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Uno spazio di fede senza confini


tratto da Vita Pastorale n.1/2007, pp.76-79

Da un incontro con la teologa Stella Morra, docente alla Gregoriana, è nata un’intervista che, partendo dall’esperienza ormai decennale dell’associazione l’Atrio dei Gentili, riflette sulla possibilità di offrire la proposta di fede in nuove “forme” ecclesiali accanto a quelle di sempre, allargando lo sguardo a tanti altri aspetti della pastorale.

di Vincenzo Vitale

È pensabile, dentro la Chiesa, uno spazio “di confine”, do­ve si possa entrare e uscire senza appartenenze rigide? Uno spazio dove sia possibile ascolta­re la Parola e trovare, con essa, le pa­role per dire la nostra vita? Sono le sfi­de che l’Atrio dei Gentili si è trovato a vivere nella propria decennale espe­rienza di associazione culturale lega­ta alla diocesi di Fossano (CN).

Ne parliamo con Stella Morra, teo­loga e assistente di teologia alla Gre­goriana a Roma, già intervistata per Vita Pastorale da Cettina Militello (10/2004, pp. 94-98, cui si rimanda per il profilo biografico e la bibliogra­fia). L’Atrio le deve molto del suo per­corso e della sua ispirazione. L’asso­ciazione, che conta circa novanta so­ci, ha un sito internet (www.atriodeigentili.it) e dalle sue iniziative sono già nati alcuni libri, pub­blicati dall’editrice Esperienze di Fossano.

Ne è attualmente presidente Carlo Baro­lo, che alla domanda sull’andamento e le dif­ficoltà dell’Atrio ci confida: «Facciamo qualcosa che ci appas­siona: proponendo quello che appassiona noi stessi, e ci piace, ab­biamo visto che si ap­passionano anche gli altri: insomma, conti­nuiamo pieni di speranza».

Ma che cos’è l’Atrio dei Gentili? Partiamo da qui per un’intervista a Stella Morra al seminario di Fossa­no, dove tiene una lectio su Atti 9.

Che cos’è l’Atrio dei Gentili? Com’è nata l’idea? Che esperienza c’è dietro e che cammino si è fatto?

«Come identità giuridica adesso l’Atrio dei Gentili è un’associazione culturale. In realtà è il nome che ha preso un’esperienza che precede di molto l’associazione culturale nata nel 1996. L’esperienza è quella di alcuni gruppi di adulti di provenienze diverse: chi da periodi di impegno ecclesiale o pastorale molto intenso e chi, all’opposto, da tempi della vi­ta distanti dal mondo ecclesiale o dal percorso di fede. Questo grup­po si è ritrovato a un certo punto in­torno all’idea di leggere insieme la Scrittura, idea non particolarmente originale e piuttosto diffusa negli anni post-conciliari.

«Tutto nasce da tale esigenza e dalle doman­de che da questo fatto sono state messe in mo­to: domande su come trovare un modo di sentirsi ed essere cre­denti con una Chiesa – non solo in termini in­dividuali – senza passa­re attraverso le stret­toie di appartenenze puramente operative, da una parte; domande riguardanti le proprie storie personali, la pos­sibilità di essere adulti e di rendere conto a sé stessi della propria adultità e della propria fede insieme.

«Da tutto questo, progressivamen­te e in modo molto empirico, è nata quest’associazione che si chiama l’Atrio dei Gentili perché si pone co­me uno spazio intermedio, come l’atrio nel tempio di Gerusalemme».

Da dove viene il nome?

«Si tratta di uno spazio intermedio tra un esterno totale e un interno radi­cale (il Santo dei Santi). All’interno radicale sono ammessi solo i sacerdo­ti nel tempio di Gerusalemme e, intorno, solo gli appartenenti al popolo ebraico. Poi c’è il “fuori”, l’ampio mondo che circonda. In mezzo c’è questo spazio, l’atrio (o portico) dei gentili, dove erano ammessi anche i pagani, dove pagani ed ebrei si me­scolavano; dove spesso non era ben chiaro se le attività erano di tipo reli­gioso legate al tempio o no (i cambia­valute, i famosi venditori di colombe per i sacrifici). Come tutti i portici, è fatto di colonne, non ha una porta d’ingresso, una strettoia, ma ha diver­si varchi attraverso cui si passa sia per entrare che per uscire.

