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15 Maggio 2021
Stella Morra

8. Finire/iniziare

Commento a: Ap 12, 1-18


 

Siamo al termine di questo percorso il cui titolo era Nella fine l’inizio, ho pensato molto a questo titolo, perché ci sono tante fini e tanti inizi, che quest’anno ci hanno attraversato per tanti motivi. E da una parte siamo alla fine di un percorso, con una specie di sapore di nuovo inizio, legato ai vaccini, all’abbassarsi dei contagi, al guardare avanti con un pochettino più di fiducia da un certo punto di vista. E, poi, questa settimana è morto il padre Ghislain Lafont, in tante occasioni abbiamo letto suoi testi insieme e per me è stato un punto di riferimento, appunto un Doktorvater veramente fondamentale, di orientamento, soprattutto sullo stile e sul modo di fare la teologia, umanamente a 360 gradi, oltre al fatto che era un uomo di grande competenza, di grande intelligenza, intuizione, ma proprio un po’ anche nel suo rimanere sempre inquieto fino all’ultimo, farsi domande di quelle apparentemente banali che poi però cambiano la sostanza delle cose. Ancora più o meno recentemente al telefono continuava a porsi alcune delle domande che nei 30 anni in cui ci siamo parlati di teologia e non solo, spesso lui poneva, una delle domande che lui si faceva spesso era: perché Dio non si fa vedere? E con un ragionamento molto vero di teologia diceva che se Dio non si fa vedere e se Calcedonia non è vero, noi non sappiamo più chi siamo, diceva: Ghislain Lafont non sa più chi è Ghislain Lafont, che diceva del legame strettissimo del pensiero su Dio per la sua vita, per la sua identità. E devo dire che, quando il priore del suo monastero ha scritto annunciando la morte (perché da bravo monaco benedettino aveva lasciato l’elenco delle mail a cui annunciare la sua morte), il primo pensiero che mi è venuto è stato questo: che non aveva più la domanda perché Dio non si fa vedere, che vedeva Dio e dunque sapeva profondamente chi era Ghislain Lafont. Questo è stato il primo pensiero che mi è venuto, insieme ovviamente a una grande gratitudine ma anche a una tristezza. C’è una storia ebraica che dice che il mondo rimane in piedi perché in ogni generazione ci sono, non mi ricordo la cifra, ma tipo 7 o 77 giusti, conosciuti o sconosciuti, e quindi mi veniva anche qui il pensiero che il mondo tremava un po’ di più perché c’era un giusto in meno, e che dunque doveva esserci un altro giusto che prendesse il suo posto perché il mondo potesse continuare ad andare avanti. Tutto questo per dire: ci sono fini e ci sono inizi, la vita del padre Lafont è stata una vita lunga, densa, ricca, ha fatto tanto, ha fatto tanto bene. Aveva anche un pessimo carattere, quindi era difficile abitare con lui in comunità, ma è stato un grande insegnante, una vita veramente piena, compiuta, una fine compiuta, ma anche una fine compiuta lascia un inizio possibile, ci va un altro giusto che prenda il suo posto per reggere il mondo.

