Martirio:
la questione della visibilità

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 Sei parole...

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Martirio

L’ospitalità di Gaudenzia

Gaudenzia, affascinante locandiera nota a tutti per la sua ilarità e la sua schietta ospitalità, viveva a Roma nei terribili anni della persecuzione dei cristiani.

Nel suo ostello, sulla via Collatina, Gaudenzia soleva spalancare porte e braccia ai forestieri di passaggio. La locanda era linda, festosa e accogliente, grande più di venti stanze, e Gaudenzia vi sfaccendava senza sosta, aiutata da sei compagne dai nomi curiosi: Ostina, Rustica, Serena, Risolina, Donata e Serotina.

Giovani, belle e vigorose di spirito, le allegre locandiere erano famose in tutta Roma per i favori che tanto generosamente accordavano agli ospiti più graditi e per le leccornie della loro arte culinaria. Ma tant’è, non c’era malizia nella loro condotta, ma solo letizia e gioia di vivere.

Per pochi soldi, gli ospiti potevano rinfrancarsi tra le mura del confortevole ostello. Grasse vivande e profumate primizie s’adagiavano mollemente sui vassoi di coccio per essere gustate e innaffiate da soavi vinelli. Gaudenzia curava con particolare amore una bella vigna dietro il suo alberghetto. Ad ogni vendemmia si poteva assistere allo spettacolo, insieme sensuale e gaio, di sette fanciulle scalze che pigiavano saltellando grassi acini nel grande tino. Custodito nelle botti, il vinello versava poi generoso nei calici dei buongustai.

Quante lodi per l’avvolgente abbraccio dei letti rifatti ogni mattina! Quanta gratitudine per le lenzuola fresche di lino e i mazzetti di lavanda e verbena appesi a testa in giù, a respirare di buono! Insomma, un vero paradiso.

Gaudenzia, poi, sapeva allietare l’ambiente, con un dono tanto più sorprendente quanto spontaneo: la sua risata. Il suo riso era una musica. Gaudenzia, la ridente, scioglieva in trilli gioiosi le sue gentilezze e le sue sorprese più grandi. Quando quel soffio di allegria dilatava anime e corridoi, non si poteva fare a meno di sorridere e di restare contagiati da quel lieto buonumore.

In una sera di burrasca, giunsero alla locanda sette ospiti dall’aria sospettosa e seria, laceri e stanchi, le spalle livide frustate dalla pioggia e dal vento. Fu Donata ad aprire e a trovarsi di fronte l’uomo che li guidava, un tal Seleusio, omaccione grande e grosso, un po’ brusco e un po’ misterioso. Inquisita su tutti gli ospiti dell’ostello, Donata spaventata, ma anche un po’ indispettita, blaterò qualcosa, informando che i clienti erano tutti mercanti in visita a Roma per una fiera. Seleusio parve rasserenarsi. Quindi, confabulò con i suoi compagni e, addolcendo la voce, chiese di poter restare per qualche giorno, nella massima discrezione. Donata non ne capì la ragione, ma li guidò ugualmente alle loro stanze. E non comprese neppure perché questi sette ospiti vollero tutti avere i letti in un’unica stanza, prossima all’uscita sul retro.

La sera, i forestieri chiedevano che fosse servita loro la cena in camera e, del resto, non li si vedeva mai mescolati agli altri avventori.

Incuriosite dal riserbo di quegli strani ospiti, le ragazze tentarono ogni pretesto per avvicendarsi intorno all’alloggio. Dapprima malviste – specie dal quell’ombroso Seleusio – alla fine riuscirono a conquistare gli ospiti con la dolcezza e il sorriso della loro ospitalità.

Ben presto i sette uomini si aprirono alle confidenze. Erano pellegrini cristiani, venuti a Roma per visitare in incognito le tombe di Pietro e di Paolo. Arrivavano da Gerusalemme e, dopo aver sentito la storia di un certo Gesù che era morto e risorto in quella città santa e aver respirato l’aria di quella terra che profuma di Vangelo, si erano decisi a partire in pellegrinaggio per Roma.

“Cose dell’altro mondo!”, pensavano le romane, “tutta quella fatica e tutti i disagi di quel lungo viaggio per cosa? per una fede? per un Dio unico e pure invisibile?” Talvolta i pellegrini parlavano di questo Gesù. Di santi e di martiri. Di apostoli. Di miracoli e di promesse.

Gaudenzia, da qualche giorno, pur senza aver perso la sua gioconda risata, taceva e lasciava le parole di quegli uomini frangersi e lambire il suo cuore di fanciulla pagana. Fu la prima, una sera, a chinare il capo e a segnarsi la fronte e il petto alla maniera dei cristiani. Dopo qualche giorno, tutte e sette chiesero di essere ammesse alla preghiera vespertina dei pellegrini.

Incantati da tale conversione e da tanta virtuosa ospitalità, Seleusio e i suoi compagni finirono per scordare ogni cautela.

Soldati romani, informati da qualche galantuomo, fiutavano già da qualche giorno odore di cristiani nei pressi della locanda. E un mattino, eccoli lì, sulla soglia dell’ostello, branco di cani sciolti e ringhiosi, assetati di sangue di martirio.

Gaudenzia e le sue compagne non si persero d’animo. Fecero fuggire dal retro gli amici pellegrini. Poi, per dare loro modo di allontanarsi, finsero un sonno pesante. Poi una porta riottosa, che non ne voleva sapere di aprirsi. Quando alla fine i soldati la scardinarono, sgranarono occhi innocenti e dinieghi caparbi. Versarono del vino a inscenarono persino una lite furibonda. I soldati al principio restarono affascinati da quelle sette vivaci bellezze, e guairono, scodinzolando un po’. Ma poi il capo branco, in un rigurgito di disciplina, alzò la voce e ordinò di portarle via per interrogarle.

Ormai lontani, i pellegrini fuggiaschi non poterono udire gli strilli di sdegno e di paura delle povere fanciulle.

In una domenica d’autunno, insolitamente tersa di nuvole, Gaudenzia e le altre chinarono il capo per l’ultima volta, offrendo alla scure del boia la loro giovane carne. Ostina, Rustica, Serena, Risolina, Donata e Serotina sorrisero un attimo prima della morte. Gaudenzia, spiccò verso il cielo la sua formidabile risata, dedicata alla fede a cui aveva aperto il cuore.

Leggenda popolare del Lazio


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