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31 Marzo 2012
Stella Morra

6. Noi e gli altri

Commento a: At 11, 1-19


Premessa

Il percorso su cui stiamo ragionando ha per titolo Alla ricerca di un corpo per la parola Cristiani, Chiesa, Mondo. È importante richiamarlo oggi perché è in stretta connessione con il tema della memoria e dell’identità affrontato con la prima lectio sul brano di Giosuè 24,1-28.

Il punto di partenza su cui abbiamo ragionato è che normalmente una comunità si dà insieme un’esperienza di memoria condivisa su cui costituisce una identità, cioè che progressivamente si articola in un modo di capir se stessi, il mondo, il rapporto con il mondo, ma questa esperienza rispetto alla Chiesa è solo un punto di partenza, è l’esperienza antropologica, delle comunità umane, del modo in cui gli umani si trovano insieme. Rispetto alla Chiesa non può essere solo un’esperienza di memoria ed identità, perché l’esito certo è quello del fondamentalismo, dove tutto diventa funzionale a difendere la propria identità. Questo assume molte forme; il fondamentalismo più estremo a tutti noi fa venire la pelle d’oca, ma poi ci sono molte forme sfumate: ad esempio spesso oggi si sente dire che va bene dialogare e ascoltare il mondo però ci sono anche i nostri valori, dobbiamo anche aver chiaro quello in cui crediamo, ad esempio difendere il valore della vita. Tutte queste forme intermedie di fondamentalismo sono legittime ma riducono l’esperienza ecclesiale ad un’unica dimensione che è quella umana di comunità che è quella del rapporto tra la memoria condivisa e l’identità condivisa. Ognuno di noi ha fatto l’esperienza che in certi anni della sua vita ha partecipato ad esperienze ecclesiali, i campi di Acceglio o i gruppi in parrocchia, questo è uno dei motivi per cui è rimasto legato a certi mondi, anche se non è più quella l’esperienza. Come dicevamo se questa è l’unica componente, l’unica cosa che abbiamo da dire, non si tratta di una chiesa, ma di un’esperienza di comunità umana.

Il secondo punto era il tema del sacrificio (il testo di Esodo). L’altra fondazione dell’esperienza ecclesiale è esattamente il contrario dell’identità, è l’esperienza del sacrificio, dell’agnello sgozzato, dei primogeniti salvati, figura del sacrificio di Cristo. L’esperienza ecclesiale è contemporaneamente costruita sulla tensione, un’identità condivisa ma anche la caduta della propria identità. Il sacrificio della propria identità dice che l’identità non è più importante dell’esperienza dell’incontro con Dio, se questo non c’è, non c’è una Chiesa. Al centro dell’esperienza ecclesiale c’è l’Eucarestia, la memoria del fatto che Dio stesso lascia cadere la sua identità, memoria della passione e morte di Gesù. Dio stesso non si afferma nelle nostre vite battendo un pugno e dicendo “eccomi!”, ma nascondendo il mistero nel corpo di Cristo, nascondendo il corpo di Cristo in un pane, che è nascosto in un ostia che non è nemmeno pane. Guardate che gioco di identità cadute: il mistero di Dio, che sarebbe l’unico che avrebbe il diritto di dire la propria identità – io sono Dio e quindi sono la verità -, viene nascosto nel corpo di Cristo, il quale viene nascosto nel pane – prendete e mangiatene tutti questo è il mio corpo -, e questo pane nel medioevo viene nascosto in un ostia che non assomiglia nemmeno più all’identità del pane. C’è la consegna dell’identità nel sacrificio.

I primi cristiani avevano capito bene questa cosa per cui dicevano che difendevano la vita, la vita è un valore importantissimo, infatti essi non esponevano i bambini malati, ma li facevano crescere, ma potevano perdere la vita per Dio, infatti i martiri non consideravano nemmeno la vita, che è l’identità primaria per poter dire io esisto, più importante.

Il rapporto tra identità e sacrificio è il gioco tipico dell’esperienza della Chiesa. In tutte le forme storiche o si esagera da una parte o si esagera dall’altra. In genere si esagera sull’identità, perché il sacrificio è tosto, quindi spesso lo accettiamo solo se ce lo impongono, come nelle persecuzioni.