Finire e iniziare sono dunque un po’ le parole con cui fin dall’inizio avevamo scelto di chiudere questo percorso, qui parlo molto personalmente, non so se vale per tutti, ma ogni inizio ti dà la tentazione di cancellare la fine che lo ha generato, cioè di rimuovere l’aspetto negativo, la fatica, la stanchezza, di cancellarli. Ma non ci sono inizi senza fini che generano e che generano inevitabilmente nel dolore, nella fatica almeno, nell’incertezza, nel dubbio, nel rischio, e non si può avere nessun legame manicheo tra fine e inizio, non sono due cose separate. Bisogna imparare ad abitare ogni fine come un inizio e ogni inizio come una fine, perché molto semplicemente la logica non è né quella dell’eterno ritorno, per cui tutto finisce e ricomincia come se niente succedesse mai di vero, ma non è nemmeno quella di un progresso indefinito per cui ogni fine ti insegna qualcosa. Non è vero, ci sono delle fini che a volte non insegnano niente, o che sono dolore, ma l’Evangelo ci dice che Gesù non torna vivo e che il suo corpo glorioso, pur mantenendo tutti i segni del suo corpo incarnato, le piaghe, è un altro corpo, è un inizio, non torna in vita come Lazzaro, ma risuscita, che è un’altra cosa. Ogni fine è un passaggio generativo, nasce un pezzo nuovo che prima non c’era, allora la prima considerazione che vorrei condividere con voi, prima ancora di cominciare col testo, è che cosa vuol dire camminare verso un corpo glorioso o, come dice l’Apocalisse, verso il giorno che non avrà più tramonto, dunque un giorno che non finisce più. Voi sapete nel corso della storia della chiesa questa cosa qua l’abbiam pensata in tanti modi diversi, per esempio contrapponendo la storia, il tempo, il corpo con quest’altra cosa che sarebbe stata dopo, alla fine, un’altra cosa, adesso i giorni nascono e muoiono, e poi invece ci sarà il giorno che non ha più tramonto, adesso i corpi nascono e muoiono, crescono, e poi ci sarà un corpo glorioso che non sappiamo qual è. Questa lettura è una lettura un po’ manichea, che divide prima e dopo, giusto e sbagliato, buono e cattivo. Io credo che questa è una domanda che dovremmo farci molto fortemente, perché essere cristiani è, dicevamo in queste volte passate, l’esperienza di una contaminazione con Cristo e con gli altri per camminare verso un giorno in cui non ci sarà più tramonto, che non è solo alla fine, è abitare i tramonti come non tramonti, come più di loro stessi, abitare la fine e anche le tante fini che ci accompagnano come non-fine, ma insieme come fine, come qualcosa che finisce. Io credo che questa questione è una questione molto grossa, su cui mi piacerebbe molto che ad esempio chi ci sarà e vorrà condividerlo mi dica cosa ne pensa; per me è una questione molto importante perché va a colpire l’ansia di perdere, l’ansia di lasciare indietro pezzi, il senso di che cos’è nuovo. Man mano che passano gli anni uno scopre che ha fatto di tutto per avere una vita originale e alla fine si ritrova che è più o meno alle prese con le stesse cose negli ultimi 50 anni, e quindi non è poi così originale, e ha fatto tante cose diverse però alla fine è sempre lì, le cose serie e profonde quelle restano, e allora mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.

La lectio

Così per riflettere un po’ su queste cose abbiamo scelto un testo che è il capitolo 12 di Apocalisse, che è un testo in cui la prima parte del testo l’abbiamo commentata molte volte, la visione della donna nel cielo, 
ma che questa volta vorrei commentare con voi dall’inizio alla fine, un po’ globalmente, lo leggo.

Il testo: Ap 12, 1-18

12 1Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. 2Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. 3Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; 4la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. 5Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. 6La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

7Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, 8ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo. 9E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli. 10Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:

«Ora si è compiuta

la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio

e la potenza del suo Cristo,

perché è stato precipitato

l’accusatore dei nostri fratelli,

colui che li accusava davanti al nostro Dio

giorno e notte.

11Ma essi lo hanno vinto

grazie al sangue dell’Agnello

e alla parola della loro testimonianza,

e non hanno amato la loro vita

fino a morire.

12Esultate, dunque, o cieli

e voi che abitate in essi.

Ma guai a voi, terra e mare,

perché il diavolo è disceso sopra di voi

pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo.

13Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si mise a perseguitare la donna che aveva partorito il figlio maschio. 14Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontano dal serpente. 15Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. 16Ma la terra venne in soccorso alla donna: aprì la sua bocca e inghiottì il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.

17Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a fare guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.

18E si appostò sulla spiaggia del mare.

