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Credo la Chiesa: Santa

Gruppo del venerdì
Febbraio 1998

Il discorso iniziale dell’altra volta era assolutamente centrale ed era che la differenza, l’eccedenza che c’è tra la descrizione della chiesa che sta nel Credo, dunque dalla parte di Dio, della rivelazione, e la realtà, l’esperienza concreta che nella storia uno fa di chiesa, questa differenza non è occasionale, cioè che a volte c’è e a volte non c’è, nè è semplicemente frutto del peccato; è anche frutto del peccato, certo, ma la sostanza è che quella differenza è in qualche modo ontologica, cioè è la differenza che c’è tra la chiesa vista dalla parte di Dio e la chiesa realizzata nella storia.

E’ indice di quella realtà che Lumen Gentium indica dicendo “la chiesa è mistero”, dove mistero non vuol dire una cosa che non si capisce, ma vuol dire qualcosa la cui verità sta nascosta da sempre in Dio e che dunque nel tempo della storia, dalla parte degli uomini, non sarà mai comunque totalmente svelata, totalmente visibile, totalmente sperimentabile.

Ho ridetto queste cose perché mi pare che siano decisive. La tendenza rispetto a questi discorsi sulla chiesa è quella di considerare da una parte un ideale, e si può discutere con quali criteri si dice questo ideale (alcuni dicono che l’ideale è quello della chiesa del Nuovo Testamento, altri fanno proiezioni di tipo culturale: l’ideale è quello che io penso, ecc.), poi si fa l’analisi del reale e si dice “nelle nostre parrocchie non è così, i nostri parroci, il papa di Roma, non funzionano così”. Si fa, cioè, tutto un elenco di ciò che non funziona e questa lettura alla fine ha per risultato l’affermare che la chiesa non funziona, e questo accade perché questa è una lettura di tipo ideologico e non teologico.

Questo atteggiamento è, proprio come metodo, sbagliato, rispetto alla chiesa. Può piacere o non piacere, ma ciò che la chiesa dice di se stessa non è un dato ideologico, cioè un rapporto tra un ideale ed un reale, ma dice “c’è un mistero che è visto dalla parte di Dio”. Dice la stessa cosa che dice per ogni persona: ognuno di noi contiene in sé l’immagine di Dio, ma non è detto che tutti quelli che si incontrano dal mattino alla sera facciano pensare immediatamente di essere l’immagine di Dio e neppure quando incontriamo noi stessi pensiamo di noi, nell’esperienza della nostra vita, di essere sempre, comunque e chiaramente l’immagine di Dio; spesso si vive come l’immagine di una confusione.

Ma la chiesa dice “ognuno di noi ha dentro di sé l’immagine di Dio e questo dentro di sé non è la profondità della sua psiche, ma piuttosto è il futuro che l’attira, è quella verità di sé, in Dio, che ci sarà comunque pienamente disponibile solo l’ultimo giorno”. Ma, pur non essendoci oggi disponibile, è per noi già operativa; questo significa che noi possiamo desiderare di più, essere di più, un po’ alla volta diventare, non tanto migliori nel senso etico, ma più vivi, più noi stessi perché c’è questa ipotesi che comunque funziona in modo già operativo, come se fosse già qui anche se ancora non c’è.

La chiesa funziona allo stesso modo: una, santa, cattolica, apostolica è la chiesa dalla parte di Dio. Il che però non vuol dire “laggiù” e allora qui facciamo tutto ciò che ci pare; ma invece la chiesa è tanto più vera quanto più è operativo questo principio: che comunque avrà sempre una eccedenza, una distanza perché questo è quella che Lumen Gentium chiama “l’indole misterica della chiesa”; non si può confrontare e valutare il cristianesimo senza questo principio per cui la verità di noi, della storia, del tempo, della chiesa, delle istituzioni, non è all’interno del soggetto, ma fuori di lui.

Questo sarebbe il principio creaturale. Quando diciamo che siamo creature diciamo che la verità di noi, di tutto ciò che desideriamo, speriamo, amiamo, dell’istituzione, della storia, ecc., non è interna al soggetto di cui si parla, ma è una referenza esterna. E questo è il principio misterico, è il fatto che la distanza che c’è tra me o l’esperienza che faccio o la chiesa che incontro o che vedo, a tutti i livelli, anche della storia che vivo, della politica che faccio, la distanza tra questo e il principio operativo di verità che è esterno a me è una distanza ontologica, strutturale, perché solo nel regno dei cieli questa verità esterna e il soggetto possono coincidere. Nella storia no, nella storia la verità è sempre esterna al soggetto.