Nel corso della storia questa tensione è difficile da mantenere in equilibrio, così avviene anche nel corso delle nostre storie individuali, delle nostre appartenenze. Faccio un esempio: a volte ci sentiamo cristiani impegnati perché facciamo catechismo, l’oratorio, poi ci sentiamo dei cristiani svuotati per questo, allora passiamo le fasi in cui ci sentiamo disimpegnati ma dobbiamo coltivare secondo noi il nostro rapporto con Dio e non riusciamo a tenere in equilibrio il sacrificio della nostra identità e l’identità in un modo che vadano avanti più o meno insieme. È normale, perché di aver due nature – vero uomo e vero Dio – è riuscito bene solo a Gesù Cristo, a tutti quegli altri no, però dobbiamo essere avvertiti su ciò.

Terzo passaggio, il testo di Corinzi sulla Profezia e sulla Parola: come si fa a tenere questa tensione? C’è un solo modo in cui la Chiesa può garantirsi un po’ di non sbagliare troppo in questa tensione ed è la circolazione di parole che edificano, la Parola di Dio e le parole tra noi. La chiesa è un luogo di parola: Parola di Dio e parole scambiate. Parole possibilmente vere. Uno dei problemi per cui le nostre chiese sono così affaticate è che il novanta per cento delle parole che diciamo nelle nostre comunità ecclesiale sono parole finte; non perché mentiamo, perché in genere sono parole sincere, ma non vere. Le cose importanti le parliamo da un’altra parte. Il mio professore Salmann lo definiva il sistema della bugia pia: io dico cosa penso che tu pensi che sia giusto che io dica. La conclusione in genere è che dovremmo pregare di più. Cioè a cosa serve questa parola?

L’ultima volta invece abbiamo visto il capitolo 6 degli Atti, la nomina dei diaconi e il martirio di Stefano: il modo per regolare questo equilibrio tra identità e sacrificio da una parte è la parola di Dio e quella scambiata, dall’altra c’è la necessità di una struttura. Abbiamo ragionato come questa struttura nasce come una struttura di servizio ma sotto un segno di grande ambiguità, per cui a fianco della struttura immediatamente c’è il martirio. Si dice cioè: poiché gli apostoli devono servire la parola di Dio, costui è stato nominato diacono per servire le mense, ma poi cosa fa? Predica, cioè serve la parola di Dio, cioè non fa quello che doveva. Quindi anche la struttura non è l’elemento decisivo.

La prossima, con il testo di Giovanni 17, e in particolar modo l’ultima lectio, con il testo di Luca 24, vedremo qual è l’elemento decisivo.

Oggi però abbiamo ancora un altro elemento che riguarda il come, come si va avanti nel concreto? È il corrispettivo alla visione dell’identità proprio perché il rischio maggiore non è esagerare nei sacrifici, ma esagerare nell’identità. Negli Atti degli apostoli ci viene detto che lì c’è un problema: fare attenzione, non fare dell’identità un’idolatria, e ci viene detto che ciò avviene attraverso il confronto con gli altri, quelli che non sono noi, che non hanno la stessa identità. Il testo di oggi è il capitolo 11 degli Atti. In questo periodo della Pasqua forse si può leggere tutto il racconto a partire dal capitolo 9, ma qui ne leggiamo solo la conclusione in cui Pietro racconta quello che è accaduto (ma nei capp. precedenti si racconta come è accaduto). È accaduto che Pietro, entrato nella casa di Cornelio, un pagano, e riconoscendo che lo Spirito era già sceso su di loro, li ha battezzati, benché fossero pagani. Due capitoli dopo quando Paolo gli dice “allora battezziamo senza circoncidere” Pietro dice no! Poi ci sono queste meravigliose decisioni del Concilio di Gerusalemme in base alle quali si afferma “non circoncidiamo, però chi è battezzato non mangi carne di maiale”… C’è tutta una serie di cose che dopo essere state promulgate nel 52 dopo Cristo sono state immediatamente dimenticate e infatti per noi non hanno nessun valore. Paolo e Pietro fanno l’operazione di battezzare senza circoncidere, ovvero senza passare per l’identità ebraica, ma Pietro dice che occorre dare delle regole di base da rispettare; alla fine Paolo accetta; insieme fanno l’elenchino delle cose da rispettare, ma oggi non ne rispettiamo più neppure mezza!

Come al solito leggendolo facciamo attenzione alle parole, non è mai casuale la loro collocazione nel testo.

Il testo – At 11,1-19

1Gli apostoli e i fratelli che stavano nella Giudea vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la parola di Dio. 2E quando Pietro salì a Gerusalemme, i circoncisi lo rimproveravano dicendo: 3«Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!».

