiare. Io sono di fronte all’altro con la mia libertà e il fatto che io capisca o che certe volte non capisca è importante allo stesso modo, non è importante capire sempre. A volte si mal interpreta e l’altro è costretto a chiedersi delle cose su di sé a causa della nostra mal interpretazione. Il rapporto è un dato relazionale che non dipende solo dalla mia testa, dalla mia intelligenza, come se fosse un problema di matematica. Capire o non capire il significato giusto o sbagliato sono proprio il pretesto per continuare una relazione. A volte è molto meglio non capire perché questo è l’occasione per chiarirsi, perché poi se uno ci ripensa non è che ha chiarito ciò che non ha capito, ma ha speso del tempo a parlarsi, dialogare insieme per capirsi.

Il dato da cui siamo partiti è che i segni sono una struttura relazionale, dipendono sempre dalla nostra libertà, ci sono dei dati di realtà e poi ci siamo noi, con la nostra libertà. Per citare i fatti di questi giorni quando Papa Francesco ha detto non lasciatevi rubare la speranza non ha detto che dobbiamo diventare deficienti e sperare anche nella situazione più terribile in cui tutto ci casca sulla testa e diciamo ma io spero, ma la speranza e l’atteggiamento di colui che di fronte alla realtà si assume delle responsabilità, fa delle scelte, sapendo che poiché siamo nelle mani del Signore alla fine della fine i conti torneranno, nel frattempo fa le cose che ha da fare, tiene il cuore aperto e non pensa che l’ultima parola sarà una sconfitta. Nel frattempo ci sono delle parole intermedie che qualche volta sono anche delle sconfitte.

I due testi successivi sono di Isaia il riconoscere il bello e il buono nei i segni, ricordate i testi del regno messianico, cercare dove la vita fiorisce e i segni della vita possibile sono il primo appello alla nostra libertà. Se mi metto sempre in relazione a cose brutte alla fine divento brutto anch’io. Ogni tanto facciamoci un regalo di relazionarci a una cosa bella che se cresce allarga il nostro spazio di bellezza.

Il testo di Matteo, testo apocalittico sui segni negativi, le stelle cadranno, è vero che poi c’è un negativo, ci sono segni brutti, che sembrano indicare non una fioritura, ma una fatica o una morte, una fine delle cose.

L’ultimo incontro, prima di Pasqua, ci siamo interrogati su quel testo di Marco il racconto della resurrezione su i segni della fede, come si trova l’equilibrio tra relazionarsi alle cose belle e relazionarsi alle cose brutte? Non siamo new age per cui non pensiamo che si risolva tutto col pensiero positivo, non è vero perché per tante cose tu pensi positivo ma loro rimangono negative. Non possiamo solo però concentrarci sul negativo e rimanere schiacciati da ciò che non funziona, tutti se ne fregano, la cultura secolarizzata, tutti politici sono ladri, tutto fa schifo. Come si trova il punto di equilibrio tra queste due istanze? Per un credente il punto d’equilibrio tra relazionarsi al bene e relazionarsi al male è il segno della fede. Fede intesa come conformazione a Cristo morto e risorto: paradigma tra bene e male, regge il male, lo regge su di sé, non lo butta sulle spalle degli altri, e per questo da quel male viene una vita.

Il testo di oggi è un testo curioso, molto usato, spessissimo commentato, molto spesso citato come un riassunto, ma molto spesso citato e commentato in modo molto ideologico. Il testo, purtroppo, per come è strutturato si presta ad essere letto in modo ideologico. Storicamente questo testo è molto importante, è importante avere il quadro generale del libro degli Atti: nei primi nove capitoli si occupa di Pietro, poi si occupa di Paolo, inizia con la barca di Pietro e finisce con la barca di Paolo, o meglio col naufragio della barca di Paolo che sta andando a Roma. È carino perché comincia con lo sfondo della resurrezione di Gesù, che alla fine del Vangelo di Luca di cui poi il libro degli Atti è la prosecuzione, continua con la barca di Pietro che è piena di pesci, successo meraviglioso, e finisce con un naufragio. Non è un caso che nel nostro linguaggio comune la barca di Pietro sarebbe la Chiesa. Atti di questo si occupa, che cosa succede quando uno prende sul serio la fede? Che cosa c’è da fare? Provare a fidarsi del paradigma della morte e resurrezione del Signore e adesso cosa facciamo? Cosa facciamo è questo racconto di Atti impersonato in queste due figure: Pietro, che è la continuità storica immediata con Gesù, ma poi Paolo che è invece continuità spezzata con Gesù. Paolo siamo noi: Non ha visto Gesù di persona, gli è apparso, non lo ha seguito dal primo giorno, non c’era quando sono successe tutte le cose importanti, non lo ha visto morire e resuscitare, non era con i dodici. Questa simbolica rispetto a Paolo per amor di continuità nella Chiesa Cattolica non è tanto passata, noi diciamo Pietro e Paolo e pensiamo al Papa come successore di Pietro, per noi è più forte la figura di Pietro, non è un caso che invece le Chiese della Riforma hanno come riferimento Paolo. Il Vangelo di Luca li presenta entrambi, ci dice che c’è una continuità è una discontinuità, c’è un essere contemporanei storicamente a Gesù, ma c’è un non essere contemporanei, la barca passa di mano, ma una cosa è certa la barca si schianta, è interessante.