Questa cosa, soprattutto parlando delle quattro note, è importante perché altrimenti l’unica cosa che si può fare è dire che la chiesa non è una, non è santa, non è cattolica e non è apostolica. Questa è la realtà. Allo stesso modo si può ragionare su “Gesù ha salvato il mondo con la sua resurrezione”. Se questo è vero, allora io mi guardo intorno, il mondo non è salvato per niente, dunque la resurrezione non funziona. E’ lo stesso tipo di principio.

Quello che fa la differenza tra un credente e un non credente non è l’accettazione più o meno critica di alcuni principi, o lo svendere la propria intelligenza per far finta di essere convinti che la chiesa sia una, santa, cattolica, apostolica; quello che fa la differenza tra un credente ed un non credente è l’accettazione del principio misterico, cioè l’accettazione del fatto che una cosa non è totalmente compiuta in ciò che in questo momento nella storia si vede di lei. La mia vita non è totalmente compiuta in ciò che io comprendo di lei, la chiesa non è totalmente definita dalle esperienze di chiesa che si fanno, e così via. Questo è veramente un principio fondamentale.

Intervento: frequentando più volte la messa ultimamente sono diventata più benevola, e mi sono accorta che ho visto le cose in modo diverso, al di là del sacerdote e del tipo di predica che fa.

Certo, si continua a rendersi conto se una predica non vale niente, ma è la reazione ad essere diversa, nel senso che l’unico criterio non è più solo quello se una predica vale o non vale, il criterio di giudizio sull’esperienza diventa un altro.

Questo è abbastanza definitorio e definitivo. Quante volte abbiamo discusso sul fatto che si sceglie o non si sceglie di credere, cosa sceglie veramente, ecc. Cominciamo a riuscire a dire bene quanto abbiamo detto tante volte: il problema non è che uno sceglie o non sceglie di essere credente, in base al fatto che decide di osservare tutte le regole. Altrimenti, da un certo punto di vista, saremmo rimasti all’ebraismo, nella Legge e nei suoi precetti. Ma il cristianesimo è tutta un’altra cosa, si muove in un’altra logica che è questa: uno si distingue se è credente o no se accetta il principio misterico, se ha un atteggiamento misterico di fronte alle cose che accadono a sé e agli altri oppure no. Che poi si dica cattolico romano e vada tutte le domeniche a messa, non fa molta differenza, nel senso che se non opera il principio misterico, dal punto di vista della configurazione teologica, non è credente.

L’altra volta avevamo parlato della chiesa una, adesso dovremmo parlare un po’ della chiesa santa. Questo è un attributo su cui meno che sugli altri si discute, perché tra le quattro note è quella apparentemente meno foriera di polemiche, tranne che per il fatto che si dice santa, ma con molti peccati. Ma si aggiusta sempre dicendo “santa e peccatrice” e, tutto sommato, ciascuno di noi ha l’esperienza in se stesso della convivenza tra le sue parti buone e quelle meno buone. Chiunque abbia più di quindici anni sa che è abbastanza difficile anche di se stessi dire “tutto buono o tutto cattivo”. Quindi su questa cosa si è abbastanza tolleranti nell’accettare che anche la chiesa abbia fatto dei pasticci, sia insensata e poi gli uomini sono peccatori…

Invece, rispetto alla definizione delle quattro note, questo è l’aggettivo più anticamente accoppiato a chiesa, molto precedentemente alla definizione delle quattro note tutte insieme. La chiesa santa è definizione antichissima, già del I secolo, e tra le quattro note è forse la più definitoria, la più centrale.

Santo è sempre detto, sia nei testi rispetto alla chiesa che nel NT, come ciò che qualifica l’essenza di Dio. Noi siamo abituati a pensare che Dio è amore. Questa è una riflessione tarda, post-ottocentesca, nel senso che sta anche nel NT, che Dio sia amore, ma questa qualificazione per molti secoli è stata una qualificazione di qualità, non di identità, come noi oggi diremmo “Dio è buono”. Era un aggettivo non un nome. L’identità di Dio è sempre stata che Dio è il Santo, per moltissimi secoli.