Commento

L’abbiamo già detto tante volte, lo ridico per chi l’ha scordato o per chi non c’era nelle volte in cui l’abbiamo detto: la lettura dell’Apocalisse è solo apparentemente una lettura complicata, è una lettura complicata se la vogliamo leggere come se fosse un testo di scuola, in cui dobbiamo capire ogni singolo simbolo: cosa sono i 7 diademi, cosa sono le 7 teste. Il problema è che l’Apocalisse non funziona così, nella nostra cultura contemporanea potremmo dire che l’Apocalisse funziona come un film, in cui tu non è che ti chiedi che cosa significa lo scricchiolio della porta, in un film giallo se senti una porta scricchiolare sai che sta per succedere qualcosa, perché la simbolica ti è chiara, ti è contemporanea e non passa per via razionale, una musica tesa, lo scricchiolio di una porta, tutto buio, dici adesso arriva l’assassino, ti viene l’ansia, hai l’effetto ansia da assassino. E l’Apocalisse funziona come un film, dipinge un quadro in cui bisogna un po’ entrare nel ritmo e cercare per quanto possibile essendo simbolica e immagini che non ci sono consuete, per quando possibile lasciarsi un po’ attraversare dall’atmosfera, lasciarsi prendere dal film, dalla narrazione, dal racconto, e proprio un po’ immaginarsi le scene, una costituzione di luogo, perché è l’insieme della scena che ha l’effetto significativo, non i singoli passaggi.

Allora da questo punto di vista questa scena è grandiosa, è una scena capitale, una scena di quelle verso i tre quarti del film, quando il film sta per concludersi, di risoluzione della storia, ed è una scena che – tendiamo a dimenticare – avviene praticamente tutta in cielo; la posizione della telecamera, la soggettiva della telecamera è in cielo, ogni tanto guarda la terra ma è posizionata in cielo, non in terra, non sta guardando la storia da dentro la storia, sta guardando la storia guardandola dall’alto, dove appare il segno, dove si svolge la guerra, dove c’è la benedizione della salvezza compiuta. È tutto in cielo, ora però non metteteci sopra l’idea di cielo post padre Dante, cioè il cielo come il paradiso, l’aldilà, il luogo degli angeli, il cielo in questa logica non è dopo, è altrove, che è un’altra cosa, è altrove e in contemporanea. Noi, per esempio, diremmo nella profonda verità delle cose, dove le cose non sembrano ma sono, là dove si vede. Cioè il cielo non è appunto il paradiso dopo la morte, ciò che adesso non vediamo, ma è esattamente il posto dove si vede, dove le cose hanno il senso che dovrebbero avere, dove i segni significano quello che significano, dove le guerre sono tra buoni e cattivi. In tutti gli altri luoghi, terra compresa, è un po’ più un casino, perché la Scrittura sa che nella terra c’è l’ambiguità, c’è il difetto di visione, c’è che ciascuno di noi vede dei pezzi, e non è detto che capisca sempre quello che vede. Allora:

1Un segno grandioso apparve nel cielo

Il punto di inizio di questa scena veramente un po’ grandiosa è un segno, un segno che non è la realtà, che non è il tutto, è un segnale proprio, un cartello stradale, non so come dire, un’indicazione. Là dove le cose si vedono appare un segno, e questo segno è:

una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle.