«Allora ci siamo chiesti se era pos­sibile pensare, rispetto al dato molto concreto delle forme dell’esperienza di Chiesa, un luogo che non richie­desse immediatamente un’apparte­nenza compiuta, riconosciuta e identitaria. Ma anche un luogo che non si­gnificasse semplicemente che ognu­no vive sulle proprie strade, un luogo che lascia molte porte d’ingresso e di uscita. E un luogo dove ci si potesse mescolare con identità e appartenen­ze diverse intorno alle questioni della fede, sperimentando anche linguag­gi, percorsi, metodologie diversi».

Con quali itinerari siete partiti?

«Mantenendo la centralità dell’of­ferta di una lettura gratuita della pa­rola di Dio, a cui siamo tutti profon­damente legati, abbiamo comincia­to con l’avventura della lettura del libro di Tobia, un po’ il nostro libro del cuore. Ci è sembrato che il vec­chio Tobi e il giovane Tobia fossero le due facce dell’essere adulti: la devozione un po’ sterile e il viaggio verso l’ignoto. Questa proposta cen­trale dura tutt’oggi, con una storia quasi ventennale di lectio biblica.

«Dico gratuita perché c’è un gran­de desiderio di ascoltare una parola di Dio parlata in una lingua concreta, ma spesso, anche inconsciamente, queste offerte vengono fatte chieden­do in qualche modo qualcosa in cam­bio: “Beh, allora, adesso che cosa ti impegni a fare?”. L’idea invece è che a nessuno fosse chiesto niente. Un po’ lo stile dell’ospitalità monastica. E la Bibbia è ben più di un monaste­ro: è un luogo che ospita le nostre vi­te. Poi se qualcuno vuole da questo – com’è capitato – mettersi insieme per fame nascere qualcosa, lo fa. Se no, uno viene comunque ospitato dalla parola di Dio. Si rovescia l’idea che noi dobbiamo accogliere la parola di Dio, che è teologicamente esatta, ma linguisticamente ha quest’etica del dover-essere molto incombente.

«E siamo partiti proprio da un ro­vesciamento linguistico dicendo:

“La parola di Dio ci ospita”. Ospita le nostre vite, le nostre storie. Nella Scrittura viene raccontato molto di come funzionano gli esseri umani:

per questo ci sono tutti i tipi di vio­lenza, perché ognuno di noi possa con le sue violenze, subite o inflitte, trovarsi a casa. Per questo ci sono testi di peccato, di ira, di gioia, di fe­sta. L’idea – che genera un altro sti­le – è che la parola di Dio viene of­ferta perché ognuno possa esservi ospitato con la propria vita. Questo è rimasto sempre il punto cardine».

E poi come avete proseguito?

«Intorno a questo abbiamo offerto negli anni tante cose: alcune sono ri­maste, altre solo per un periodo. Un aspetto sempre presente è quello di una mediazione culturale, cioè di una riflessione soprattutto intorno a

temi antropologici chiave: una rifles­sione di misura adulta, che faccia uscire la nostra fede dai linguaggi, le parole o gli schemi di comprensione che uno ha maturato più o meno in­torno alla cresima e lì sono rimasti. Per avere delle parole cresciute con noi. In questi anni abbiamo fatto se-minari, momenti di approfondimen­to ad esempio sul meccanismo del de­siderio negli adulti, l’adultità, su che cosa significa e implica una vita adul­ta… L’ultimo seminario era sul lato oscuro della vita, su come si fanno i conti con il negativo, che non neces­sariamente è immediatamente pecca­to: il senso di finitezza, il dolore, la violenza e l’ingiustizia subite, ecc.».