Questo, guarda caso, si è capovolto con la rivoluzione borghese, fine settecento-ottocento, quando le qualificazioni morali sono diventate qualificazioni di identità, cioè è stato qualcosa che è arrivata dalla cultura esterna, non originaria dal pensiero del NT, quando più importante di chi era uno, è diventato cosa faceva. La qualificazione morale come qualificazione di identità è diventata preminente sulla qualità dell’io, del soggetto. E il pensiero teologico ha semplicemente mutuato le categorie culturali di quel tempo e questo a noi funziona bene perché siamo ancora dentro a questa struttura un po’ moralistica. Di per sé la qualificazione più classica e più duratura di Dio è che Dio è il Santo.

Santo è “separato”, ma non dall’ordinario, come il sacro (tutte le culture hanno un tempo sacro, dei luoghi sacri in quanto non sono quelli ordinari; c’è il tempo del lavoro e poi il tempo sacro, cioè ci sono i luoghi di vita abituale e poi i luoghi sacri che in genere sono coperti da tabù). Sacro è costruito sul binomio: ordinario-separato dall’ordinario. Santo invece è costruito sul binomio: relazionato a Dio-non relazionato a Dio. Santo è ciò che è separato perché è in relazione a Dio e si separa da tutto ciò che non è in relazione diretta a Dio; è santo tutto ciò che attiene all’identità stessa di Dio che è il santo perché è totalmente in relazione a se stesso, perché tutto ciò che Lui è, fa e dice è perfettamente la sua identità.

Questo è molto importante perché rispetto a una-cattolica-apostolica, santa, dice dell’identità della chiesa e della sua radicale relazione a Dio. La chiesa santa non vuol dire un dato morale, contrario di peccatrice, ma la chiesa è separata perché totalmente in relazione a Dio, non dice direttamente delle sue qualità morali.

Intervento: santo, in quanto separato dal bene e dal male, rispetto all’assoluto che è separato dal contingente.

Questo è un ragionamento che con il discorso del Credo non c’entra niente, intanto perché parte dalla definizione di Dio come assoluto separato dal contingente, che è una definizione filosofica, non cristiana. Il Dio dei cristiani è un Dio incarnato. Io dicevo separato non dall’ordinario, dal contingente, non separato come l’assoluto è separato dal contingente, ma separato in quanto in relazione a Dio che è un Dio incarnato per i cristiani, dunque totalmente immesso nella realtà. Ma il problema è che la relazione che la chiesa ha con le cose, con quello che si chiama il contingente, passa per la mediazione di Dio. La chiesa ha una relazione alle cose solo perché Dio si è incarnato, perché lei di per sé ha solo una relazione a Dio; come se avesse una sola porta d’uscita, la sua porta è su Dio e poi poiché Dio è aperto a tutto, passa sempre da Dio per arrivare alla realtà. Questo vuol dire la chiesa santa.

Quindi non è immediatamente contrario all’essere peccatore, ma passa sempre da Dio e, quanto più passa da Dio tanto più è santa. E tutte le volte che non passa da Dio, ma va direttamente alle cose, in genere combina guai e si allontana dalla sua qualità di santità. La chiesa può rivolgersi direttamente alle cose anche senza passare da Dio, con un atto anche moralmente neutro o anche buono (ipotesi: supponiamo che l’umanità scopra che è un bene per tutti coltivare il mais verde in quanto può sfamare tutti e che la chiesa ne propagandi la coltivazione. Ciò è un’opera meritevole, ma la chiesa fa questo attraverso la sua relazione a Dio, perché Dio si prende cura del suo popolo anche mediante le scoperte delle scienza, perché questo salvaguarda i poveri, allora in forza di tutto questo la chiesa propaganda il mais verde. Ma, nel momento in cui la chiesa fa propaganda solo perché è d’accordo con il mais verde, allora s’allontana dalla sua santità anche se questa non è un’azione in sé colpevole).

Questa cosa è molto importante, perché una delle cose su cui spesso si fanno polemiche è se la chiesa deve intervenire o no, se deve dare opinioni su questo e quello; in genere oggi l’idea più diffusa è, sostanzialmente, che la chiesa dovrebbe intervenire quando deve dire le cose che penso io ed astenersi quando deve dire le cose che non penso io (per esempio, siamo tutti incavolati perché la chiesa non prende una forte posizione contro la pena di morte, problema di civiltà, e siamo altrettanto indignati perché la chiesa parla molto di etica sessuale).

