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13 Dicembre 1992
Stella Morra

3. Natale

Commento a: Gv 1, 1-18


Vangelo di Natale (Messa del giorno)

1 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era in principio presso Dio; 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. 4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. 6 Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. 9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. 11 Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. 12 A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13 i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15 Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me». 16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 17 Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18 Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

Ho scelto questo testo per tre motivi:

1. In genere non andiamo alla messa del giorno di Natale, perché abbiamo già partecipato a quella di mezzanotte. Rischiamo dunque di non ascoltare mai questo testo.

2. Abbiamo un’idea del Natale legata al vangelo della messa della notte: i pastori, gli angeli, il coro nei cieli… Tutto questo ci intenerisce molto, forse ci fa anche pensare, ma tutto sommato alimenta in noi un’idea di Natale abbastanza ‘coreografica’.

Questo Vangelo è invece offerto dalla liturgia per il giorno di Natale perché è il vero riassunto del significato della festa del Natale. Inoltre, non avendo un linguaggio di tipo ‘coreografico’, il brano impedisce ogni distrazione legata alle classiche immagini natalizie.

3. Inoltre è un testo bellissimo; spesso noi invece lo saltiamo di pié pari perché troppo “filosofico”. E’ vero, la prima impressione è di trovarsi di fronte ad un testo un po’ teorico, astratto, ripetitivo: dunque un po’ ostile, che non scalda molto il cuore. La mia ‘presunzione’ è invece proprio quella di farvi sentire la ‘musica’ di questo testo.

Premessa generale

IL VANGELO DI GV È COSTRUITO COME UN PROCESSO

Il Vangelo di Gv ha una chiave di lettura fondamentale, senza la quale non si capisce quasi niente: il Vangelo di Gv è strutturato come un processo, un dibattito processuale stile telefilm di Perry Mason. Questa struttura di fondo la si nota bene leggendo il vangelo tutto di seguito.

Nei primi sei capitoli (cioè fino alla moltiplicazione dei pani) l’imputato è Gesù e il capo di imputazione è: questo Gesù di Nazareth è Figlio di Dio o no? E allora ci sono le testimonianze (quella del Battista…) e le prove (i miracoli, le opere…), cioè il dibattito processuale che ha lo scopo di chiarire se questo Gesù può dirsi o no Figlio di Dio.

Dal cap. 6 al cap. 11 (resurrezione di Lazzaro) le cose si ingarbugliano: che è l’imputato? Gesù o i Giudei? Non si capisce se il processo viene fatto a Gesù per sapere se è davvero Figlio di Dio o se i Giudei da accusatori diventano accusati e cominciano ad essere giudicati per la loro incredulità.

Dal cap. 11 in poi la confusione aumenta e, a partire da una serie di segnali letterari che capovolgono ulteriormente il quadro, nasce un dubbio: siamo noi gli imputati? Siamo posti di fronte alla grande domanda: “Voi chi dite che io sia?”.

Nel primo finale del vangelo di Gv (cap. 20,30) si legge infatti: “… Questi sono stati scritti, perché (voi lettori) crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

A questo progressivo coinvolgimento noi cerchiamo in genere di resistere.

In realtà ciò che ci è chiesto è di stare tranquilli, perché la sentenza di questo processo è già scritta e la si legge nei capp. 20-21. Nelle apparizioni del risorto (Gv è l’evangelista che dà loro il maggior spazio) Gesù dice due cose: “Sono io, non temete” e “Non avete nulla da mangiare?”.

La sentenza del processo è: non c’è da avere paura, ognuno faccia la sua parte. Gesù appare sul lago e, ai discepoli che sono pescatori e stanno facendo il loro lavoro, chiede ciò che essi sono capaci di fare e di dare.

Questo è il quadro generale del Vangelo di Gv.

Il Prologo è il titolo del processo: contiene il capo d’accusa e identifica gli imputati (così come avviene all’inizio di ogni processo). Poi si procede con la deposizione dei testimoni: e infatti, subito dopo il Prologo, viene a deporre il primo testimone, cioè Giovanni Battista. Poi verrà la testimonianza delle opere, infine quella dello Spirito.

