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11 Gennaio 2014
Stella Morra

4. Un non-uomo

Commento a: Is 53, 1-12


Premessa

Riprendiamo la nostra riflessione su cosa significhi guardare il mondo dai confini, da un’altra prospettiva, un tema non semplice con cui mi sto confrontando anche io personalmente.

Siamo partiti dal racconto dell’incontro tra il profeta Natan e Davide, in cui l’uomo povero viene privato della sua unica pecora, per provare a capire cosa significhi “avere un altro sguardo” e darne una definizione. Nel secondo incontro abbiamo letto il racconto della torre di Babele che, a quanto ho potuto sentire da alcuni di voi, ha lasciato molti interrogativi aperti, non essendo stato analizzato in chiave esclusivamente moralistica e negativa. La volta scorsa invece, partendo dall’episodio del crollo delle mura di Gerico, abbiamo affrontato il tema del combattimento, o meglio di come si può combattere partendo dai confini, del fatto che partire dai confini non implica necessariamente una posizione di passività o di rinuncia a un qualche potere, considerato che normalmente il potere abita al centro.

Con il testo di oggi chiudiamo la parte propedeutica al nostro ciclo di lectio, ovvero quella più descrittiva, fenomenologica, in cui attraverso i testi dell’AT proviamo a ragionare su come funziona la questione di cui ci occupiamo, come “si smonta”, quali sono le sue componenti. Passeremo poi, come sempre, ai testi del NT per leggere la stessa questione attraverso la novità evangelica, per cogliere qualcosa che ci sposta in una prospettiva più ampia e ricca di significati.

Il testo di oggi costituisce l’altra faccia della medaglia di quello della volta scorsa, perché parla di debolezza e sconfitta e del prezzo che si paga per abitare ai confini. È chiaro che il costo non è basso e in effetti gli esseri umani preferiscono il centro e il potere. Noi tendiamo ad avere un atteggiamento un po’ moralistico su questa questione, cioè siamo convinti che sia importante essere umili e stare dalla parte di chi è più debole. Certo è vero, ma non possiamo negare che il costo è minore quando si abita al centro. Siamo tentati di guardare le cose solo dal nostro punto di vista, di pensare che tutto il mondo deve funzionare secondo le nostre modalità, ma c’è sempre un costo e quel costo è alto perché si tratta di un costo di espropriazione, conseguente al fatto di mettersi dalla parte dei confini. Non è un’operazione di buona volontà generica e si deve avere grande consapevolezza, altrimenti si rischia di non reggere il costo. Inoltre non sempre i risultati sono immediati; come spesso succede nella vita, si può decidere di pagare costi anche alti, in virtù della convinzione che alla lunga si avrà un risultato. A volte però è necessario investire anni per riuscire a vedere quel risultato.

Il testo di cui ci occupiamo oggi si occupa sostanzialmente di questo e il titolo scelto è “Un non-uomo”. Il passo – Isaia 53 –  è molto conosciuto, poiché lo si legge a Pasqua e purtroppo è piuttosto usurato, in senso positivo, cioè lo abbiamo sentito così tante volte in quel contesto che lo leggiamo nell’ottica della passione e del sacrificio di Gesù. Certo la lettura cristologica e liturgica dei testi pasquali è corretta, ma oggi vorrei offrire un’altra prospettiva, sostanzialmente per due motivi: a) la Bibbia è profondamente umana e dunque ci riguarda tutti; b) se dal punto di vista cristiano ci preoccupiamo di conformarci a Cristo, non nel senso di imitarlo moralmente quanto piuttosto di seguirne la logica dell’esistenza, un testo che prefigura la vicenda di Gesù, dice qualcosa anche rispetto alla nostra vicenda.

Farò una lettura che probabilmente vi suonerà un po’ strana ma che al tempo stesso ritengo assolutamente legittima. È importante però cercare di allontanarsi, almeno in una prima fase, dall’identificazione con la figura di Gesù. Spesso questo testo è stato interpretato in chiave apologetica ovvero il profeta autore preannuncia 400-600 anni prima, quanto succederà, dimostrando così la divinità di Gesù. Questo genere di interpretazione però, per quanto interessante, non ci conduce a nulla. Ai fini della nostra riflessione è interessante piuttosto vedere in Gesù un caso emblematico di vita posta ai confini; lui ne paga il prezzo fino in fondo e il caso è talmente emblematico che nella descrizione di ciò che accade all’umanità – portando alle estreme conseguenze quello che il popolo di Israele stava comprendendo di sé alla luce della Parola di Dio  – si può in qualche modo prevedere l’epilogo. È un’ottica diversa, che parla una struttura fondamentale che ci riguarda tutti.