L’aspetto antropologico, la vita concreta, è il luogo dove facciamo l’esperienza di fede.

«Per dirla con uno slogan:abbiamo un problema nel rapporto tra fede e vita non per carenza di fede, ma per caren­za di vita! Abbiamo una consa­pevolezza troppo bassa e parole troppo scarse per essere in gra­do di dire la nostra vita di fronte alla fede. E come la Scrittura ci inse­gna, ogni parola del Signore fa fiori­re la vita che c’è: quando la vita non c’è o ce n’è troppo poca, non fiorisce o ne fiorisce troppo poca.

«Per noi questa non è una scelta di pre-evangelizzazione, è esatta­mente il contrario: perché ciò che spet­ta capire, smontare, articolare, nutrire, saper raccontare, scambiare è il nostro essere umani. Di un’umanità il più possibile consapevole di sé, pacificata e che, con i mezzi che ha (coscienza, intelli­genza, forza, coraggio), guadagna la massima libertà possibile. A questo punto, la parola di Dio su questa umanità fa il miracolo di compiere questo sforzo e trasforma la massi­ma libertà possibile in una libertà pie­na, la nostra massima sincerità possi­bile in una verità piena e così via.

«Per tanti di noi è molto caro il te­sto della samaritana: un’umanità fe­rita ma totalmente messa in gioco, che, sotto lo sguardo del Signore Ge­sù, fiorisce e può trasformarsi con la stessa pienezza. Perché la trasfor­mazione la fa Gesù, non la fa lei.

«Siamo spesso nella situazione op­posta: miseri quanto a noi stessi, cer­chiamo di trasformarci, avendo poco materiale da trasformare e affidando­ci alle nostre forze per impegnarci, di­ventare più buoni, con l’ottimo risul­tato di un volontarismo moralista molto pesante. Questo aspetto è rima­sto costante, ma ha preso for­me diverse, per lo più seminari, cioè giornate in­tere o due giorni, in genere estivi».

Avete seguito altre piste?

«Una terza componente decisiva, che è andata affinandosi sempre più, è il dato artistico-letterario. An­che qui uno dei problemi fondamen­tali per la fede è avere le parole per dirla e che di fronte allo sforzo degli spiriti umani (pittori, poeti, musici­sti) di esprimere il profondo di sé e dell’umanità tutta, non solo il proprio personale più profondo, attra­verso delle forme che chiedono loro spesso il travaglio di un’esistenza in­tera, rischiamo di essere gente che ha un grande tesoro – la parola di Dio – e che lo inscatola dentro sca­tolette di plastica anche bruttine, cioè che non da nessuna forma.

«Ci siamo chiesti quanto possia­mo imparare da tutti coloro che han­no fatto sforzi spesso totalizzanti di espressione di pezzi, brandelli dello spirito. E ci siamo chiesti se guarda­re il film, la pittura, i quadri con oc­chi credenti non porta a riconoscere quei semina Verbi che forse lo stesso autore non ha messo in conto e se questo territorio non è linguaggio “fuori dal tempio”, luogo dove per esempio chi ricono­sce la bellezza non può dialogare con i credenti rispetto alla bellezza. Rischiamo di avere una vita proprio misera di fronte alla proposta di una vita così ricca».

Ciò concretamente, in cosa si è tradotto?

«In questi anni abbia­mo instaurato anche delle collaborazioni, con il comune di Possano, con persone che profes­sionalmente si occupano di arte, che abbiamo coinvolto nel nostro percor­so. Abbiamo una rassegna in mag­gio, “Fede con arte”, in cui proponia­mo in genere un prodotto nostro e due o tre di altri gruppi o ensembles musicali o teatrali che “acquistia­mo”, perché non abbiamo le forze di produrre di più noi. In questi prodot­ti c’è sempre un percorso attraverso le forme dell’arte con una domanda e una riflessione sulla fede.