Dunque il Prologo riassume l’intero Vangelo e presenta lo stesso ‘spostamento’ dell’imputato: prima sembra essere Gesù, poi la storia contemporanea a Gesù, infine noi lettori; da ultimo abbiamo la sentenza.

Ebbene la sentenza è gia scritta e suona così:

“Dalla sua pienezza

noi tutti abbiamo ricevuto

e grazia su grazia”.

Grazia significa ‘gratis’, cioè senza merito, senza giudizio. Questo processo è un condono! Se la sentenza ci è favorevole possiamo leggere questo capo d’accusa senza troppe angosce.

IL TESTO

I vv. 1-5 ci presentano il primo imputato: Gesù

Il testo presenta due problemi di traduzione molto grossi che, sommati alla nostra struttura moralistica di fede, ne stravolgono la comprensione.

I due problemi sono: “In principio” (v. 1) e “Non l’hanno accolta” (v. 5).

(v. 1) “In principio”

In italiano non abbiamo la possibilità di distinguere questo ‘in principio’ da tutte le altre espressioni analoghe. Qui la parola è la stessa di Gen. 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Gen 1,1 e Gv 1,1 sono gli unici due luoghi della Scrittura in cui viene usata questa parola.

Gv. coscientemente parlando di Gesù ricomincia da capo la storia di tutto l’universo, cioè scrive una nuova Genesi. La parola finale del Vangelo di Gv sarà anche la parola finale dell’Apocalisse: “Maranatha, vieni Signore Gesù” (Ap 22,20). Gv nel suo vangelo riscrive tutta l’intera storia.

Attenzione: “In principio” non sta in Gen 3, cioè nel capitolo che racconta il peccato originale. Questo significa che il punto di partenza è la grazia originale, non il peccato. Il primato, in principio, è quello della salvezza. Non c’è uno stato di peccato da cui, per fortuna, per bravura, per virtù… potremo forse salvarci; c’è invece uno stato di salvezza in cui noi abbiamo esercitato la libertà di errore. La salvezza è la situazione normale, il peccato quella anormale, eccezionale, occasionale. Il lavoro di Dio verso gli uomini e la storia non è: “Vediamo se te lo meriti”, ma esattamente il contrario. L’ordinarietà è l’amore concreto tra Dio e gli uomini.

Un buon paragone sono i regali di Natale. Nel 90% dei casi i genitori hanno già deciso e comprato i regali per i propri figli, tuttavia, fino alla vigilia della festa, ‘rompono’ dicendo: “Se non stai bravo, Gesù bambino non ti porta i regali”. Fino ad una certa età – sempre più precoce – i bambini ci credono e dunque pensano di doversi guadagnare il regalo di Natale. Noi di fronte a Dio siamo nella stessa situazione: pensiamo sempre che il problema sia il nostro peccato e che in qualche modo dobbiamo guadagnarci la salvezza stando buoni. Dio è come i genitori: la salvezza è già stata ‘comprata’, è già stata data.

Dunque Gv usa coscientemente “In principio” per riscrivere Genesi e per affermare che la salvezza è già data; la prima parola da dire su Gesù e sulla sua identità di imputato è: Gesù è la salvezza del Padre o, in termini a noi più comprensibili, “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,16-17).

(v. 1) “era il Verbo…”

Verbo è una parola arcaica che per noi non significa più niente. Corrisponde a ‘parola’.

Per comunicare, con tutte le ricchezze e i limiti che questo comporta, ci sono date due cose: la parola e il corpo. Gesù è la Parola di Dio, cioè la possibilità che Dio si dà di uscire da sé per venirci incontro. Questa Parola si è fatta carne, ha preso un corpo.

Nel dialetto piemontese, quando due sono fidanzati, si dice che “si parlano”; con il matrimonio si dice che si sposano. Non è che smettano di ‘parlarsi’, anzi si spera che continuino a farlo, ma c’è un’altra dimensione.

Dio ha fatto lo stesso: ha parlato per 2000 anni per mezzo dei profeti, poi si è sposato con il suo popolo (= si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo ad esso). Queste parole non sono usate a caso da Gv; è esattamente ciò che succede quando due si sposano. In questa Parola che stava presso Dio c’è la decisione di un matrimonio.