Se lo stessimo scrivendo noi oggi l’Apocalisse diremmo un segno grandioso apparve nei cieli, un’umanità riconciliata con tutto il pianeta, come in Laudato Sì, in una ecologia integrale degli umani, delle cose, dei ritmi del tempo, in cui c’è una grande armonia. Questa donna è spesso stata interpretata come una figura di Maria, lo sapete tutti perché è tradizionale la lettura così e in un certo senso è vero, è vero nel senso del capitolo di Lumen Gentium su Maria, che dice Maria è l’icona del credente e della chiesa. In questo senso è vero, cioè questa donna è la sposa, l’umanità intera, tutti noi, di cui Maria è segno in terra, non in cielo. Il comportamento di Maria in terra che accetta di generare al mondo il Verbo, è il comportamento desiderato degli umani e dunque in questo senso è Maria ma non è Maria, è l’umanità, è l’umanità chiamata a partorire il Verbo per sempre e anche se stessa, per sapere, come dicevo prima, chi è. Sole, luna e stelle… e cos’altro? Tutte le fonti di luce per il mondo antico, quelle del giorno, quelle della notte: sole, luna e stelle,

2Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.

Appare questa armonia, questa umanità in armonia col cosmo, col tempo, con la luce e col buio, e questa umanità armonica – dice – stava bella contenta? No! L’umanità armonica gridava per le doglie del parto. Capisco che sto quasi solo ripetendo le parole ma perché vorrei veramente che vedeste il film, cioè che vi immaginaste questa cosa. Noi avremmo detto: ok una bella umanità in cielo, tutti che si vogliono bene, dove c’è giustizia, dove torniamo tipo paradiso terrestre, che la natura dà i suoi frutti, senza squilibri, senza violenza, meraviglioso, e passeggiavano nella brezza della sera belli e rilassati (conclusione del racconto di creazione in Genesi)… No! Quando tutto è così che sembra tutto perfetto, si grida nel dolore e nel travaglio del parto, perché questa è la storia vera, perché non si torna a Genesi, perché Dio prende sul serio la nostra storia, quella di ciascuno di noi e quella dell’umanità tutta; e dunque riconosce il nostro dovere e diritto di generare e ogni generazione richiede un travaglio e un rischio, perché ogni momento di nascita può essere anche un momento di morte e in ogni caso è un momento di dolore. E questo primo segno che compare in cielo devo dire è bellissimo, se è vero quello che dicevo prima che in cielo succedono le cose che si vedono davvero nella loro verità qui si dice perché stiamo al mondo: stiamo al mondo per partorirci e per partorire un’umanità vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di 12 stelle, questo ci tocca fare.

3Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; 4la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra.

E qui, se siete un po’ entrati nel film, diventa chiaro, il drago è rosso che per l’antichità il porpora è il colore legato al potere, ai re, è il colore del sangue, è un colore violento, è un colore potente; fino a pochissimo tempo fa le brave signore e donne cattoliche non vestivano di rosso, non c’è praticamente nessun abito religioso ad esempio rosso, perché è un colore scioccante, un drago rosso che non ha sole, luna e stelle, ma ha sette teste. Evito i commenti di chi come me fa l’intellettuale. Sette teste sono davvero troppe, mentalizzare tutto è un disastro, parlo per esperienza, sette teste sono troppe, perché c’è sempre un cuore solo, quindi sette teste non si reggono, non è vestito di sole, è rosso, non ha la luna sotto i piedi ma ha sette teste, ragazzi! Ricordo sempre su questa cosa che nella sua sapienza la chiesa ha la festa liturgica del sacro cuore, ma non si è mai sognata di fare la festa liturgica del sacro cervello e trovo che è sapiente. Sette teste con dieci corna e sulle teste sette diademi, tutto autoprodotto, tutto prodotto del potere, tutto autoreferenziale, non c’è nessun segno cosmico, nessuna comunione col tempo e con lo spazio, con la natura, con i ritmi, giorno, notte; diademi: l’inutile spreco dell’ostentazione, della ricchezza e del potere, sulle teste. Allora questi sono i due grandi segni, il drago non grida per le doglie del parto, non sta partorendo, fa un’altra azione, con la coda trascina un terzo delle stelle del cielo e le precipita sulla terra, rompe l’armonia cosmica. Prende ciò che deve stare in cielo e lo butta sulla terra, non vuole vedere la verità, non vuole vedere quello che è come si vede in cielo, anzi butta le stelle sulla terra perché anche le stelle siano confuse, siano nel segno dell’ambiguità della terra.