Il testo

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio

a chi sarebbe mai stato manifestato il braccio del Signore?

È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i colpevoli.

Alcuni versetti sono molto conosciuti, ma vi chiederei veramente di ascoltare il passo nella sua intensità. Si tratta di un testo forte poeticamente e linguisticamente anche nella lingua originale ed è particolare in quanto contiene diversi “hapax”. A differenza di quanto possa sembrare, il testo non nasce dall’istinto e dall’emotività; ha invece una struttura ben definita e piuttosto complessa. Come ho già avuto modo di dire più volte, nei testi antichi è il primo versetto a fungere da titolo. In questo caso specifico i titoli sono addirittura due, ovvero i primi due versetti (su cui vi sono discussioni filologiche che non prenderemo in considerazione) che sembrano non avere connessione con quanto segue. Partiamo dal primo versetto.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio

a chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

È arduo trovare una relazione con il resto del testo che certo parla di qualcuno trattato male, sconfitto, punito, “non credibile” come annunciatore, ma di fatto colui di cui si parla non è un annunciatore, poiché si ripete addirittura due volte “non aprì la sua bocca”.  E sono molte le domande che questo primo versetto induce: di chi è l’annuncio e cosa ha di così incredibile? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

Il problema, tradotto nei termini del Novecento, è la definizione del rapporto parola, idea e realtà, ovvero, come si fa a credere alle intenzioni e alle parole quando la realtà si manifesta in altro modo? Questo è sostanzialmente il titolo del brano, che è anche una sorta di titolo per le nostre sfiducie, una fra tutte la presa di coscienza che l’insegnamento delle nonne “Essere buoni alla fine premia” non funziona. Potremmo dire che questo titolo rispecchia quanto esprimono, in chiave narrativa e dunque più comprensibile, i discepoli di Emmaus: “Noi avevamo sperato che fosse lui”.

Il titolo di questo testo è “Ma davvero funziona un’altra logica?”. Mettersi dalla parte dei confini, mettersi da un altro punto di vista, pensare alla propria vita e all’altrui, ai rapporti, a quanto segue una logica diversa, funziona o no? Premesso che non tutti hanno la vocazione a diventare potenti, comunque va detto che stare ai confini non funziona, non si diventa ricchi né potenti. Ieri ero in treno e sentivo una signora spiegare al compagno di viaggio perché non dà soldi a chi sta presso i semafori: “Se fossi sicura che se li meritano glieli darei, ma dato che non lo sono non glieli dò”. È un ragionamento antico, in cui scatta sempre la logica del “funziona – non funziona” e poco importa che ci abbiano insegnato che la carità si fa indipendentemente dal fatto che uno lo meriti oppure no.

Questo è il punto e riguarda tutti noi. Di fronte all’invito a guardare il mondo da un’altra prospettiva, ci chiediamo: siamo sicuri che sia una buona scelta? Vale la pena? Non basterebbe semplicemente evitare di far del male volontariamente e rimanere in una logica di normalità? Tradotto in parole semplici potremmo dire: un po’ ti difendi, un po’ ti aggiusti.

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?

A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?

Per l’AT l’espressione “braccio del signore” è molto chiara; il braccio del Signore è quello che non si è accorciato, è quello che interviene per liberare il popolo dalla schiavitù dell’Egitto, per donare loro la manna, ecc; è quello che fa funzionare le cose anche quando non funzionano, è il braccio della liberazione, è la potenza. A chi si sarebbe manifestata la potenza? Se non fossero stati schiavi in Egitto e poi persi nel deserto? Se non avessero abitato ai confini? Trasformare l’esperienza della nostra vita in una esperienza borghese di “tranquillità”, in cui non si fa del male a nessuno e ci si attiene alle regole è la peggiore delle condizioni possibili; non siamo abbastanza nel deserto per ricevere l’intervento del braccio del Signore e non siamo abbastanza agguerriti e squali per diventare ricchi, empi e potenti. E quindi stiamo esattamente a metà, prendendo il peggio di tutte e due le situazioni.

Passiamo al secondo versetto.

È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.

Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole.