Di per sé che la chiesa parli o no della pena di morte può essere o no un problema a seconda di come e perché parla di queste cose in relazione a Dio. Che poi io, cittadino di questo secolo, pensi che è una barbarie, politicamente, educativamente inutile, non ho bisogno di essere cristiano per pensarlo nè dà maggior forza a questo pensiero il fatto che io sia cristiano o no. Questa cosa resta vera di suo, ha una sua fondatezza su cui le persone civili dovrebbero poter trovare un consenso intorno ad alcune questioni.

Commento: basterebbe che la chiesa, passando dalla porta di Dio, negasse validità alla pena di morte e si interessasse meno della morale sessuale.

Il problema non è che la chiesa sceglie di suo se passare da quella porta o no; il problema è come si valuti oggettivamente che c’è una relazione di queste cose alla relazione con Dio. E, per esempio, per un motivo molto banale di tempi, sulla questione della sessualità umana i teologi hanno cominciato a riflettere più o meno dal tempo di Tommaso, quindi, la possibilità di riflessione di eventuali legami e implicanze con questo “passare dalla porta di Dio” ha una lunga storia ed è ampiamente valutato ed assodato questo passaggio, mentre sulla pena di morte si discute da meno di un secolo e dunque il problema ha, per ora, un peso diverso. Personalmente sono convinta che progressivamente si scopriranno una serie di metodologie generali rispetto a questo tema. La mia posizione teologica, quindi un’opinione assolutamente personale, è che oggi è molto più importante il problema delle questioni di metodo generale che non i singoli temi; è molto più grave che la chiesa non stia riflettendo sui suoi legami alla storia attraverso Dio in generale che non che non parli della pena di morte. Trovo più grave che da trent’anni non si scriva più un libro sul rapporto con la realtà secolare e che non si ragioni di più sul metodo.

Intervento: sono stato molto colpito, leggendo i giornali, dal fatto che il papa ha detto delle cose rivoluzionarie a Castro quando ha detto “nè l’ateismo nè la credenza in Dio dovrà essere alla base del governo di uno stato”, cosa che i laici dicono da tanto tempo, ma che nella chiesa non si era mai sentita con questa nettezza. Questo è un tema metodologico.

Vorrei vedere il testo, non la traduzione o il riassunto giornalistico. Certamente questo pontefice, nell’ultimissimo scorcio del suo pontificato, secondo me, sta cominciando a porsi alcuni problemi di metodo, anche relativamente innovativi rispetto ai problemi di metodo che si sono posti in questo secolo, molto interessanti, ma si sta ponendo tutti problemi di metodo in relazione all’esterno; i veri problemi di metodo che non si pone sono quelli sulla gestione interna della chiesa. Indubbiamente la visita a Cuba è stata, per molti versi, da questo punto di vista, una grossa situazione da studiare perché anche la convinzione dei primi dieci anni di questo pontificato, che il grande male era il comunismo e basta e che, battuto questo, c’era la soluzione dei problemi, è del tutto passata e il discorso si è molto riequilibrato. Sono tutte cose su cui vale la pena di pensare, ma non basta che sia solo il papa a dirle, morto un papa ne viene un altro, ma la chiesa di Dio resta e il problema è cosa di ciò che un papa ha detto è passato ed ha creato mentalità di chiesa.

Il problema comunque è che la chiesa ha da essere in relazione alle cose del tempo e della storia per questa sua relazione a Dio; che poi sia sempre facile discernere nel concreto, nella necessità di prendere decisioni immediate, questo no, anzi, in genere, questo si discerne solo con dei tempi abbastanza lunghi che non sono i tempi della storia perché nel frattempo si doveva decidere. Mi pare che nell’immediato postconcilio questa cosa, applicata in modi più o meno discutibili, con grandi discussioni sul discernimento, era più chiara; ad esempio l’opzione dei poveri era molto chiaramente centrata nella relazione a Dio. Nel grande uso che si è fatto dell’Esodo come testo di liberazione era molto chiaro che il discorso era in relazione a Dio e all’atto di liberazione di Dio, e che solo questo può diventare paradigma per la liberazione dei poveri. Mi pare che oggi questa faccenda sia un po’ meno chiara, questa relazione un po’ meno stretta e diventa invece il dire: circa questo tema cosa pensa la chiesa? E si invita l’esperto onnipresente, come se la chiesa dovesse avere competenze su qualsiasi cosa, dai cobas del latte alla fecondazione in vitro, alla bioetica…..