Tra questi due segni, che spero con le mie parole un po’ immaginifiche di avervi fatto visualizzare proprio nel loro ritmo, nel loro respiro più che nel loro significato, tra questi due segni si scatena una cosa: il drago si pone davanti alla donna che sta per partorire per divorare il bambino appena lo avesse partorito. Se il primo segno ci dice che abbiamo una sola cosa da fare nella vita: partorire noi stessi nell’armonia più grande e che in qualche modo favorisce un cosmo ordinato nei tempi, nei luoghi, nella giustizia, qui abbiamo la chiara definizione del male: il male è non tanto fare qualcosa di sbagliato ma odiare la vita che nasce. E io credo che ciascuno di noi ci è passato da qualche parte nella sua vita, per qualche motivo, in qualche dimensione, perché ogni volta che un pezzo di vita nuova è nato in noi abbiamo avuto paura, incertezza, non sapevamo bene che fare, dove metterlo, dovevamo fare troppi conti, calcolare quanti diademi costava e quanto bisognava fidarsi del sole, della luna, delle stelle, è duro. E poi non si può mica rinascere quando si è vecchi, come dice Nicodemo a Gesù, e quindi non è che si può sempre partorire e la tentazione di prendere le stelle e buttarle per terra, per poter divorare il bambino quando nasce, non so se servono ulteriori chiarimenti o è chiaro, vi ha mosso delle associazioni. C’è questa grande scena, c’è una verità dell’umanità che nelle doglie del parto, non a gratis, non saltarellando come la vispa Teresa, con un grande senso della fatica e dell’ambiguità ma mira a partorire se stessa secondo verità; e c’è la grande menzogna possibile, divorare la vita che nasce e che cosa succede in cielo, dove le cose funzionano, dove si vede la verità.

5Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono.

È interessante no? in tutta la Scrittura l’umanità è donna, è Dio il maschio. In tutta la simbolica della scrittura funziona così, va bene, l’umanità che partorisce se stessa partorisce un figlio maschio, che viene rapito verso Dio e verso il suo trono, cioè che viene riconosciuto come figlio di Dio.

6La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni.

L’umanità lascia il cielo e torna in un luogo ambiguo, il deserto è un luogo ambiguo, è il luogo del fidanzamento con Dio ma anche il luogo dell’esilio. È il luogo della fede, guidati da una colonna di fuoco e da una nube, ma è anche il luogo dell’idolatria, il vitello d’oro, le mormorazioni, “ma perché siamo dovuti venire a morire nel deserto?” È il luogo dove non si vede, “dacci un Dio che si veda”. È la parola ad Aronne perché Mosè non scende dal Sinai, ed è chiaro Mosè sale sul Sinai va verso il cielo, va su, e non torna giù e allora il popolo dice ad Aronne dacci un Dio che si veda e Aronne gli fa costruire il vitello d’oro. E anche qui reggere l’ambiguità della terra dove non si capisce è una continua fine, perché per esempio è la comprensione della propria parzialità, della propria possibilità di errore e di cambiamento anche quando siamo iper-convinti, quando ci sembra di aver capito e onestamente in coscienza non possiamo far altro che seguire quello che ci sembra vero, ricordandoci che siamo nella ambiguità del deserto e che quindi forse domani non sarà più vero. La donna fugge nel deserto, c’è una umanità potente maschile che è già assunta presso Dio e c’è una umanità femminile che scampa nell’ambiguità del deserto, che è trascinata sulla terra, ma Dio lì aveva preparato un rifugio. E qui, credo che in questa ambivalenza, quali sono i nostri rifugi sarebbe un altro bel tema su cui confrontarci, se non altro perché siamo qui, credo che condividiamo tutti che uno dei nostri rifugi è la Parola di Dio, se no non saremmo nemmeno qui. Forse qui qualche riflessione meriterebbe la pena di farla., poi forse ognuno di noi ne ha di altri rifugi preparati per essere nutriti, per 1260 giorni, cioè tradotto: tantissimo tempo, e questo è un altro carattere della terra rispetto al cielo, nel cielo il tempo non c’è, è tutto un eterno presente, si vede l’inizio e la fine insieme, nella terra il tempo c’è ed è sempre lungo, è sempre troppo, è sempre un tempo di attesa. Questa è la prima grande scena che abbiamo più volte commentata, ma poi comincia una seconda grande scena:

7Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago.

Anche qui niente delle nostre idee dolciastre, il cielo è questo posto un po’ noioso dove tutti sulle nuvole suonano l’arpa e tutti si vogliono bene, c’è una guerra nel cielo. Il carattere incarnazionale del cristianesimo, il fatto che Dio prende sul serio gli uomini e le donne e le nostre vite, a volte le prende più sul serio di quanto le prendiamo noi stessi, ci dice che c’è sempre una guerra, che tecnicamente si dice agonale, un carattere di battaglia. E anche questo è una cosa che a me colpisce molto, perché insieme alla memoria delle donne, una delle cose che più abbiamo cancellato della struttura primitiva del cristianesimo, sappiamo che c’è, nessuno lo nega, però tutti lo teniamo un po’ in secondo piano, anche terzo piano, cioè più indietro possibile, è il carattere agonale del cristianesimo. Ci piace spesso dire che è più facile essere buoni che cattivi, non è vero, semplicemente non è vero e bisogna prendere atto con forza che il cristianesimo richiede una forza, sta dalla parte del cielo questa guerra, è nella verità delle cose, c’è un costo, che sono tanto le doglie del parto quanto questa guerra. Non c’è nessun esonero dal giudizio, dall’assunzione di responsabilità, dal combattere la buona battaglia in prima persona. E non è solo legato all’ambiguità del tempo storico, sta in cielo, Michele e i suoi angeli. Voi sapete i tre arcangeli, Michele, Gabriele, Raffaele sono stati caratterizzati a causa della Scrittura in tre modi diversi: Gabriele è quello più efebico, più angelico, perché porta la parola, annuncia a Maria che lo Spirito è su di lei, fa il messaggero; Raffaele è l’arcangelo della storia di Tobia, è l’angelo guaritore, è quello che fa i giochetti col fegato del pesce pescato, è quello che guarisce i malefici, è la proto-figura dell’angelo custode. Accompagna Tobia nel suo viaggio, ne ha cura, lo protegge lo guarisce, guarirà il padre, il vecchio Tobi. Michele è quello messo sulla porta del giardino chiuso agli umani dopo il peccato originale, ed è quello che ricompare nella Scrittura alla fine, è il guerriero. Per molti secoli la fede popolare, e in alcuni luoghi geografici ancora oggi, ha avuto una grande devozione per san Michele: questo angelo guerreggiante, con la spada di fuoco, viene spesso rappresentato con le ali e tutto, ma il corsetto militare di metallo e la spada fiammeggiante, è uno che combatte. Non sembra tanto un angioletto di quelli lì raffaelliti, un putto carino, un bestione abbastanza incazzoso, perché Michele è proprio l’anima agonica dell’esperienza credente. Ognuno di noi in qualche modo ha dentro Gabriele, Raffaele e Michele, poi a causa della nostra cultura, dei nostri modi di vivere, negli ultimi 30 anni tutti più Gabriele che altro: Parola di Dio (giusto), gruppi, discussioni, domande, riflessioni, parole, tante parole. Il Covid, una delle cose che ci ha mostrato è: ok bisogna parlare, riflettere, confrontarci ma poi ragazzi bisogna tirare fuori una spada fiammeggiante e fare qualcosa, accettare la guerra là dove si pone, perché c’è una guerra da combattere, perché non tutto è uguale a tutto, perché l’ingiustizia – già purtroppo abbastanza comune sulla terra – rischia di aumentare a dismisura, e tra ingiustizia e giustizia non c’è uguaglianza.

Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, 8ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo 10Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:

Anche qui è carino, perché non è che dice, come in un telefilm americano, nell’ultima scena sparano al cattivo, abbiamo risolto tutto, c’è un happy end. No, escludono il cattivo dalla verità, è diverso, non ha più accesso al vero possibile, che sta in cielo: la vera punizione è l’esclusione, e anche qui credo che questo tempo il vero peccato, la vera questione che ci mette dalla parte del drago e non di Maria, è l’esclusione, è l’essere esclusi e il sentirsi esclusi. Qui, ci sarebbero credo delle parole dure da dire, chi può dire a un altro: “non c’è posto per te!”? Eppure, quante volte anche nella comunità credente è così, non te lo dicono così, però il succo è: non c’è posto per te, o quante volte noi ci sentiamo esclusi e dunque ci auto-escludiamo e magari bastava semplicemente starci, sono i tanti modi di divorare il bambino appena nato.

9E il grande drago, il serpente antico […], fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli.

L’esclusione lo rimanda nel terreno dell’ambiguità. Sembra una roba molto astratta ma credo che ciascuno di noi ci è passato, abbiamo tutti compiuto i 12 anni da un po’ e quindi sappiamo bene che tutto ciò che nella vita non affronti prima o poi si ripresenta. Se dici questa battaglia non mi riguarda, prima o poi, da un’altra parte, per un’altra strada, con altri nomi, in altre situazioni, ti ritrovi esattamente al punto di prima, perché questa battaglia che è partorire se stessi, è la nostra battaglia, non ce n’è un’altra. Questa scena, la guerra, la sconfitta che non è la fine ma che è l’inizio da un’altra parta:

10Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:.

Qui non si dice una parola, ma una voce, cioè c’è qualcuno che parla, non è un testo letto anonimamente, e questa voce dice quello che è usato come cantico nel breviario, di una bellezza che a commentarlo lo si rovina.

Ora si è compiuta

la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio

e la potenza del suo Cristo,

perché è stato precipitato

  l’accusatore dei nostri fratelli,

Il compimento della salvezza, della forza e del regno di Dio onnipotente è rimandare nell’ambiguo chi accusa. Il compimento non è in un happy end, una soluzione dei problemi, una vita a buon mercato, ma è la salvaguardia del bambino appena nato, la cura, la cura della donna, ma anche il rimandare nel regno dell’ambiguo colui che si permette di giudicare, di accusare, di non assumere, e quindi di escludere.

colui che li accusava davanti al nostro Dio

giorno e notte.

11Ma essi lo hanno vinto

grazie al sangue dell’Agnello

e alla parola della loro testimonianza,

e non hanno amato la loro vita

  fino a morire.

No che cavolo! Tu mi stai dicendo che quello è ancora lì che si aggira sulla terra, dopo mi dirai che è pericoloso, che sputa acqua, fa casino… ma come hanno vinto? Cosa hanno vinto? Eppure in cielo è chiaro: abbiamo già vinto. E si vince con il sangue dell’Agnello, la parola della testimonianza e non aver amato la propria vita fino a morire

12Esultate, dunque, o cieli

e voi che abitate in essi.

Ma guai a voi, terra e mare,

perché il diavolo è disceso sopra di voi

pieno di grande furore, sapendo che gli resta poco tempo.