(v. 1) “il Verbo era presso Dio”

In greco l’espressione è: “il Verbo era rivolto a Dio”, la parola di Dio sta su se stessa in un eterna solitudine. Il punto di partenza è un amore infinito che, totalmente rivolto su se stesso, decide di comunicarsi agli uomini e di prendere ‘carne’ e ‘casa’ in mezzo agli uomini. Questo evento è talmente sconvolgente che la storia si divide: avanti Cristo e dopo Cristo. Che un amore rivolto su di sé decida di uscire e di essere un amore rivolto ed incarnato per andare ad abitare tra gli uomini segna la divisione della storia.

Così avviene tra due sposi che dividono la loro vita tra il periodo in cui ognuno abitava a casa propria e il periodo in cui abitano insieme. Il mutamento è decisivo e radicale.

Di Gesù si dice che era la Parola rivolta al Padre: un dialogo interno che in termini teologici si chiama “processione interna delle tre persone della Trinità”.

E’ un’espressione tecnica che dice poco a chi non si occupa di teologia. Significa che Dio parlava con se stesso e che questa radicale pienezza di dialogo prende carne e va ad abitare: è un matrimonio. Tutte le culture del mondo – compreso il diritto Canonico – non definiscono il matrimonio in termini di amore ma in termini di coabitazione e doveri coniugali. Dunque Giovanni sta parlando di un matrimonio: il Verbo prende carne e va ad abitare presso gli uomini.

(v. 1) “e il Verbo era Dio”

Questa Parola è la totale identificazione di Dio. Perché Dio è il Dissimile. Le nostre parole hanno sempre l’impotenza di una distanza tra ciò che diciamo e ciò che siamo. E quanto più vogliamo e cerchiamo di comunicare la profondità di noi stessi, tanto più misuriamo questa distanza; quello che esce dalla nostra bocca non è mai esattamente quello che c’è dentro, per quanto ci sforziamo di essere sinceri.

Invece qui la parola è Dio, perché Dio è dissimile dall’uomo, Dio è l’unico caso in cui la Parola è la totalità di sé, non c’è distanza alcuna tra la comunicazione di sé e ciò che Egli è.

(vv. 2-3) “Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.”

Nei momenti più oscuri e faticosi cerco di attaccarmi disperatamente a questo versetto, perché se prendiamo sul serio il Vangelo, allora niente di tutto ciò che esiste è fuori da questo segno della Parola di Dio pronunciata. Dunque non c’è niente di abbastanza brutto, stupido, colpevole, debole, peccaminoso da stare fuori da questo assoluto principio amoroso.

A volte dentro un amore possono esserci molte cose che danno fastidio ma la cosa che non si può sopportare è il fatto che l’altro abbia un “privato”, cioè che ci siano delle cose dell’altro che stanno fuori dal segno di questo amore; anche le cose fastidiose sono tollerabili se stanno sotto il segno dell’amore. Se l’altro le tiene per sé diventano un peso incredibile. Niente di ciò che esiste – su questo Giovanni è durissimo – niente di ciò che esiste è fuori da questa Parola amorosa che Dio pronuncia sulla storia.

Cirillo d’Alessandria commentando questi versetti dice che Dio fece il mondo pronunciando un’unica parola: Gesù. Pronunciando questa parola il mondo intero è stato fatto e dunque tutto ciò che esiste è segnato da questo amore, perciò tutto è segnato dalla croce: non “crociato”, ma “cruce signato”. Ciò che ci è chiesto è riuscire a vedere come niente di ciò che esiste è fuori da questo amore: non c’è nessuna disperazione, nessun dolore, nessuna fatica, nessun peccato fuori da questo amore.

L’unico problema che noi abbiamo è lasciare che Dio sia Dio, che Dio faccia il suo mestiere. Ogni volta che ci sentiamo troppo peccatori, troppo disperati, troppo stupidi sottraiamo una cosa che non ci appartiene. I nostri peccati non ci appartengono.

