A proposito della discussione sul c.d. “testamento biologico” (in programma alla Camera in questo periodo) pubblichiamo una riflessione di Pier Luigi Castagnetti (parlamentare del PD). Al di là dell’appartenenza politica, ci sembra che l’autore svolga una serie di ragionamenti che meritano attenzione.
Nessuna legge è sempre meglio di una cattiva legge. Il dibattito sviluppatosi sui giornali in questi giorni, in attesa di quello che sta per aprirsi alla Camera sul cosiddetto testamento biologico, mi ha confermato nella convinzione, che ho sempre avuto, che sul come morire sia bene non legiferare. Un mio fraterno amico, medico insigne e credente, mi disse un giorno: il mio testamento biologico è di una sola riga, ”Signore, sia fatta la tua volontà”. Ma non si può pretendere che tutti ragionino in tale modo. E, allora, si cerchi un terreno “laico”, accettabile da tutti e in linea con i principi costituzionali, affermando semplicemente un chiaro “no alla eutanasia e no all’accanimento terapeutico”. Di più non serve.
La proposta di legge che arriva in aula alla Camera invece finisce per ridurre allo spessore di una lamina sia il confine con l’eutanasia che quello con l’accanimento terapeutico. Al di là delle intenzioni che personalmente assumo come buone, il testo è la dimostrazione che più si cerca di combinare normativamente il valore della vita con quello della salvaguardia della libertà e della dignità della persona umana, più si complicano le cose quando non si combinano pasticci.
Meglio fermarsi. L’argomento contrario alla sospensione, usato da ultima anche dalla sottosegretaria Roccella su Avvenire, è quello di voler prevenire soluzioni giuridiche del tipo di quella adottata dalla Cassazione per Eluana Englaro. A me pare argomento debolissimo, sia perché paradossalmente è lo stesso indicato al contrario anche dai sostenitori del principio della pura autodeterminazione, sia soprattutto perché la via indicata dal progetto Calabrò-Di Virgilio è talmente farraginosa da esporsi alla proliferazione di ancor più numerosi ricorsi giudiziari.
No, fermiamoci. La fase finale della vita non va giuridicizzata, ma lasciata alla gestione amorevole e rispettosa della dignità e della volontà del paziente che la alleanza terapeutica fra medici e famiglia (o fiduciario nel caso manchi la famiglia) ha sempre assicurato. Può darsi che si presentino situazioni limite che meriterebbero una parola in più della legge, ma la parola della legge non potrà mai prevedere l’intera casistica delle diverse situazioni. E rimettiamoci tutti di fronte alla morte in atteggiamento di accoglienza.
La morte non va provocata, mai, e ciò è già garantito dall’ordinamento. Anzi va combattuta con mezzi ragionevoli ed efficaci sin che è possibile, poiché la vita è un dono, in ogni caso un bene, tanto prezioso da dover essere curato e preservato sin che è possibile. Ma poi la morte va accolta, va “lasciata arrivare” senza pagarle il prezzo della propria dignità.
Non c’è dunque bisogno di una legge, soprattutto se la legge, come in questo caso, stravolge tali principi. E a quanti sostengono la necessità in ogni caso di scrivere anticipatamente le proprie volontà sul proprio fine vita, attraverso un processo di “consenso informato”, mi permetto opporre che non può esserci consenso informato dichiarato in astratto, in anticipo, rispetto a situazioni non conosciute perché non conoscibili prima. Nessuna ipotesi astratta potrà contenere tutte le possibilità che potranno manifestarsi in un tempo successivo, né ci sono mezzi per verificare se una volontà espressa in anticipo sia ancora la stessa nel momento in cui il malato non sarà più capace di confermarla.
Tutto è così complicato che il buon senso e l’intelligenza consigliano di rinunciare a qualsiasi interferenza della legge nello spazio tanto personale e intimo qual è appunto quello dell’incontro con la propria morte. Se penso poi che questa legge è stata tenuta in silenzio per due anni nonostante fossero conclusi i lavori in commissione, senza alcuna protesta e sollecitazione da parte di alcuno, dentro o fuori del parlamento, a conferma delle diffuse perplessità di merito e della assenza di una vera “domanda sociale”, mi chiedo per quale ragione la si debba discutere oggi, nel clima da stadio che la maggioranza ha imposto al dibattito politico nazionale in questa fase. La risposta la conosciamo bene.
Non credo peraltro che a nessuno, tanto meno alla Chiesa, possa interessare l’approvazione di un provvedimento lacerante, non necessario e, se resta formulato nei termini conosciuti oggi, sicuramente sbagliato e pericoloso.
Ancora due giorni fa sul Corriere della Sera la collega Melania Rizzoli, del Pdl, sulla scia delle perplessità già espresse da Giuliano Ferrara e Sandro Bondi, ha giustamente scritto: «La tutela della vita, considerata un bene indisponibile e garantito dalla nostra Costituzione, non può essere affidata interamente a forme di accanimento terapeutico e legislativo, che mai saranno in grado di decidere caso per caso quello che è meglio per ciascuno di noi in quest’ultimo momento».
Appunto. Fermiamoci sin che siamo in tempo.
Pier Luigi Castagnetti