Qui abbiamo un soggetto che crede all’annuncio entro cui si manifesta il braccio del Signore; cresce come una radice in terra arida, cioè come qualcuno che segue una logica particolare ma è un virgulto davanti a lui.

Nella Scrittura l’umano è strettamente connesso alla dimensione relazionale; bisogna sempre essere con qualcuno, davanti a qualcuno o parlare con qualcuno. Torniamo ad esempio all’episodio di Emmaus: qui i due discepoli discorrono, si comunicano la delusione ed è esattamente in quello spazio tra loro che il viandante può chiedere: “Di cosa state discorrendo tra di voi?”. Se fosse stato un individuo solo, immerso nei suoi pensieri, certo forse il viandante avrebbe potuto chiedergli: “Cosa stai pensando?”, ma il testo volutamente presenta la situazione in altro modo.

È cresciuto come un virgulto davanti a lui.

È chiaro, è la figura del Messia davanti a Dio ma è anche la figura di ciascuno di noi che, per verificare se possiamo credere a questo annuncio e vedere l’opera del braccio del Signore, deve mettersi di fronte a qualcuno e crescere. In qualche modo questa è anche la condizione con cui si può pagare il prezzo. È un prezzo alto, non c’è alcuna poesia, ma è solo crescendo davanti a un altro che si diventa radice che si radica in terra arida. Lo spazio della relazione è lo spazio che non governo da solo, ovvero quello dialogico, è lo spazio in cui posso nutrire la mia forza per abitare i confini. Questo è in fondo il motivo più ovvio per cui si dice che non possiamo essere credenti senza Chiesa, perché l’unico modo di essere credenti è stare in un tessuto di “di fronte a lui”, in un tessuto che ha molte forme, non tutte felici.

Questi sono i due titoli. E dunque questa storia funziona? Per il momento diamo una prima semplice risposta: sì, se siamo di fronte a qualcuno come una radice in terra arida, cioè se accettiamo di essere un po’ fuori posto, non totalmente padroni di noi di fronte a un altro.

Con il terzo versetto inizia la parte più descrittiva.

Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi,

non splendore per poterci piacere.

Disprezzato e reietto dagli uomini

uomo dei dolori che ben conosce il patire,

come uno davanti al quale ci si copre la faccia;

era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

Il testo ebraico abbonda di ripetizioni (per esempio il termine disprezzo e il suo sinonimo che vuol dire mancanza di stima compaiono 6 volte in 5 righe) che non è possibile cogliere nella traduzione italiana. Il significato di queste righe si può riassumere così: mettersi dalla parte del confine provoca come prima esperienza il non essere riconosciuto. A parte l’espressione uomo dei dolori che ben conosce il patire, su cui ci soffermeremo tra poco, tutti gli altri termini si riferiscono al riconoscimento: apparenza, bellezza, sguardi, piacere, disprezzo, assenza di stima; addirittura ci si copre la faccia per non vedere. Si tratta di termini relazionali, non di giudizio obiettivo, indicano quello che gli altri pensano, cosa vedono.

Come dicevo l’unica eccezione è uomo dei dolori che ben conosce il patire. La condizione per stare in modo veritiero dalla parte dei confini è conoscere il patire. E anche qui, lo dico rapidamente, credo vi sia una verità della Scrittura di quelle taglienti, umanissime e assai precedente a ogni riflessione di fede, una di quelle che dovremmo riscoprire nella cultura in cui viviamo. Noi rifiutiamo il dolore, non lo vogliamo sopportare, non lo vogliamo conoscere. Culturalmente e socialmente ci inventiamo tutti i modi possibili e immaginabili per rimuovere e ignorare non solo il dolore degli altri, ma anche il nostro. Le regole della buona educazione e le formule di cortesia sono nate proprio per evitare di conoscere la verità sul dolore altrui. Se il problema di fronte al dolore altrui è “Non saprei cosa dire”, è un problema totalmente falso. La verità è che non abbiamo la forza di ascoltare; sappiamo benissimo che non c’è nulla da dire e chi sta male non si aspetta affatto che qualcuno gli dica qualcosa. L’esigenza di chi soffre non è avere spiegazioni, ma trovare qualcuno che stia ad ascoltarlo. Siamo talmente convinti che nessuno abbia voglia di ascoltare il nostro dolore che in genere non ne parliamo; nessuno ascolta e nessuno parla e ognuno abita il proprio confine come se fosse un centro.