(v. 4) “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”

Questo versetto è veramente esplicativo di ciò che sto tentando di dire. Giovanni insiste – noi abbiamo la testa dura.

“In lui era la vita” non significa “le cose religiose o pie della vita”, né la vita eterna, né la vita spirituale. “In lui era la vita” significa le cose della vita tout-court, senza aggettivi.

Purtroppo invece, quando sentiamo la parola “vita” in un contesto religioso, facciamo spesso una lettura moralistica. No. Qui la vita è la sveglia del mattino, lavarsi i denti, prendere il caffè, mandare i figli a scuola, andare a lavorare, preparare pranzo… la vita vuol dire la vita presa nel suo senso più banale, non un’altra cosa.

Qualsiasi esperienza della nostra quotidianità sta sotto questo segno, sotto questa parola amorosa, esattamente come ciò che si vuole condividere quando ci si sposa non è – al di là delle parole che si dicono – gli ideali, il senso dell’esistenza, l’immagine di famiglia aperta che si vuole realizzare… Ciò che si vuole condividere è svegliarsi tutte le mattine con l’altro accanto, fare colazione, pranzare, cenare e guardare la televisione con l’altro… Poi si fanno anche alcune cose molto serie, impegnative, determinanti, alcune scelte. Le cose serie, impegnative, qualificanti, determinanti sono solo uno degli elementi di una vita. Perché altrimenti si può restare fidanzati; ci si può trovare per fare discussioni sulle grandi scelte impegnative e poi tornare a casa propria. La differenza qualitativa tra fidanzamento e matrimonio è esattamente la quotidianità condivisa, la vita.

La nostra fede, il nostro stare in un matrimonio con Dio non si gioca su nient’altro che non sia la nostra vita, la nostra semplice vita. Solo la nostra vita è il luogo che può essere la nostra luce o no. Ciò che Gesù è, ciò che lui si propone è di essere la nostra vita, di tenere sotto il suo sguardo, sotto la sua parola tutta la nostra esistenza e di farne una luce.

Questo “imputato” ci chiede una vita contenta. Star contenti è l’unica occupazione dei credenti, non hanno altro da fare nell’esistenza. Le altre cose – andare in parrocchia, comportarsi bene… – se ci aiutano a star contenti, vanno benissimo. Certamente si diverte di più e sta meglio con gli altri uno che tratta bene la gente, mentre uno che piglia tutti a cazzotti vive senza amici, pieno di rimorsi, infelice…

(v. 5) “La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta.”

Qui c’è il secondo problema di traduzione e deriva dal fatto che la versione italiana ufficiale è tratta dalla “Vulgata” di san Gerolamo (testo latino). Gerolamo ha tradotto la scrittura nel V secolo dall’ebraico e dal greco in latino, compiendo un’opera meritoria in un’epoca in cui nessuno più conosceva il greco e l’ebraico. Ma anche lui conosceva male queste lingue, dunque la sua traduzione, soprattutto ai nostri occhi di moderni che ne sappiamo molto più di Gerolamo, è molto rozza, ma è la traduzione che ha fatto tradizione nella Chiesa. Così le traduzioni moderne sono tratte dalla Vulgata, che è la traduzione latina di un testo greco.

In greco il testo non recita “le tenebre non l’hanno accolta”, ma il contrario, cioè “le tenebre non hanno presa su di lei”. Gerolamo invece compie una lettura moralista. Il testo greco dice che le tenebre non possono ‘acchiappare’ la luce. La definizione finale di questo imputato Gesù è che egli è la luce, la gioia, la bellezza, la vitalità – tutto ciò che l’immagine della luce ci dice – su cui le tenebre non hanno potere. Le tenebre non ce la faranno. Ora, può pure accaderecome, come dicono i vangeli in altri passi, che ogni tanto la luce sia un lucignolo fumigante e appena appena un filo visibile, ma le tenebre non hanno presa su questa luce. La luce sfugge alla presa delle tenebre.

Questa è la descrizione anagrafica del primo imputato. La Parola è luce e su di essa le tenebre non hanno presa alcuna. poi si passa al secondo imputato, la storia.

