Carità:
la questione dell'individualismo
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- Oh, povero padre! povera madre! perché...? perché...?
Giuliano era stato un cavaliere abile nella caccia. Durante una battuta aveva ucciso un cervo che, nellagonia, lo aveva maledetto:
- Tu uccidi me e non provi rimorso, ma verrà il giorno in cui ucciderai senza volerlo tuo padre e tua madre e il rimorso non ti abbandonerà più per il resto della vita.
La maledizione si avverò e Giuliano, inconsolabile per la morte dei suoi amatissimi genitori, decise di andare errando per molti paesi, dedito ad una vita di digiuno e di penitenza.
Dopo circa trentanni di peregrinazioni, stanco di viaggiare solo, con lunica compagnia del suo tormento, decise di sistemarsi in una capanna presso un acquitrino, in un luogo inospitale, per proseguire la propria vita di penitenza.
Una piccola tavola, uno sgabello, un letto di foglie secche, un piatto e una brocca dargilla, ecco tutto il suo mobilio. Due fori nel muro servivano da finestra. Da una parte, si stendevano pianure desolate e umide, sulla cui superficie apparivano, qua e là, pallidi stagni; dallaltra, lacquitrino fangoso esalava odore di putredine. Quando giungeva la stagione calda, nuvole di zanzare non cessavano di tormentarlo. Quando il gelido inverno faceva sentire la sua morsa, ogni cosa appariva rigida e senza vita.
Passarono mesi senza che Giuliano vedesse persona alcuna. Se ne stava ritirato nel suo forzato eremitaggio, solo il sonno era popolato da immagini funebri e figure funeste.
Una notte, mentre dormiva, si svegliò credendo di udire qualcuno che lo chiamava. Tese lorecchio e non udì che il fragore della pioggia e il sibilo del vento che schiaffeggiava le finestre della capanna.
Poi udì di nuovo pronunciare il suo nome:
- Giuliano!
La voce veniva dalla riva opposta dello stagno.
Una terza volta la voce lo chiamò:
- Giuliano!
Quella voce aveva la tonalità squillante di una campana.
Giuliano accese la lampada e uscì allaperto. Un uragano infuriava nella notte. Dopo un attimo di esitazione, si gettò in acqua, la melma gli arrivava già alle ginocchia, quando scorse sullaltra riva la sagoma di un uomo che giaceva a terra. Luomo era avvolto in una tela a brandelli, il viso, simile a una maschera di creta, aveva occhi rossi come carboni ardenti. Avvicinando a lui la lanterna, Giuliano trasalì per lorrore: una lebbra ripugnante devastava il volto e il corpo di quel poveruomo; tuttavia, cera qualcosa nel suo atteggiamento che incuteva timore.
Giuliano non si perse danimo, sotto la pioggia battente, raccolse nel canneto rami e giunchi e costruì una zattera di fortuna. Vi adagiò il malato e lo trascinò nellacqua.
Immerso nel fango, Giuliano spingeva a fatica quel piccolo lettuccio galleggiante. Spingeva con le braccia e, puntando i piedi, inarcava la schiena per fare più forza. La grandine gli frustava le mani, la pioggia gli colava sulla schiena, la violenza del vento lo soffocava. Più di una volta fu tentato di arrendersi, ma poiché sentiva in se stesso che non poteva fermarsi, riprese a spingere e, raccogliendo le ultime forze che gli erano rimaste, giunse finalmente sullaltra sponda.
Nella capanna, Giuliano adagiò il Lebbroso su di una stuoia e chiuse la porta.
Dopo essersi lavato dal fango, tolse delicatamente dal malato lo strano sudario che lavvolgeva. Le bende lasciarono scoperte le spalle, il petto e le braccia magre che sparivano sotto placche di pustole scagliose. Rughe enormi scavavano la sua fronte. Come uno scheletro aveva un buco al posto del naso e le labbra bluastre trattenevano un alito di morte denso e nauseabondo.
- Ho fame - disse il malato.
Giuliano gli diede ciò che aveva: un pezzo di lardo rancido e del pesce.
Quando il Lebbroso li ebbe divorati disse:
- Ho sete.
Giuliano andò a cercare la brocca dove era rimasta un po dacqua pulita. Il malato vuotò la brocca.
Poi disse:
- Ho freddo.
Giuliano, con la sua candela, accese un fascio di felci in mezzo alla capanna. Il Lebbroso si accucciò più vicino per riscaldarsi; e, accoccolato, tremava in tutto il corpo, si indeboliva; i suoi occhi non brillavano più, le sue ulcere colavano e, con una voce ormai spenta, mormorò:
- Il tuo letto.
Con tutta la delicatezza di cui non era mai stato capace, Giuliano lo aiutò amorevolmente a stendersi sul letto.
Il Lebbroso gemeva. Gli angoli della bocca gli scoprivano i denti, un rantolo accelerato gli scuoteva il petto, e il ventre, ad ogni sospiro, si schiacciava fino alle costole.
Poi, chiuse le palpebre.
- È come se avessi il ghiaccio nelle ossa. Vieni accanto a me.
E Giuliano si coricò sul giaciglio di foglie secche accanto a lui, fianco a fianco.
Il Lebbroso volse il capo.
- Spogliati, affinché io abbia il calore del tuo corpo.
Giuliano si tolse le vesti; poi, nudo, si coricò nel letto e abbracciò teneramente il malato come fosse un bambino. Sentiva contro il suo petto la pelle del malato più fredda di un serpente e ruvida come una lima. Cercava di incoraggiarlo, ma laltro rispondeva ansimando:
- Sento il gelo della morte, avvicinati con tutto il tuo corpo e riscaldami. Giuliano si strinse ancor più al povero corpo martoriato, ormai erano un unico corpo sofferente, petto contro petto. Allora, il Lebbroso lo strinse a sé e, improvvisamente, i suoi occhi presero il chiarore delle stelle, il volto divenne luminoso e la pelle raggrinzita cominciò lentamente a distendersi. Le ferite del Lebbroso si rimarginavano una ad una, mentre - come per infausto contagio - sul corpo di Giuliano si aprivano orribili piaghe e bubboni.
Nel preciso istante in cui percepì la morte in ogni fibra del proprio corpo, Giuliano sentì la propria anima inondata damore e di gioia e mentre veniva trasportato in Paradiso da Nostro Signore Gesù, comprese che non il digiuno e la penitenza lavevano reso puro agli occhi di Dio, ma solo la sua infinita carità.
dalla Legenda aurea
Carità: altri approfondimenti
Amore e conoscenza - Massimo
il Confessore, Centurie sulla carità, 4, 57 sg.
La moltitudine dei bisognosi
- Gregorio di Nissa, Lamore per i poveri, 1
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