E qui siamo di nuovo alla faccenda di prima, dunque in cielo è chiara la faccenda, ma attenzione: guai a voi laggiù in basso dove non è chiara, perché quello sta incazzato proprio e per un motivo molto semplice: sa che non può vincere. Credo che ognuno di noi ha fatto l’esperienza di impuntarsi su una cosa e poi a un certo punto essere consapevole che non poteva vincerla, ma contemporaneamente, pur sapendo di non poterla vincere, avere un nervoso tale da non accettare l’idea di non poterla vincere. E dire: ok, vorrei più tempo, ma resta poco tempo, in questo tempo di attesa che ci appartiene, in questa zona agonica che è dura e lunga, resta poco tempo, l’attesa ci sembra lunga ma la verità c’è già e:

13Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si mise a perseguitare la donna che aveva partorito il figlio maschio.

Ma come! Ti sei permesso di partorire te stesso? Non si può, non si può fare verità sulla terra, la verità si può fare solo in cielo, non te lo puoi permettere, e quindi viene perseguitata la donna

14Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita

Le ali della grande aquila, ciò che non ci spetta per natura ma per grazia e l’immagine è bella, riprende quella del salmo 90 dove la grande aquila è Dio, che ti mette sotto le sue penne, trovi rifugio, ti esalterà, ti innalzerà, con ali d’aquila, eccetera. Ci è data la grazia in questo tempo di ambiguità, che è il nuovo inizio, che è ciò che non era dato per natura, che era ciò che non poteva finire perché non c’era, perché gli umani, la donna, non siamo fatti con le ali. Ed è un inizio inatteso,

15Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere, dalle sue acque. 16Ma la terra venne in soccorso alla donna: aprì la sua bocca e inghiottì il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.

Non è invano che siamo complici e alleati con il cosmo, anche in questo Covid il cosmo è dalla nostra parte,

17Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a fare guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.

E qua ci siamo tutti noi, la guerra è dichiarata, e poi c’è questo versetto finale che in questo momento a me piace molto, però capisco che è una lettura molto mia, ognuno di noi avrà la sua,

18E  si appostò sulla spiaggia del mare.

L’altro giorno uno studente straniero, che non parla benissimo l’italiano e cercava di spiegare quello che si chiama il cultural turn, la svolta culturale, e diceva: uso un’immagine, professoressa, prima si studiava stando sulla spiaggia e si descriveva il mare, le onde così; dopo il cultural turn siamo tutti su un surf e descriviamo le onde mentre ci teniamo in equilibrio sopra le onde, perché il trucco è non andare sott’acqua, se no non descrivi più niente, non puoi studiare, ma non rimanere sulla spiaggia, sapere che siamo sul mare. E quindi il cultural turn è un surf, la svolta culturale è la comprensione dello studiare la realtà da dentro, la realtà è un surf, e leggendo si appostò sulla spiaggia del mare mi viene in mente proprio questa immagine.

Il drago è uno che guarda da fuori, che descrive il mare, le onde, ma non si bagna neanche un dito, e noi siamo tutti un po’ acrobati, su surf, molto oscillanti, e facciamo di tutto per non andare sotto, per non bere, perché se andiamo sotto non vediamo più niente. Proviamo a vedere, ma proviamo a vedere rimanendo sulla superficie molto mobile dell’acqua, delle nostre e delle altrui vite, compromessi con l’esistenza, non sulla spiaggia del mare, perché non siamo esclusi e non vogliamo escludere. Vorrei finire un po’ come ho cominciato, con una piccola citazione del padre Lafont, che mi sembra particolarmente adatta, dice così: “L’uomo non ha potere sul racconto della sua nascita ma gli compete in seguito fare del suo nome ciò che vuole, aprirsi agli appelli che questo nome riceve o chiudersi su un nome divenuto sterile”. Mi sembra così, che fine e inizio stanno in questo rapporto, non siamo padroni né delle fini né degli inizi, ma siamo proprietari di un nome, nemmeno di una vita, di un nome, e quindi possiamo essere chiamati da qualcuno, chiamati per nome e del nostro nome siamo chiamati a decidere cosa fare, rispondere all’appello o chiudersi su un nome divenuto sterile.

Fossano, 15 maggio 2021

Testo non rivisto dall’autore

Lectio 2020/2021

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