(v. 6) “Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni”

In principio era la Parola, la Parola era rivolta su Dio – questa è l’eternità – poi venne un uomo mandato da Dio, con un nome. Qui si potrebbe dire “venne un uomo”, “venne una donna”, “venne un ragazzo”, “venne un anziano” mandato da Dio e il suo nome era…

E’ la “chiamata a correo”, cioè veniamo chiamati in causa, si entra nella storia. Questa Parola rivolta da sempre su Dio si rivolge all’esterno. Dunque tutti coloro che hanno un nome sono chiamati a dar conto del fatto che sono mandati da Dio. Ognuno di noi sta in questo versetto.

(v. 7) “Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”

Ciò che c’è da fare è essere testimoni della contentezza, della luce, dell’allegria, della festa. Perché? Perché tutti possano credere per mezzo di questa festa. Questo – non il panettone, né altre motivazioni simili – è l’unico motivo per cui i cristiani festeggiano il Natale: la festa è l’unico modo in cui si può credere, non c’è altro modo. Roland Barthes, definendo l’amore dice: “Non significa dunque niente per voi essere la festa di qualcuno?”. Questa è secondo me una delle più belle definizioni di amore. Questo è l’unico buon motivo per credere: perché Qualcuno vuol essere festa per noi, e per essere la festa di qualcun altro.

(v. 8) “Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce”

Altro versetto consolante. Non siamo noi l’origine della festa, e non abbiamo potere di spegnere questa luce. Non basterà la nostra imbecillità a spegnere la festa. “In principio” c’è questa Parola di festa. Sia chiaro: noi non siamo la luce, ma dobbiamo far festa intorno a questa luce, questo sì. E possiamo star tranquilli perché la luce ha una caparra di eternità che noi non abbiamo, ha una caparra di onnipotenza, un principio che noi non abbiamo.

(v. 9) “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo

Giovanni ha molta paura della nostra testardaggine, ha paura che noi non capiamo. Dunque chiarisce sempre molto bene e dice che la luce vera, quella che è per tutti, quella che illumina ogni uomo veniva nel mondo. Giovanni – tutti gli uomini, donne, adulti, ragazzi… – non sono la luce, non hanno potere su di lei, non salveranno il mondo né lo perderanno. Ma possono divertirsi e far divertire, oppure no. Il nostro grande problema, il nostro unico dovere etico è non rovinarci la vita, perché il mondo è già salvato, e non compete a noi salvarlo, perché noi non siamo la luce.

(v. 10) “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe”

Qui c’è la grande riflessione sul mondo tipica del vangelo di Giovanni. Il mondo fu fatto per mezzo di lui, nulla è fuori da questa Parola, ma contemporaneamente si dice che “il mondo non lo riconobbe”. Noi sottovalutiamo sempre queste parole. Giovanni non dice “il mondo non lo conobbe” ma “il mondo non lo ri-conobbe”. Il nostro problema è perennemente “ri-conoscere”, non “conoscere”. Conoscere è un problema solo rispetto alla scienza, alla conoscenza, all’astrazione, alle idee. Rispetto alle dinamiche della vita il nostro problema è sempre “ri-conoscere”. Gli amori non si conoscono, si ri-conoscono. Così la fede.

Riconoscere vuol dire una cosa fondamentale: riconosco solo ciò che ho già conosciuto, ciò che già mi appartiene. Riconosco un amore perché so come funziona il mio amore per un altro, altrimenti non lo riconoscerei. Riconosco un amore perché sono stato un figlio amato. Infatti se sono stato un figlio non tanto amato ho dei grandi problemi a riconoscere un amore. Ciò che accade al mondo non è di non conoscere la luce, ma di non riconoscerla. Noi abbiamo sempre l’impressione che credere o non credere, essere cristiani seri o non seri, impegnati o non impegnati passi attraverso il fare delle cose o non farle, obbedire ad alcune leggi oppure non farlo, assumersi degli impegni oppure no, testimoniare o non testimoniare…

Il problema dei cristiani è riconoscere che “in principio” è la grazia originale, cioè riconoscere che siamo fatti per essere contenti e che sotto questo segno abbiamo da stare. nello stesso tempo c’è poco al mondo che ci faccia più paura che stare sotto il segno di un amore. Stare sotto lo sguardo di uno che ci ama è una delle cose più difficili al mondo. E starci fermi, poi, non se ne parla! Se uno può stare sotto lo sguardo di un amore con l’impressione di poter fare qualcosa per l’altro, si adatta anche, ma stare fermi, starci gratis, come un imbecille… è un’esperienza spaventosa, perché ci mette in una condizione di dipendenza, di no poterne più fare a meno, e questo ci terrorizza.