I primi due versetti sono complicati, perché, da una parte si dice che anche i pagani hanno accolto la parola di Dio, ma non che sono stati battezzati o che sono stati ammessi nella comunità; cioè non c’è un riconoscimento istituzionale. A Pietro non si rimprovera di aver predicato ai pagani, ma di essere entrato in casa di uomini non circoncisi e di aver mangiato con loro, violando una delle prescrizioni fondamentali dell’ebraismo che era quella di non mescolarsi con i pagani. Il ragionamento è contorto, l’ebraismo ha tutta una normativa costruita per non mescolarsi con gli altri; tutte le religioni che hanno come norme delle prescrizioni alimentari sono fatte apposta per impedire che nel quotidiano la gente si mescoli. L’identità ebraica è molto centrata sull’avere una identità distinta che non si mescoli con gli altri. Di questo rimproverano Pietro. Questo è il modello tipico del ragionamento contorto che facciamo anche noi, quando ad esempio si perde di vista che l’ascolto della parola di Dio è “la” questione: l’Evangelo è la buona notizia sulla vita e chiunque ascolta questa buona notizia e fa fiorire la propria vita ben venga.

4Allora Pietro raccontò per ordine come erano andate le cose, dicendo: 5«Io mi trovavo in preghiera nella città di Giaffa e vidi in estasi una visione: un oggetto, simile a una grande tovaglia, scendeva come calato dal cielo per i quattro capi e giunse fino a me. 6Fissandolo con attenzione, vidi in esso quadrupedi, fiere e rettili della terra e uccelli del cielo. 7E sentii una voce che mi diceva: Pietro, àlzati, uccidi e mangia! 8Risposi: Non sia mai, Signore, poiché nulla di profano e di immondo è entrato mai nella mia bocca. 9Ribattè nuovamente la voce dal cielo: Quello che Dio ha purificato, tu non considerarlo profano. 10Questo avvenne per tre volte e poi tutto fu risollevato di nuovo nel cielo.

Ancora una volta ciò che fa la differenza è il racconto, è una parola: Pietro non si giustifica, non si mette a spiegare, ma racconta. Sto pensando tantissimo che oggi una delle nostre esperienze peggiori, anche da un punto di vista culturale, sia quest’assenza di parole scambiate, parole che abbiano un qualche significato; non abbiamo niente di mezzo tra il biografico-esistenziale (se qualcuno ci dice che sta malissimo, mi mette addosso quello che è ed io posso solo ascoltare) e i discorsi tipo “dovremmo tutti pregare di più”. Peccato che la vita degli adulti è esattamente quello che sta in mezzo, cioè la capacità di trasformare la propria esperienza biografica in una parola pensata, scambiabile e che sia l’apertura ad un dialogo reale, che sia la possibilità per il mio interlocutore di dire qualcosa che non mi ferisca, ma che mi sposti e che mi permetta di vedere la cosa sotto un altro punto di vista, di fare un passo avanti. Per esempio, l’esperienza di fede ci serve solo più nei casi limite: quando cioè non si sa più cosa dire due parole sul Paradiso non fanno male a nessuno, se hai la faccia tosta di dirle. Sul caso limite abbiamo delle parole, più o meno di circostanza, ma sulla vita ordinaria, sulle giornate una dopo l’altra, su come vanno le cose, sul silenzio costruito sulle frasi dette, facciamo fatica a trovare delle parole.

Abbiamo mitizzato il silenzio, quello dei monaci per capirci, ma non siamo capaci di scambiare una parola: non ci può essere un silenzio significativo se non c’è una parola significativa.

Pietro racconta perché di fronte a questi che lo rimproverano l’unica modalità è di fare circolare l’esperienza che lui ha fatto, non come un’esperienza viscerale, ma come la sua lettura teologica dell’esperienza, e in questo Pietro è veramente custode della fede.

Pietro legge teologicamente ciò che è accaduto e lo ripropone alla comunità. Gli elementi che dice sono tre: “mi trovavo in preghiera… e vidi in estasi una visione .

Sulla preghiera no, ma su estasi e visione abbiamo immediatamente i peli dritti: ci sembrano cose strampalate, ci viene una lettura ottocentesca di questi termini, che sono legati al meraviglioso, delle madonne che appaiono per dire “convertitevi”, queste cose le sappiamo già, non è una grande notizia.

Stiamo al testo di Atti: la parola “estasi” viene dal greco e vuol dire “uscire di sé” ed è bellissima, dunque lasciamo perdere l’immagine romantica dell’ottocento.