«Questo secondo me è uno dei frutti più adulti, più originali, di que­sta realtà che tra l’altro coinvolge un gran numero di persone sia nell’alle­stimento che nella fruizione. Intor­no a questi tre elementi ci sono una serie di dati di metodo. Una delle ri­flessioni di questi anni è stata sulle forme di Chiesa. Di come le forme sono solo apparentemente tecniche ma qualificano poi il contenuto, co­me già insegna san Tommaso. Ave­re una forma di un certo genere di proposta non può che portare in una determinata direzione».

Possiamo spiegare meglio que­sto concetto di “forma”, che ricor­re spesso nelle tue riflessioni?

«È un tema immenso, faccio solo un esempio per spiegarmi. Quando cinquecento anni fa c’era un grande dibattito sulle Chiese diocesane e gli ordini religiosi, quando lo stesso di­battito oggi prende la forma del dia­logo tra le parrocchie e i movimenti, si discute di due forme di Chiesa. Noi siamo radicati con l’idea di una Chiesa che si articola geograficamen­te, e anche giuridica­mente ha una forma geografica, come se fos­se l’unica possibile.

«Essa nasce solo nel secondo millennio; nel­la forma attuale non ha più di due secoli di vita. Ma nel nostro immagi­nario è l’unico modo in cui riusciamo a pensare che la Chiesa esista. Do­po il Vaticano II i movi­menti, ad esempio, sono andati a ricordarci che esiste un altro criterio, quello delle persone, delle relazioni, piuttosto che quello della geografia. E questo è già un cambiamento, con tutti i problemi, anche di come è stato posto. Quest’esperienza mi sembra molto pericolosa in questo momento, perché rischia di far abortire una novi­tà potenzialmente grande in qualcosa di talmente dannoso per l’esperienza della Chiesa che così la si cancella e si ritorna un passo indietro».

In che senso?

«Nel momento in cui tu proponi una novità sulla forma di Chiesa pre-sentandoti come l’unica Chiesa vera (mentre gli altri sarebbero tutti un po’ freddi, non significativi) e dicen­do “io l’ho pensata, io la vivo, io la propongo”, i casi sono due: “O tu, Chiesa universale (o diocesana o par­rocchiale) riconosci in me la verità dell’esperienza di Chiesa e ti adegui oppure sei tu che sbagli”. La Chiesa non è mai andata avanti su questi criteri, ma va indietro. Perché le forme di Chiesa non nascono da uno, per quanto intelligente o carismatico, ma nascono solo da esperienze che si fanno strada e diventano sensus fidelium, qualcosa di condiviso e che do­po viene riconosciuto dal Magistero.

«E un problema molto serio per­ché nel nostro immaginario noi non riusciamo a pensare come potrebbe funzionare una Chiesa che non sia basata in fondo sulla retroimmagine della societas – in termini moderni: del club. Sempre più noi ci stiamo trasformando in un club: ci sono del­le sedi geografiche, chi accetta delle norme d’ingresso ne fa parte, è un socio attivo e tutti gli altri campano benissimo senza quel club.

«Il Vaticano II ci dice: la Chiesa non è societas, per lo meno la figura della Chiesa attuale non può più es­sere solo quella di societas. E che deve avere la forma di un popolo. Ma nessuno riesce a immaginare co­sa voglia dire. Il massimo che siamo riusciti a immaginare sono stati dei consigli, che sono le forme di parte­cipazione a una societas, non sono un popolo: è diverso!».

Quali soluzioni intravvedi?

«Questo problema non è di facile soluzione e, credo, occuperà più o me­no tutto il terzo millennio del cristia­nesimo. Però credo che tutti dobbia­mo prenderne consapevolezza e vede­re nelle nostre esperienze di Chiesa come possiamo sperimentare già alcu­ni elementi di metodo, di forme diver­se. Da questo punto di vista, l’Atrio ha un po’ di riflessione metodologica, proprio in questa chiave, di metodo inteso come una forma ermeneutica:

in che modo possiamo immaginare, per esempio, un sentirsi o essere Chie­sa storicamente sperimentabile che non sia mediato dal tema sociologico dell’appartenenza o della non appar­tenenza, quindi non divida tra “fuori” e “dentro”. Alcune riflessioni sono state fatte, altre le stiamo facendo, continueremo spero a fame».