Rispetto a Dio questa esperienza si chiama “creaturalità”. Poiché noi siamo creature siamo chiamati a stare fermi sotto lo sguardo di Dio e non possiamo farne a meno. Questa è la cosa su cui non riusciamo a “riconoscere”. Facciamo una fatica enorme a riconoscere che abbiamo bisogno di questo amore per vivere. Esattamente come in tutti gli amori. Perché ci pare che, se l’altro se ne va, io rischio di morire. In un amore uno dopo un po’ si mette tranquillo, perché è un rapporto biunivoco, ad un certo punto anch’io divento indispensabile per l’altro. Applicando questo concetto a Dio, invece, salta tutto: non posso pensare che Dio abbia bisogno di me…

E dunque ci terrorizza l’idea che Dio un giorno abbassi la mano e ci lasci cadere, e di questo moriremmo. E’ per questo che tutta la scrittura ci ripete una cosa sola di Dio: che è fedele.

(v. 11) “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”

È l’unica parola dura di tutto il Prologo.

‘La sua gente’ non sono gli Ebrei, ma tutti: questo versetto non è la radice di tutti gli antisemitismi. Se ‘tutto è stato fatto per mezzo di lui’, tutti sono ‘la sua gente’, il suo possesso.

‘Ma i suoi non l’hanno accolto’: questo può accadere, perché tutti gli amori possono essere rifiutati; infatti nessuna seduzione è sufficiente per estorcere un amore. Neppure Dio estorce un amore. L’unica cosa che può fare è proclamare la propria fedeltà: ‘Non importa se tu non mi ami. Io ti amerò per sempre, fino a morire in croce’.

Subito dopo questa parola dura, c’è la grande sentenza sulla storia.

(vv. 12-13) “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

La conclusione di questa presentazione della storia è una parola dura perché la storia è una cosa seria; la ‘drammaticità’ dell’unica vita che abbiamo è una faccenda da non prendere sotto tono. Non abbiamo un’altra vita, lo sappiamo. Ma su questa drammaticità ci viene detto che chi accetta un amore trova una festa.

“Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo”, cioè non perché erano bravi, belli e santi, ma perché da Dio sono stati generati. La generazione a figli di Dio non ci compete, semplicemente ci è data, è il sovrappiù di un amore. È ciò che non osavamo desiderare.

Cfr 2 Cor 5,21 “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò come peccato in nostro favore perché noi potessimo diventare, per mezzo di lui, giustizia di Dio”. ‘Dio lo trattò come peccato’ non perché noi fossimo giustificati per mezzo di lui (era già una gran cosa), né perché potessimo diventare giusti (quello che ci piacerebbe), ma perché noi diventassimo giustizia di Dio: la Scrittura ci dice che essa è infinita e che il suo volto è la misericordia. Perciò a coloro che accolgono il suo amore Dio dà il potere di diventare infinita misericordia, di avere un cuore a misura di Dio. Questo è esattamente il contrario del peccato originale: non si diventa simili a Dio mangiando del frutto dell’albero, ma perché la Parola che era senza peccato e che era presso il Padre, rivolta su di noi e accolta, ci dà il potere di diventare infinita misericordia. Questo non ci fa né più giusti o giustificati: restiamo dei ‘poveretti’, ma con un cuore a misura di Dio, capaci di una festa infinita.

Una volta presentati i due personaggi, al v. seguente viene enunciato il capo d’accusa.

(v. 14) “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”

Il capo d’accusa è: questo matrimonio è avvenuto e noi l’abbiamo visto.