Uscire fuori di sé, guardare sé con una distanza, guardare sé da un altro luogo. Un cristiano dovrebbe vivere permanentemente in estasi. San Tommaso diceva che siccome il nostro obbiettivo è la visio beatifica, più uno ce la fa a campare in estasi e più uno è già in Paradiso. Questo linguaggio ci fa impressione, ma sappiamo benissimo cosa vuol dire. Più noi siamo incollati su noi stessi più stiamo male e ci avviluppiamo in decisioni in genere sbagliate. Invece se riusciamo nella difficoltà a fare un passino indietro, ad avere un briciolo di distanza, a vedere le cose da fuori, riprendiamo il bandolo della matassa. Abbiamo bisogno di una distanza da noi stessi se no collassiamo. L’estasi è questa distanza, assumere il punto di vista di Dio, per questo la Chiesa ci offre in tutte le liturgie la parola di Dio, cioè il punto di vista di Dio. Non bisogna fare strane meditazioni, la parola di Dio è quello che facciamo in questa esperienza di lectio: leggere i testi e vedere come si vedono le cose dal punto di vista di Dio e improvvisamente ognuno di noi ha un elemento in più, qualcosa che non aveva pensato da solo, ha una prospettiva di lavoro possibile. Pietro è in preghiera, appunto l’estasi e non un’attività devozionale, cioè è di fronte a Dio cercando di assumere il punto di vista di Dio. Noi diciamo che la preghiera è ascolto di Dio che parla, come se fosse scontato, ma di cosa stiamo parlando? Dio non manda sms, non manda mail, non telefona… cosa vuol dire che Dio parla?

Non possiamo aspettarci che parli come se uno improvvisamente sentisse dentro di sé le voci, perché non sta bene uno che sente le voci dentro di sé. Dio parla se io mi alleno, faccio esercizio a riconoscere nella parola di Dio un punto di vista esterno a me, che mi relativizza, che mette in gioco il mio possesso. Per questo motivo i discepoli si incavolano se i pagani hanno ascoltato la parola di Dio, perché ascoltare la parola di Dio mette in gioco il loro possesso.

In estasi ha una visione. Mi sono sempre chiesta perché nell’Antico Testamento ci sono visioni ogni due per tre, poi si diradano un po’, infine dopo gli Atti degli apostoli praticamente spariscono, poi ricompaiono nella storia della Chiesa concentrate nei periodi di crisi, quando la Chiesa va a catafascio, c’è una grande immoralità, quando la peste nera devasta la terra… anche oggi si rimoltiplicano la visioni. Cosa vuol dire?

Noi non sappiamo che cosa è accaduto, noi non sappiamo se Pietro ci sta narrando un’esperienza interiore, un’esperienza psichica…, non aveva nemmeno queste categorie che sono del nostro secolo, non si è fatto la domanda – gli antichi non avevano la domanda se era la psiche o la nevrosi -, ma quello che Pietro ci dice è che in qualche modo Dio ha parlato. Quando Pietro dice visione è come dire che oggi in politica serve un po’ di visione, bisognerebbe che qualcuno ce la facesse a non stare lì incollato solo a contare quanti punti di spread ci sono e darci un po’ di orizzonte in cui tutti potessimo un po’ ritrovarci.

In preghiera un passo indietro per scollarsi da se stessi è vedere che cosa Dio dice. Oggi abbiamo altri percorsi con cui avere visioni, perché siamo più diffidenti, abbiamo sempre il dubbio che siano proiezioni, però non siamo esentati dalle visioni, e Dio non smette di parlare, usa altri generi letterari. Giovani XXIII diceva durante il Vaticano II di imparare a leggere i segni dei tempi, diceva che per noi moderni la questione della visione passa per la storia e per le sue interpretazioni, per rendersi conto di ciò che accade.

Qual è la visione che ha Pietro?

Vede una grande tovaglia che scende piena di animali di tutti i tipi, gli viene detto uccidi e mangia, lui dice no, io non ho mai mangiato niente di impuro, e la voce gli dice “cosa Dio ha purificato tu non chiamarlo profano” e la cosa carina è che poi non mangia. La questione non era che mangiasse, ma che si rendesse conto che il soggetto, quello che fa la differenza è Dio, ciò che Dio ha purificato… che assumesse il punto di vista di Dio ovvero che non c’è niente di impuro.

11Ed ecco, in quell’istante, tre uomini giunsero alla casa dove eravamo, mandati da Cesarea a cercarmi. 12Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare. Vennero con me anche questi sei fratelli ed entrammo in casa di quell’uomo. 13Egli ci raccontò che aveva visto un angelo presentarsi in casa sua e dirgli: Manda a Giaffa e fa’ venire Simone detto anche Pietro; 14egli ti dirà parole per mezzo delle quali sarai salvato tu e tutta la tua famiglia. 15Avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo scese su di loro, come in principio era sceso su di noi. 16Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo. 17Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?».