Qual è l’esercizio non intellettuale ma vitale che ci consente di conoscere il patire? Perché non è possibile essere misericordiosi se non si conosce il patire. La prima condizione per abitare fecondamente il confine è ben conoscere il prezzo del patire e sapere che questo rende irriconoscibili, sfigurati. Chi si fa carico del dolore degli altri è sfigurato.

La parola “eppure” con cui inizia il versetto 4 costituisce un punto di svolta. Ben conoscere il patire e non essere riconosciuti può fare di noi persone di molti tipi. In questo caso specifico produce una persona misericordiosa.

Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

Ben conoscere il patire e non essere riconosciuto ci pone dalla parte dei confini, ma in questo punto del testo credo ci sia un gioco ancora più sottile e assolutamente decisivo, su cui dovremmo non solo riflettere ma, per usare una parola che ci sta diventando cara, conversare a lungo. Il testo, credo volutamente ambiguo, non spiega se mettersi dalla parte dei confini significa stare dalla parte delle vittime o dalla parte dei colpevoli.

Di norma viene fatta la lettura teologica per cui Gesù si carica dei nostri peccati divenendo vittima e noi siamo i colpevoli. È ragionevole, ma il testo parla di sofferenze e dolori, che non sono certo una colpa. Le sofferenze e i dolori sono delle vittime, dei poveri della terra, di quelli che sono marginalizzati non per loro colpa. E anzi il testo dice anche

e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato

Cioè noi vedevamo in lui il colpevole. Noi vorremmo tanto che vittime e colpevoli fossero sempre chiaramente distinguibili; ci piacerebbe stare dalla parte dei poveri se poi con un colpo di scena come nei migliori film arrivasse qualcuno a dirci quanto siamo stati bravi.  Purtroppo la vita insegna che il colpevole è anche parzialmente vittima e, a volte, le vittime sono anche colpevoli, ma quando anche si stabilisca che uno è solo colpevole, cosa possiamo fare? Il confine è ambiguo, al confine ci si trova in pessima compagnia; non è divertente né poetico e ognuno di noi può trovarcisi per scelta, errore, confusione, perché qualcuno ce lo ha spinto, o per chissà quale altra ragione. Questo “eppure” del versetto in questione ci pone il problema di cosa è la misericordia. Personalmente credo, anche ascoltando le costanti provocazioni di Papa Francesco, che questo dovrebbe essere un tema su cui ricominciare a interrogarci seriamente. Abbiamo trasformato la misericordia in qualcosa che sta a metà tra il sentimentale e l’infantile, mentre è un sentimento profondamente adulto, che richiede di ben conoscere il patire; il prezzo per diventare misericordiosi è avere sofferto e avere sofferto come colpevoli, così da perdere il diritto di guardare il mondo bianco o nero.

Il testo poco dopo abbandona l’ambiguità e dice

Egli è stato trafitto per le nostre colpe

schiacciato per le nostre iniquità.

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui

per le sue piaghe noi siamo stati guariti

Aldilà della devozione al crocifisso e alle piaghe di Cristo che nasce da questo passo e che non intendo affatto negare, mi chiedo: questo passaggio vale solo per Gesù morto per i nostri peccati? Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui? Per le sue piaghe noi siamo stati guariti? Oppure vale anche un po’ per tutti noi? Almeno in una certa misura. Non è una esperienza profondamente umana sapere che c’è sempre la piaga di qualcuno che paga la mia salvezza? Il motore della misericordia con cui guardare il mondo non è ricordarsi che non esiste modo per gli umani di non far pagare agli altri quello si è?

Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui

per le sue piaghe noi siamo stati guariti

Queste due righe meritano di essere lasciate a lavorare nella nostra mente, non solo in un’ottica di devozione, ma anche per chiedersi cosa significa nell’esperienza adulta l’interscambio di sofferenze, di prezzi e di riconoscimenti.

Ma qual è la colpa, da cosa siamo stati guariti?

Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada.


Sembrerebbe che la colpa consista nell’essere separati, sperduti e confusi ovvero incapaci di crescere davanti all’altro. Questo versetto è costruito in modo simmetrico rispetto a

il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.

Qual è l’iniquità? Essere sperduti e seguire da soli la propria strada.

Poi ci sono i versetti che descrivono esattamente cosa succede a chi si mette da questa parte, a chi sceglie la via della misericordia e abita la pessima compagnia dei confini.

Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca;

era come agnello condotto al macello,

come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.

Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;

chi si affligge per la sua posterità?

Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,

per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.