Gloria è, in tutto l’AT, la manifestazione visibile del Dio invisibile. Il termine ebraico è “shekinah” che si può tradurre anche come ‘nuvola’ o ‘corpo’. Naturalmente nell’AT, quando è riferito a Dio, non viene mai tradotto con ‘corpo’, perché Dio non ha un corpo, ma con ‘nuvola’ (cfr. Esodo).

Erri De Luca in Una nuvola come tappeto, racconta che Dio faceva marciare una colonna di fumo davanti al popolo per guidarlo, dietro per nasconderlo quando era inseguito; in mezzo al deserto stendeva una nuvola come un tappeto per fare ombra al popolo, come una presenza amorosa.

Un altro termine, “sheakh”, appartenente allo stesso gruppo semantico, ma riferito all’uomo, viene invece tradotto con ‘corpo’ o ‘viso’ (cfr. Cantico dei Cantici): è la fattezza dell’amato.

Gv usa il termine greco “doxa” per entrambi, in riferimento sia a Dio, sia all’umanità, il volto/corpo dell’amato.

“Noi vedemmo la sua gloria (= doxa)”: è la presenza dell’invisibile Dio, ma anche il suo volto amato, il corpo del principe che viene a prendere la regina in ori di Ofir (Cfr Sal 45).

Cfr il prologo della 1 Gv 1,1-5, che è dello stesso autore del quarto vangelo.

“Ciò che rea fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”.

È come se l’evangelista dicesse: è la festa, vieni! È la festa del volto amato e amante.

(v. 15) “Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me»”

Il capo d’accusa è questo matrimonio eterno principio, origine di tutto. Questo amore preparato da sempre è qui. Poi segue la sentenza.

(vv. 16-17) “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”

‘Dalla sua pienezza’, non dalla nostra capacità di essere bravi cristiani impegnati, noi tutti abbiamo ricevuto grazia sovrabbondante, festa su festa, gioia gratis.

La legge, cioè precetti, doveri, insegnamenti… vengono da Mosé, l’amore, la festa da Gesù Cristo.

(v. 18) “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”

Rivelare: non va inteso tanto nel senso di rivelare un segreto, cioè spiegare, ma nel senso di ri-velare, cioè velare due volte. Il Dio invisibile si nasconde in un corpo d’uomo, tanto che si potrà dire “Non è costui il figlio di Giuseppe, il falegname?”. Pastori e Magi fanno gesti di adorazione, ma sono poveri e stranieri sognatori (cioè quelli che noi definiremmo poco realisti perché passano la vita a sognare). Ebbene quelli che sono poco realisti e poveri diavoli adorano, gli altri dicono: “Che può uscire di buono da Nazareth?”.

Questo amore, come tutti gli amori, si rivela nascondendosi. Il meccanismo base della seduzione è mostrarsi e nascondersi. Così funziona anche l’amore di Dio: il Figlio ha rivelato il Padre che nessuno aveva mai visto e lo ha nascosto due volte in carne d’uomo, nella storia dell’umanità, l’invisibile Padre. C’è un sottile gioco seduttorio da fare: stanare questo amore dentro le cose per farsi stanare da questo amore.

Questa è la sentenza definitiva, l’ultima parola sulla storia.

Questo è il Natale, la fecondità di una vita, una festa.

Conclusione

Is 62, 6b-7

“Voi, che rammentate le promesse al Signore, non prendetevi mai riposo e neppure a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e finché non l’abbia resa il vanto della terra”.

L’unica cosa da fare è ricordare a Dio che ha parlato così come dice il Prologo di Gv, non prendersi mai riposo in questa memoria e non dare a Dio riposo in questa memoria. Dio ha promesso una fedeltà, se la lascerà cadere noi moriremo. Si ricordi dunque di avere scelto e promesso di abitare in mezzo a noi, finché tutta la storia non sia restituita al Padre per essere a lui rivolta. Questa è l’opera da fare nella storia. Questo è l’augurio di Natale.

Fossano, 13 dicembre 1992

Testo non rivisto dal relatore

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DataTitoloCommento a:
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2. Cristo Re
Lc 23, 35-46
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4 Ottobre 1992
Stella Morra
1. Introduzione
Gv 4, 1-42
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