Tu sei molto a contatto con futuri preti. Cosa puoi direi di quest’espe­rienza e che impatto ha la stagione di incertezze in cui viviamo?

«Io insegno in luogo privilegiato, la Gregoriana, in una situazione molto internazionale. L’esperienza europea, per di più quella italiana, non rappre­senta affatto la media di ciò che sta ac­cadendo. Siamo molto disattenti ri­spetto ai luoghi in cui numericamente il cattolicesimo è in grande crescita e non è certo l’Europa. Dovremmo chiederci che cosa sta succedendo nel­le Filippine, in Sud America, interro­garci sul fenomeno crescente dei mo­vimenti carismatici che vi stanno dila­gando… La grande questione che si pone è soprattutto quella di un cristia­nesimo che non sa più parlare e ragio­nare con i poveri, non solo economi­camente, ma poveri di cultura, quelli che hanno un atteggiamento più sem­plice rispetto all’esistenza. Capacità che invece è stata sempre una delle più grandi doti della Chiesa cattolica nel bene e nel male, di aver avuto co­me interlocutori una grande popolari­tà di gente semplice che ha trovato ri­poso, sostegno, quiete, consolazione, speranza nell’esperienza credente.

«È questo che stiamo perdendo e il grande rischio per i giovani che si pre­parano al sacerdozio è quello di diven­tare dei funzionali, al di là della loro buona volontà e generosità personale, di essere mangiati vivi da una burocra­tizzazione dell’esperienza credente che non riesce più a fare i conti con i poveri. Si trovano poi in una situazio­ne drammatica, biograficamente, con il pericolo di buttare tutto all’aria pro­prio perché non si regge. Io credo che questa è la grande questione su cui sa­remo misurati. Una questione molto evangelica tra l’altro… “i poveri li ab­biamo sempre con noi”. Bisognereb­be un po’ interrogarsi su questo…».

Quali sono i nostri poveri, nella situazione europea o italiana? Che cosa significa oggi fare loro la “cari­tà della verità”?

«Al di là della formula è una que­stione molto seria. La povertà più grande che si vive nell’Occidente ricco è la povertà di parole significa­tive. Siamo tutti sotto una grande congiura di silenzio. Abbiamo pen­sato che si rompeva il silenzio in ter­mini comunicativi, che il problema era spiegarsi. Invece il silenzio, al­meno quello che ci interessa, non quello della pubblicità (non abbia­mo un prodotto da vendere), si rom­pe in termini ermeneutici, non in termini comunicativi. Noi diciamo delle parole pie; quando pensiamo che la gente non le capisce, le rendiamo stupide, trattando le persone da deficienti a cui bisogna tradurre.

«Il problema è che non bisogna di­re delle parole pie, ma parole vere e vive. E la gente le capisce, non ha bi­sogno di traduzioni stupide. Credo che qui abbiamo preso un abbaglio. L’esempio che mi viene è sempre quello della liturgia; diciamo che i simboli liturgici non parlano, perché sono antichi ecc., allora che cosa dob­biamo fare? Portiamo all’offertorio il pallone: ci mettiamo un’ammonizio­ne (“Portiamo il pallone per significare che…”), il che vuoi dire che non parla, con un’aggravante: è pure brutto! Mentre i simboli antichi sono bel­li, se non altro! Parlare per non parlare, meglio una cosa bella. Mi sembra che questo lo facciamo spesso, incon­sapevolmente o per generosità. Dicia­mo: “La nostra catechesi la gente non la capisce”… Allora la rendiamo stu­pida, brutta, banale, qualunque, e la gente non la capisce ugualmente, perché a nessuno gliene importa delle co­se stupide».