Gli si diede sepoltura con gli empi,

con il ricco fu il suo tumulo,

sebbene non avesse commesso violenza

né vi fosse inganno nella sua bocca.

La descrizione insiste su tre questioni:

– Il soggetto tace. La questione su cui noi ci interroghiamo spesso tra il parlare e il tacere e il chiamare le cose con il loro nome esplicito, annunciare Gesù, parlare di Gesù, vivere, fare, ecc, C’è antinomia tra parole e realtà, tra parole e vita. Qui l’indicazione è molto chiara. Chi sta ai confini tace, chi sta al centro parla. Chi guarda il mondo dai confini non ha nulla da dire. Su questo personalmente sono diventata molto più dura negli ultimi anni. Un tempo ritenevo che fosse importante, in certe situazioni, parlare di Dio alla gente, mentre oggi sono convinta che non sia così. Ci sono cose vere della vita di cui non si parla; la Parola è la parola sulla vita e stare davanti a un altro significa (come i discepoli di Emmaus) discutere su quello che abbiamo sperato, sul nostro dolore, sopportare il dolore altrui, non scappare di fronte alle sue parole. Circa la questione di stare dalla parte dei confini, di stare dalla parte di Dio credo non si debba proprio aprire bocca.

– Chi si affligge per la sua posterità? È strano, perché ci si aspetterebbe “Chi si affligge per come è stato trattato?”. Certo, è affermazione tipica di una società che molto investiva sui figli, ma comunque è curiosa. Qui non importa il trattamento che lui ha ricevuto, ma cosa succederà dopo, cosa sarà in grado di produrre. Questa è l’altra questione descrittiva interessante. Al confine si sta zitti e il problema non è la persona ma il futuro.

– “Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo”. Si considera empio e ricco sinonimi.

Andiamo alla conclusione, ovvero alla terza unità del testo.

Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.

Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,

vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

Chi si affligge per la sua posterità – vedrà una discendenza.

La sua sepoltura è con l’empio – vivrà a lungo.

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Questo terzo premio prima non c’era. “Chi si affligge per la sua posterità”, ovvero la mancanza di futuro ha come premio: “vedrà una discendenza”. “La sua sepoltura sarà con l’empio”, ovvero la prospettiva della morte, ha come premio: “vivrà a lungo”. Il terzo premio non ha premessa.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza

Uomo dei dolori che ben conosce il patire si sazierà della sua conoscenza, cioè del patire

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà le loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

dei potenti egli farà bottino,

perché ha spogliato se stesso fino alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi,

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i colpevoli.

C’è un premio? Funziona? Sì, perché “si sazierà della sua conoscenza” significa: il peso dello stare al confine diventerà la nostra forza. Ben conoscere il patire diventa l’elemento di forza, perché ci rende più umani. Per questo il vero premio è il terzo, quello che non ha corrispondenza.

Si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Questo è il segno che funziona; si compie la volontà di Dio, per cui il mondo è più umano, ognuno ha più spazio per il dolore altrui, tutti possono crescere l’uno di fronte all’altro.

ha spogliato se stesso fino alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi,

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i colpevoli.

In conclusione si dice che dal punto di vista storico non è cambiato nulla, ovvero non c’è riconoscimento. Lui stava intercedendo ed è stato annoverato tra gli empi. Però si sazierà della sua conoscenza e qui torno al versetto “Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori”. Ovvio, non significa che Dio è contento che si soffre. Qui si dice che il Dio di Israele, di Abramo, Isacco, Giacobbe e Gesù Cristo è un Dio che sa stare di fronte, un Dio che sopporta il dolore altrui e lo sa raccogliere.

Quando riusciamo a trovare comunione e comunicazione con qualcuno a cui vogliamo bene e che sta molto male, sentiamo quanto quei momenti siano assolutamente preziosi, perché la condivisione e la capacità di non fuggire di fronte al dolore dell’altro possono trasformare una conoscenza non troppo approfondita in un’amicizia per la vita. Saper stare di fronte all’altro così come fa il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe trasforma il dolore in una conoscenza che sazia e offre l’occasione di una vita più umana, di una misericordia più reale.

Dal nostro punto di vista questo è il costo di abitare ai confini e normalmente non è un costo riconosciuto, dunque il massimo a cui possiamo aspirare è imparare a saziarci della conoscenza che abbiamo del dolore nostro e altrui per diventare misericordiosi.

Fossano, 11 gennaio 2013

(testo non rivisto dal relatore)

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