Noi abbiamo l’idea di Paolo come di un grande evangelizzatore, in realtà non è così automatico, i percorsi di Paolo raccontati da Atti, sono abbastanza differenziati. Nella realtà funziona come funziona per noi, alcune cose vanno bene, altri non vanno bene, alcuni annunci trovano degli interlocutori attenti, altri trovano degli interlocutori disattenti, alcuni gesti di Paolo significano una grande fioritura di vita, altri meno. C’è un testo di Atti in cui Paolo parla così a lungo che ha un certo punto un ragazzino che lo sta ascoltando seduto su un davanzale si addormenta, casca giù e muore. Paolo, allora, colto da senso di colpa per averlo stramazzato con la sua omelia lo fa resuscitare. Questo per dire che succedono delle cose anche un po’ strane, l’andamento non è così matematico, ovvero che Paolo parla e che gli va tutto bene. Quello che si vede e che Paolo prova dei modelli diversi. Esattamente come noi si chiede come fare per essere al proprio meglio, per fare ciò che c’è da fare, a volte modelli funzionano, a volte funzionano un po’ meno, però Paolo proprio perché non è un contemporaneo di Gesù, perché come noi è dopo la rottura della vicenda storica di Gesù, Paolo deve essere molto attento ai segni. Cerca di distinguere i segni della fede, dell’incredulità. La differenza è proprio nei due discorsi iniziali di Pietro e di Paolo. Il discorso di Pietro dopo Pentecoste è meraviglioso, ci piace tanto, ma cosa succede? Arriva lo spirito Santo, illumina tutti i discepoli, Pietro apre la porta e c’è la folla, lui parla ognuno capisce nella propria lingua e non c’è bisogno di segni, non è che Pietro parla tutte le lingue ma tutti capiscono nella loro lingua. Questo è il dono dello Spirito Santo: ognuno capisce nella propria lingua. Pietro parla e tutti capiscono e dicono che è magnifico e chiedono cosa devono fare per convertirsi. Noi siamo un po’ tutti su quel modello li. Pensiamo di aprire la porta beccare uno per strada dire che Cristo è risorto e spiegargli come fare per convertirsi. Invece il modello del discorso di Paolo ed è quello che leggiamo oggi, quello dell’Arèopago ha tutto un altro tono: noi siamo Paolo non Pietro. Paolo si sforza di parlare la lingua dei greci, non tanto a livello grammaticale quanto a livello culturale, e come sappiamo non gli va benissimo. Il problema qui non è che lo Spirito Santo faccia capire ai greci, ma è Paolo che riconosca un segno, decriptarlo e applicarlo.

Il testo

16Paolo, mentre li attendeva ad Atene, fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli. 17Frattanto, nella sinagoga, discuteva con i Giudei e con i pagani credenti in Dio e ogni giorno, sulla piazza principale, con quelli che incontrava. 18Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: “Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?”. E altri: “Sembra essere uno che annuncia divinità straniere”, poiché annunciava Gesù e la risurrezione. 19Lo presero allora con sé, lo condussero all’Areòpago e dissero: “Possiamo sapere qual è questa nuova dottrina che tu annunci? 20Cose strane, infatti, tu ci metti negli orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta”. 21Tutti gli Ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità.

22Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:

“Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”.

29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”.

32Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”. 33Così Paolo si allontanò da loro. 34Ma alcuni si unirono a lui e divennero credenti: fra questi anche Dionigi, membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

Questo è il racconto, da un punto di vista narrativo non pone difficoltà, Paolo sta aspettando ad Atene, freme ed è impaziente nel vedere la città piena di idoli.

16Paolo, mentre li attendeva ad Atene, fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli. 17Frattanto, nella sinagoga, discuteva con i Giudei e con i pagani credenti in Dio e ogni giorno, sulla piazza principale, con quelli che incontrava.