A proposito della questione sulla santità sono piuttosto indicativi due numeri della Lumen Gentium (48 e 39) dove si chiarisce bene, chiamandola con i termini tecnici come in tutti i documenti, “l’indole escatologica della chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste”. La chiesa peregrinante sarebbe la chiesa nel tempo della storia, non come eravamo stati abituati a pensarla come quelle persone che sono ancora nella storia e poi la chiesa celeste sarebbe quelli che sono già morti e sono nell’aldilà e farebbero la riproduzione di quello che è di qua, ma la chiesa peregrinante e la chiesa celeste sono la chiesa sotto il regime storico e la chiesa sotto il regime misterico, nel cuore di Dio che non è solo così come Dio la pensa e anche tutti quelli che come persona sono già nel cuore di Dio, ma non è solo l’insieme delle persone che sono già morte. E quello che qui si dice è “indole escatologica della chiesa peregrinante e il suo legame alla chiesa celeste”, cioè la chiesa peregrinante ha un indice escatologico, finale (“non si è un buon pellegrino se non si ama insieme la terra e la meta”. Bonhoeffer. Perché se non hai una meta non ti metti in cammino, ma se non hai una terra che ti porta, alla meta non arrivi). L’indole misterica della chiesa sta in questa logica: i due momenti del viaggio non sono identici, ma è anche vero che, come sa chi va in montagna, è difficile dire se è più bello arrivare o più bello camminare per arrivare; le due esperienze non sono sganciabili.

Come funziona che la chiesa sia santa, quali sono i criteri base di questo legame della chiesa a Dio? Ancora una volta la chiesa è santa per lo stesso motivo per cui è una, per la santità dei suoi elementi: la fede, i sacramenti, i doni carismatici e gerarchici, cioè i quattro elementi che costituiscono la chiesa nella storia sono contemporaneamente la sua visibilità concreta e la pienezza dell’indole escatologica. Cosa vuol dire che uno crede? Vuol dire che accetta questo sbilanciamento su una verità che è fuori di lui. Che cosa vuol dire partecipare ai sacramenti? Vuol dire accettare questa dinamica della liturgia che è sbilanciata ed è quell’esperienza di centratura in Dio che ancora non c’è. Che cosa vuol dire riconoscere i doni dello Spirito, la vita secondo lo Spirito e i doni gerarchici? Vuol dire ancora una volta essere sbilanciati in questa fondazione misterica. Questi quattro elementi costituiscono tanto la visibilità storica quanto, in modo inscindibile, l’indole escatologica, la santità propria della chiesa.

Il ragionamento è molto complesso, ma gli elementi sono sempre quelli. L’esperienza cristiana, in fondo, è fatta di quattro o cinque principi fondamentali che poi diventano una costruzione bellissima, ma gli elementi messi in gioco sono veramente pochissimi, sono operazioni e pochissime cifre: fede, sacramenti, parole di Dio, carità, vita nello Spirito, gerarchia. E poi ci sono: l’indole misterica, il principio dell’incarnazione, tre-quattro operazioni, e su questo si articola sui tempi, sulle culture, sui pensieri, sulle storie, sulle esistenze personali, collettive, sulle istituzioni, in un modo veramente incredibile.

Chiaramente il problema è che quando nelle parole della fede questi pochi elementi si distorcono, basta distorcene un paio e la costruzione è tutta diversa. Per questo è così grave che il popolo di Dio sia stato per alcuni versi, per alcuni tempi, privato della parola di Dio, perché essendo pochi, se ne viene distorto anche solo uno, la costruzione si sbilenca tutta e diventa piena di mostri, di idee strane, di pregiudizi.