18All’udir questo si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!».

La lettura liturgica si ferma qui. Il versetto che segue però dice così:

19 Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei.

Per la serie: va bene che Pietro ha avuto la visione però non ci allarghiamo.

La voce dice alla casa di Cornelio che vadano a chiamare questo Simone detto Pietro perché lui dirà delle cose. Perché non le dice le voce direttamente? Perché bisogna fare tutto questo giro? Per dirla in modo moderno: la questione del rapporto con Dio è personale, non individuale, il rapporto che Dio ha con me è il criterio, ma non mi arriva tra me e me, deve esserci un altro che me lo dica. Deve esserci la circolazione di parole scambiate, deve venire Pietro creando un problema a se stesso, perché entra dai pagani e mangia con loro, facendosi rimproverare da quegli altri, dicendo le cose a loro, vedendo e riconoscendo che lo Spirito Santo scende su di loro prima… pensate che caos di circolazione di parole crea questa roba. In termini di economia era più semplice che questa voce apparisse, gli desse lo Spirito Santo, ma questa operazione mette in circolazione tutti, compresi i Giudei che rimproverano Pietro. C’è una stratificazione di narrazioni, di parole scambiate.

È commovente la fiducia piena che abbiamo nel catechismo: se uno fa il programma bene, il gioco è fatto e orrore se uno fa la cresima o la comunione senza i due anni di catechismo. Come se tutta la circolazione di parole fosse semplicemente unidirezionale e avvenisse solo una volta. Io ti spiego tu ascolti, poi se sono molto democratico parli ogni tanto anche tu, ma il percorso è fatto e se non hai fatto tutto non sei preparato. Invece qui quale disordine c’è: la circolazione di parola è a mille livelli, un gesto concreto mette in movimento cento racconti, alcuni sensati, alcuni giusti, alcuni sbagliati. Tutte le cose vere della vita funzionano così: non le acquisiamo mai perché ce le hanno spiegate una volta, ma semplicemente perché in mille modi ci sono tornate addosso in continuazione e noi le abbiamo rimesse in circolazione.

Qui c’è la cosa carina su cui i liturgisti si distruggono perché c’è tutto il dibattito sulla cresima e sul battesimo, prima, dopo… Perché ci sono due casi in cui lo Spirito Santo si dà prima di qualsiasi catechesi, e sono a Pentecoste sugli apostoli, ma si dice sempre che loro come catechista avevano avuto Gesù, ma anche nell’episodio di Cornelio, questi non sapevano nulla non erano per niente preparati, e Pietro dice:

15Avevo appena cominciato a parlare quando lo Spirito Santo scese su di loro, come in principio era sceso su di noi. 16Mi ricordai allora di quella parola del Signore che diceva: Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo. 17Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?».

Solo pochi giorni fa ho ancora sentito dire “nel Vangelo è scritto chi non è con noi è contro di noi”. Invece no nel Vangelo c’è scritto: chi non è contro di noi è con noi… non è la stessa cosa! Chi esplicitamente non è contro di noi è con noi. Qui è la stessa questione: non sono gli altri che mi danno ragione o gli altri che accettano la mia identità, sono gli altri che sono gli altri, che se sono contenti rispetto alla parola di Dio come me va bene, senza condizioni. Nel Vangelo c’è scritto che peccatori e prostitute ci precederanno nei regno dei cieli, non c’è scritto “a condizione che si pentano”. In fondo noi tentiamo sempre di normalizzare in termini di identità; la negazione del possesso, la centralità della parola di Dio scambiata tra di noi, fa sì che chi non è contro di noi è con noi.

«Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!».

Questa cosa però non passa placida a livello di Chiesa…

La conclusione del capitolo da questo punto di vista è esemplare, dice che c’è una grande carestia a Gerusalemme e che i discepoli stabiliscono di mandare un soccorso ai fratelli che abitano in Giudea. Cioè si conclude dicendo che costoro, che si tengono un po’ sulle loro, che non si adeguano, cosa fanno? Esercitano carità. Non si adeguano a battezzare tutti, gli fa troppa impressione, ma la cosa qualificante è che se i fratelli nella Giudea sono nel bisogno li soccorrono. Il resto poi si aggiusta, ci saranno varie discussioni, il Concilio di Gerusalemme, ma quello che mette tutto in quadro è l’esercizio della carità.

Fossano, 31 Marzo 2012

(testo non rivisto dal relatore)

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