Questi due versetti come al solito sono il titolo della questione, c’è un desiderio di Paolo e dall’altra parte c’è la realtà di fatto che sono la sinagoga e la piazza, cioè il mondo e la Chiesa, il religioso e il profano, l’anima e i bisogni concreti, il materiale e l’immateriale, la vita come è e l’esperienza della spiritualità che ognuno di noi nei modi più incommensurabili fa. La vita è fatta di spazi sacri e di spazi profani. Paolo ha un desiderio e parla con gli uni e con gli altri, alla sinagoga e alla piazza.

Quando abbiamo cominciato a ragionare su l’Atrio questi versetti mi erano molto presenti e l’esperienza sta sotto questo titolo: un desiderio che ciascuno di noi ha in modo diverso e la volontà di discutere nella sinagoga e nella piazza. Incrociare i pezzi della vita, dai più straordinarie ai più concreti, provando a vedere che cosa succede se parliamo con tutti. Il problema di Paolo qui non sono gli idoli e i pagani, oppure un problema di ordine morale rispetto al denaro, ma il problema qui è qual è il desiderio di Paolo? Qual è il desiderio che abbiamo noi? Che cosa veramente c’è da fare rispondendo alla fede? Che cosa ci diventa urgente per cui freniamo? Convincere, dialogare, conversare nella sinagoga nella piazza, mettere insieme i pezzi? Su questa cosa bisogna un po’ ragionare.

18Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui.

Queste due parole epicurei e stoici provocano sempre una lezioncina di filosofia greca, interessante, ma la cosa ancora più interessante per cui Luca perde il tempo a indicare queste due categorie e perché epicurei e stoici rappresentano entrambi specularmente la metà di un mondo possibile. Cioè come si affronta la questione di parlare ad una parte più materiale e ad un’altra più spirituale? Come parlare alla sinagoga e alla piazza? Nell’esperienza più umana la si risolve o da epicurei o da stoici. Ovvero da epicureo si può dire che la si può risolvere dicendo tanto tutto passa non si può prendere tutto sul serio oppure da stoico la vita è una battaglia bisogna tener duro, essere eticamente irreprensibili, tener duro. O godersela o diventare dei rigidi. O buttarla sul morale o buttarla sull’immorale. Queste due metà della condizione umana pongono una domanda a Paolo: c’è una terza possibilità?

e alcuni dicevano: “Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?”. E altri: “Sembra essere uno che annuncia divinità straniere”, poiché annunciava Gesù e la risurrezione.

Usano due categorie ciarlatano e straniero che sono esattamente la struttura che è archetipica con cui affrontiamo uno sconosciuto, di fronte a qualsiasi cosa che sia sconosciuta si reagisce pensando è straniero e ciarlatano. Con queste quattro parole epicurei, stoici, ciarlatano, straniero, Luca ci descrive una coordinata antropologica pazzesca. Ci dice che ci sono vari modi di vivere nella vita, però sostanzialmente si vive o prendendosi troppo poco sul serio o prendendosi troppo sul serio, e quand’è così per tenersi in piedi superati i 15 anni di fronte a qualsiasi altra possibilità non conosciuta la reazione è che o non conta niente o non è riconosciuta. Questi ateniesi fanno una cosa interessante:

19Lo presero allora con sé, lo condussero all’Areòpago e dissero: “Possiamo sapere qual è questa nuova dottrina che tu annunci? 20Cose strane, infatti, tu ci metti negli orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta”.

Gli ateniesi costruiscono una situazione in cui sono loro a cogliere il segno. Non è Paolo. Sono gli ateniesi che colgono il segno della novità in Paolo. Si dicono che forse c’è un’altra storia, una terza via tra epicurei e stoici. Lo mettono in mezzo e gli chiedono di spiegare. Luca ci dice che c’è una struttura antropologica in cui nella vita quotidiana è difficile mettere insieme sinagoga e piazza, ci sono tante soluzione modelli, la tentazione di difendersi da ogni sbilanciamento da ogni cosa nuova, ma qui i greci hanno il coraggio di non difendersi, di stare a sentire uno straniero non ciarlatano e di metterlo nel luogo della discussione:

21Tutti gli Ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità.