Il secondo modo per cui la chiesa è santa è per il suo carattere sacerdotale, non dei sacerdoti ma del munus sacerdotale; per il battesimo tutti coloro che sono battezzati sono inseriti nei tre doni di Cristo: la profezia, la regalità e il sacerdozio. Per dirla in modo semplice tutti hanno il dono e il diritto della parola secondo Dio, passando dalla parte di Dio, tutti hanno il dono e il diritto della trasformazione delle cose secondo Dio, tutti hanno il dono e il diritto di una relazione qualificata sacrificale rispetto a Dio, di offrire a Dio le cose e alle cose Dio.

Per questo carattere sacerdotale la chiesa è santa, attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana tutti noi, ma non per il nostro comportamento morale, non perché se siamo buoni, rendiamo la chiesa santa; rendiamo la chiesa santa per il fatto di essere battezzati, per il nostro esistere. La chiesa è santa attraverso il nostro carattere sacerdotale.

Questo, secondo me, è un tema dimenticatissimo. Cosa vuol dire che i cristiani sono un popolo sacerdotale, è la cosa più dimenticata; che cosa vuol dire l’offerta, che nell’800 si insegnava, a Dio della vita. Il carattere sacerdotale sarebbe la vita totalmente offerta che non passa solo attraverso l’offerta delle singole cose. E così come tra due persone, dato che se ne parla solo quando si è in crisi, è difficilissimo spiegare, esattamente allo stesso modo è difficilissimo spiegare che cosa è il carattere sacerdotale nella relazione con Dio perché sta esattamente da questa parte. Ma proprio per questo è la questione più grossa, più qualificante perché noi abbiamo tanti amici ma in genere abbiamo un marito, una moglie e tutto il resto viene poi configurato intorno a questo rapporto per cui è vero che la gente conserva i suoi amici oppure no o ne conserva alcuni a seconda del fatto che ha sposato uno anziché un altro partner.

Il carattere sacerdotale è questo, questa offerta della vita che riconfigura tutto e apparentemente non cambia più di tanto, ma in realtà cambia veramente tutto, e non è esauribile in nessuna cosa pur essendo esemplificabile con tante cose.

Si dice: il carattere sacerdotale è l’esperienza della preghiera, il che non è falso, offrire le proprie sofferenze, le proprie gioie a Dio, tutte queste cose sono vere, ma sono tutte contemporaneamente un elenco che dice qualcosa, ma non rende conto della relazione. Il carattere sacerdotale è il carattere per cui noi ci mettiamo con la chiesa, nel momento del nostro ingresso con il battesimo, dalla parte di Dio, dunque a riconfigurare tutta la nostra esistenza passando da Dio. Così come uno quando incomincia a dire “noi” in una relazione più o meno consciamente riconfigura tutta l’esistenza a partire da “noi” e non da “io o te”.

A questo punto anche la chiesa è santa per la grazia e la virtù, cioè non è irrilevante il fatto che il passare per Dio è passare per la carità di Dio, dunque è chiaro che la grazia e la virtù rendono santi. Da questo punto di vista ci sono una serie di questioni: Lumen Gentium dice che chiunque vive secondo lo Spirito, è da intendersi santo”. Che cosa è una vita secondo lo Spirito? Non a caso non dice “chiunque vive in Dio”, ma “nello Spirito” che nella Scrittura è l’immagine del vento che soffia dove vuole, della somma libertà, della gratuità di Dio, assenza di qualsiasi definizione e appartenenza. E Lumen Gentium 14 dice ancor più gravemente “non si salva però, anche se incorporato alla chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì nella chiesa con il corpo, ma non con il cuore”. Questa è un’affermazione pesante nel senso che non si dice che non si salvano coloro che non sono nella chiesa, ma si dice con certezza che non si salva chi, anche se incorporato alla chiesa, non vive secondo la carità.

E’ molto pesante come affermazione, perché il Concilio Vaticano II sulla salvezza, in genere dice che è nelle mani di Dio, ragiona sull’appartenenza alla chiesa, alla gerarchia delle verità con un discorso su ciò che attiene alla chiesa, lasciando a Dio il giudizio sulla salvezza; su questo invece dà una indicazione forte.

Noi abbiamo un’idea un po’ magica del peccato contro lo Spirito, siamo abituati a pensare tradizionalmente quello che si è insegnato per molti anni prima del Concilio, che il peccato contro lo Spirito era la disperazione, che uno disperasse della possibilità della propria conversione, quindi disperasse della potenza di Dio nel convertirlo; questo è vero ma è l’ultimo anello di concretizzazione di un tema complesso e nel momento in cui poi si è via via esemplificato si è anche minimizzato.