Hanno come passatempo il riconoscere i segni, provano a cercare i segni, questo si chiama cultura. Tutti quelli che commentano questo testo dicono nell’incontro tra Vangelo e cultura. La cultura distingue gli uomini dagli animali, vagliare il segno che ci viene posto alla luce di ciò che comprendiamo, la provocazione che ci raggiunge. Cosa fa Paolo? Questo è il problema: eccesso di zelo. Prova a ridire l’esperienza del Vangelo a partire da quello che ha davanti: si omologa al proprio interlocutore, lo fa per buonissime intenzioni per farsi capire e a differenza di Pietro che inizia il discorso dicendo quel Gesù che avete crocifisso è risorto, Paolo non nomina nemmeno Gesù. Si sbilancia un po’ troppo. Paolo, infatti, poi impara e scrivendo ai Corinti dice io vengo a voi con Cristo crocifisso e risorto.

22Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:

“Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio.

Non nomina Gesù Cristo perché forse gli sembra troppo per i greci, ma crea una contrapposizione ,che noi tendiamo a non vedere più, che è contrapposizione tra cristianesimo e le altre religioni.

Voi siete molto religiosi ma è un’altra cosa. E più avanti dirà:

24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa.

Paolo è molto duro dice che per tenere insieme sinagoga e piazza bisogna andare in piazza, è la vita la questione decisiva, non la religione. Smonta l’impianto tradizionale della religiosità dell’epoca, Dio è creatore, il mondo non è figlio del caso, il mondo ha una determinazione, una logica di relazione, ma non abita nel tempio, non si lascia servire da mani umane, non ha bisogno di sacrifici. Se proviamo a pensare questa cosa rispetto a noi oggi ci fa tremare perché quello che ci viene detto che il Dio che ci è ignoto è il Dio che ha creato le nostre vite e che le regge in una relazione che non abita nei templi e non ha bisogno di niente.

è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa.

Il centro è la vita. Dopo dice ancora due cose che ogni tanto in questa lettura scappano:

26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio

Dall’unità crea la pluralità e nella pluralità ordina, esattamente il contrario che noi per lungo tempo abbiamo prodotto ovvero la questione non è essere tutti uguali, ma neanche essere tutti diversi e ognuno per conto proprio. La questione è essere diversi in relazione, tenere insieme i pezzi. E questo a quale scopo? Perché possano trovare Dio nella pluralità sinfonica ordinata.

27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”.

Se si vuole capire bene questi versetti si può vedere il film Il concerto. C’è una storia complicata, che crea desideri diversi, per cui tutti arrivano a Parigi per le loro questioni, e in fondo a nessuno di loro interessa questo concerto, ma alla fine la memoria di un sacrificio rende possibile quel concerto e quella diversità improbabile viene trascinata verso una armonia, un ordine, un confine che può far trovare Dio. L’ultima parola del film è Amen.

Benché non sia lontano da ciascuno di noi.

Questo è uno dei versetti molto caro a S. Agostino. Questa logica purtroppo è diventata un po’ un minestrone per cui si finisce col dire alla gente che se anche uno non è credente Dio lo ha già trovato. Sei credente anche se non lo sai. In realtà quello che Paolo sta dicendo è che Dio è nella vita che ha creato. È il Signore del tempo, del mondo, della storia, dunque non è lontano da ciascuno di noi, ma si fa trovare quando lo cerchiamo. Al mondo c’è già qualcuno che ci ama, però se io non lo so, non ci parlo, non l’incontro è come se non ci fosse. Se non c’è un desiderio che mi spinge uscire da me e incontrare l’altro non lo troverò mai.

29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone

a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”.

Questi sono i versetti della crisis, quelli in cui Paolo prova dire la novità, ovvero fino a qua possiamo cavarcela con la vostra filosofia, ma la vera novità è la conversione e il giudizio, in relazione alla morte e risurrezione di Gesù. E lo dice talmente male che non riesce a farsi capire, infatti, nella lettera ai Corinti lui stesso si correggerà, per dirlo meglio. Con eccesso di zelo, troppo disponibile, non dice bene la novità. Qual è la novità? Conversione e giudizio in relazione alla morte resurrezione del Signore, infatti gli altri cosa capiscono?

32Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano,

Essi sentono solo l’ultimo pezzo, capiscono solo l’ultimo pezzo, che non gli quadra. Alcuni gli credono ma gli mancano i primo due pezzi, non riescono a capire che relazione c’è con il resto del discorso in cui Paolo mette al centro la vita, avendo capito bene. E la connessione è in conversione e giudizio che è un tema che a noi fa un po’ impressione, perché per noi queste due parole sono troppo caricate di un peso moralistico: la conversione sarebbe qualcosa che parte dalla comprensione dei nostri peccati, invece la conversione è la conversione al Signore, non dai nostri peccati. Dai nostri peccati di conseguenza ma il movimento è governato dal punto di arrivo non dalla conseguenza e che cosa vuol dire la conversione al Signore, questa è la grande questione. Che cosa ciascuno di noi è chiamato a fare per convertirsi e qui appunto a costo di sembrare un po’ scontata, un segno per me molto forte di questo inizio di questo nuovo Pontificato, le parole e i gesti, pochi, che per ora sono stati detti, ristabiliscono proprio i fondamentali cioè ci stanno facendo bene proprio perché ripartono da A, B, C. Ristabilendo questi fondamentali, per esempio, questo Papa è uno strano miscuglio di molto nuovo e molto antico, usa linguaggi paradossalmente molto antichi, ha già parlato del demonio, però i giornalisti dicono ma no, è così nuovo, ma poi stanno malissimo quando parla di alcune cose. Semplicemente è molto basic nel senso positivo dei fondamentali rispetto a queste questioni qua. Ristabilisce alcuni temi di cui uno è proprio questo come fondamentale: conversione non è conversione dei nostri peccati in primis, in cui restiamo lì a guardare i nostri peccati, fare 2000 ragionamenti che voltano tutti al negativo. La conversione prima di tutto è conversione al Signore, conformazione a quel Cristo morto risorto, e questo certo poi ha come contrappeso che per diventare come il Signore molte cose bisogna purificarle, tagliarle via, non si può semplicemente dire faccio come mi pare, se faccio come mi pare non divento automaticamente come il Signore. Diventare come il Signore è un po’ faticoso, ci sono alcune tendenze mie che non possono essere accompagnate. In questo senso la conversione è anche conversione dai propri peccati, ma di per sé il problema non è dei miei peccati o meno, ma è se io mi converto al Signore. E quando il Signore ha parlato del giudizio di misericordia nella Settimana Santa, appunto conversione per il giudizio. Qui si tratta di diventare come il Signore perché la nostra vita, apparentemente umiliata, possa fiorire. In questo senso cristiano del giudizio è uno, dandone a tutti prova sicura, col risuscitarlo dal morti. Il giudizio del Padre su Gesù è un giudizio su una vita che fiorisce. Allora questo mi sembra un nucleo forte.

Alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”. […] 34Ma alcuni si unirono a lui e divennero credenti:

Quindi di per sé non è totalmente negativo risultato, un terzo, un terzo e un terzo, due terzi per il no è un terzo per il sì è già un buon risultato e di questi due si citano Dionigi, un uomo e una donna. Ed è interessante nella storia della Chiesa questo Dionigi, l’Aeropagita, è diventato in modo leggendario, il precursore di tutti i mistici, vi sono stati attribuiti degli scritti, che in realtà sono del quarto secolo, quindi non sono sicuramente di Dionigi, ma degli scritti patristici antichi che sono un po’ dei precursori dei mistici. Come per dire ci andava un mistico per cogliere quest’intuizione Paolina. È interessante perché l’altro nome che che qui si fa pariteticamente,

fra questi anche Dionigi, membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.

Di questa Dàmaris la leggenda non ci dice niente, cancellato dalla memoria, non c’è non si sono inventati niente. Si sono inventati un sacco di roba su questo Dionigi che il patrono della Francia, San Denis, che si racconta che da Atene sarebbe morto a Parigi. Tutto leggendario nessuna prova storica però è una figura di grande rilievo, tutta la patristica medievale cita Dionigi l’Aeropagita come un autore di primaria importanza, e questa Dàmaris invece sparita dalla memoria, eppure sono i nomi che vengono fatti di coloro che divennero credenti.

Domanda: La questione dell’eccesso di zelo di Paolo sta nel tentare di accattivarsi troppo gli uditori e quindi nel non riuscire a dire bene la differenza cristiana?

Sì, è un duplice eccesso di zelo quello di Paolo e cioè una grandissima attenzione nell’accattivarsi gli uditori, nell’addomesticare in qualche modo, e contemporaneamente è nel non riconoscere qual è la questione che gli viene posta, cioè la questione che gli viene posta all’inizio è: come si tiene insieme la sinagoga e la piazza? E lui non ce la fa a riconoscere quel segno perché ha una cosa da dire, che la cosa che ha da dire lui, ma non la rapporta alla domanda che gli è stata posta. Inevitabilmente, quindi, una parte di queste persone non la riconosce. È un po’ quello che succede spesso a noi, quando tu devi spiegare un altro qual è la cosa giusta e sei talmente preoccupato del spiegargli qual è la cosa giusta che non stai a sentire qual è la domanda. E nel 90% dei casi gli spieghiamo una cosa giusta, ma che non è quella che serve a lui ed il risultato è che quello dice: ah, vabbé, e sta esattamente come prima.

Fossano, 6 aprile 2013

(testo non rivisto dal relatore)

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