Il peccato contro lo Spirito è il porre la propria esistenza fuori da una vita nello Spirito con tutte le caratteristiche che la vita secondo lo Spirito ha. La vita secondo lo Spirito è una vita fantasiosa, creatrice, giocata più sull’identità che sull’appartenenza, che non si qualifica per qualcuna delle etichette, ma per la corrispondenza tra ciò che uno è, fa o dice di fare. La vita contro lo Spirito è non cercare più la verità fin dove ce l’hai, fin dove ti è disponibile, smettere di cercare la verità di sé.

Domanda: sarebbe un identificarsi con chi è mentitore per eccellenza, cioè con satana?

Esattamente, e per questo si dice tradizionalmente che il peccato contro lo Spirito è imperdonabile, cioè nel momento in cui tu entri nella logica della menzogna ti “satanifichi”. Infatti il peccato contro lo Spirito per tutti i Padri è il contrario del “verbificarsi”: un cristiano vive secondo lo Spirito perché si verbifica, si fa come il Verbo; un cristiano non vive secondo lo Spirito e non resta fermo. Se vive secondo lo Spirito diventa immagine del Figlio che è immagine del Padre, se non vive secondo lo Spirito diventa simile a satana facendo in sé la menzogna.

La chiesa viene detta indefettibilmente santa. Il termine “indefettibilità” viene spesso usato rispetto alla chiesa e vuol dire tutto il discorso fatto precedentemente sull’indole misterica, cioè non invariabilmente o infallibilmente santa, ma che non può deviare dalla santità così tanto da causare una confusione, una perdita per i discepoli; dunque che la possibilità di allontanarsi dalla santità esiste, che la chiesa non è sempre visibilmente santa, ma non può mai accadere che su cose che mettano in pericolo la fede dei credenti venga meno. Indefettibilmente è sempre in relazione alla cura pastorale, ai discepoli, non in quanto a sé.

Commento: forse è un po’ glorificante? O è una garanzia?

Penso spesso che una delle tensioni della politica attuale dovrebbe essere quella di diventare in un certo senso indefettibile nel senso di una politica che non è perfetta, in quanto non esiste una politica perfetta, ma che abbia come criterio la garanzia dei cittadini, cioè che si strutturi sul criterio che i proprii errori siano tollerabili fino al punto in cui non danneggino gravemente, che scattino i meccanismi di controllo.

Intervento: sapendo però che ci possono essere degli errori. Qui invece si dice che i meccanismi di controllo sono sempre efficaci e non permettono di deviare.

Ma il meccanismo di controllo per la chiesa è lo Spirito Santo. Per la politica lo scopo dovrebbe essere trovare, costruire progressivamente meccanismi di controllo che scattino sempre in modo da evitare il danno, non fare mai un fuoripista pur sapendo che ci possono essere una serie di deviazioni del sistema. La politica non può essere pensata sull’ipotesi di società di giusti, costruire le leggi a partire dal principio che gli uomini sono buoni, perché una società costruita così crolla nel giro di poco tempo.

Allora una politica va costruita sul principio che gli uomini devono essere messi nella condizione di essere controllati secondo la costruzione di un modello che sia il più possibile garantista, avendo come criterio il cittadino e questo sarebbe, in teologia, il principio di indefettibilità. Il problema è quale criterio si prende: si può avere come criterio un progetto politico, magari bellissimo, ma che fallisce perché c’è sempre un punto in cui il progetto stesso massacra la gente e non dipende dal progetto, ma dal fatto che se il criterio è il progetto esso diventa più importante di tutto. Allora la grande innovazione della modernità è il criterio sulla difesa del cittadino singolo e della collettività.

Dunque la definizione esatta in teologia, secondo Lumen Gentium, è la chiesa imperfettamente e indefettibilmente santa con i due avverbi messi sempre insieme perché questo dice la realtà della chiesa nel tempo.

Lumen Gentium dice: “Tra le tentazioni e le tribolazioni del cammino la chiesa è sostenuta dalla forza e dalla grazia di Dio promessa dal Signore affinché per l’umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo Signore e non cessi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa finché, attraverso la croce, giunga alla luce che non conosce tramonto”.