Cristianesimo e modernità (VII)
Gruppo del venerdì
Novembre 2004
Concludiamo il commento della volta scorsa.
Freud è figlio del positivismo ottocentesco, anche più semplificatorio, per cui la religione sarebbe un fatto patologico, un’espressione infantile, alienante. Jung invece dice che non necessariamente il fatto religioso è di per sé patologico. Jung è soprattutto ricordato per i suoi studi sugli archetipi, sulle figure, sulle immagini e ricorrenze che appaiono come trasversali a tutte le culture. Il suo interesse sta nel tentare di stabilire se esiste a vari livelli qualcosa (scultura, immagine, linguaggio, parola) che possa essere attribuito all’umano tout court,semplicemente, al di là di ogni tipo di mediazione, qualcosa che possa essere chiamato “umano”. Ovviamente, secondo Freud, l’unica cosa veramente umana è il principio del piacere, la libido che muove tutto il resto. Secondo Jung questa interpretazione non è corretta. Egli dice che esiste non solo un principio motore che possa essere detto umano, ma esistono già delle elaborazioni: gli archetipi. L’esempio classico sono le immagini del sole e della luna che sono sempre il mondo maschile ed il mondo femminile e, secondo Jung, sono transculturali; poi vengono mediati in modo diverso ma, alla fine, tutte le religioni, le mitologie, hanno un accoppiamento del femminile alla luna e del maschile al sole, alla forza, alla guerra.
Ovviamente le religioni, da questo punto di vista, sono il territorio più forte e fecondo, e quindi, a partire da questo, Jung recupera il mondo religioso come una delle forme espressive possibili di ciò che è radicalmente umano. Drewermann è invece un teologo, prete, contemporaneo, ancora vivente, che ha lavorato soprattutto sul mondo delle fiabe, sul fatto che tutte le culture hanno delle fiabe con un genere letterario proprio ed in cui narrano delle fantasie con l’uso di strutture ricorrenti.
“Un’apertura di credito alla religione, da parte della cultura, sembra oggi venire da linee di pensiero che, ad esempio in psicologia (ma non solo), si rifanno a Carl G. Jung. È nota inoltre la querelle intorno all’opera “psicoteologica” di Eugen Drewermann. Che ne pensa?
In verità io non amo troppo Drewermann, o meglio l’ultimo Drewermann – non quello dei primi lavori sui temi dell’angoscia e della colpa. Fondamentalmente Eugen Drewermann è uno junghiano: egli compara i testi dei Vangeli con le fiabe, con i racconti per i bambini, ecc. E noi sappiamo che per Jung, come appunto per l’ultimo Drewermann, non vi sono in fondo differenze tra i racconti e le fiabe da un lato, e i Vangeli dall’altro. Invece le parole e i fatti di Gesù, anzitutto la resurrezione, non possono essere intesi come una storia pedagogica analoga alle fiabe per i bambini. Ebbene l’ultimo Drewermann compie sistematicamente questa confusione e io ho orrore di ciò. Quanto a Jung, egli ha meritoriamente individuato e denunciato alcune rilevanti debolezze nelle teorie di Freud, ad iniziare dalla teoria del simbolo. Ma quando Jung scrive, ad esempio in Risposta a Giobbe, che bisogna parlare piuttosto della “quaternità” di Dio e non della Trinità – perché in Dio a suo giudizio vi sarebbero il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo e il diavolo – allora comincia a fare il teologo. E ogni volta che compie una tale operazione, Jung non fa della psicologia, bensì della filosofia religiosa o della modesta teologia. Quella di Jung è una gnosi, un sapere simbolico–psicologico; introducendo il simbolo religioso nella terapia, questa diventa religiosa e la religione diventa terapeutica, fin quasi a perdere la differenza tra i due ambiti, appunto come nelle antiche gnosi. Drewermann ha ripreso e riprodotto tutto ciò con un linguaggio soprattutto cristiano, mentre Jung si identificava in fondo con un Cristo migliore di Gesù, e in questo senso era un “anticristo”- come suggerisce il titolo di un libro americano dove sono stati studiati i suoi testi postumi, i Nachlassen.”
Due sono qui le cose interessanti perché molto comuni al nostro modo di pensare, cose che ci sono entrate dentro spesso in modo acritico: il tema della gnosi ed il tema della religione come terapia. L’idea gnostica è in fondo quella che noi abbiamo, in un certo senso, del cristianesimo oggi, cioè che il problema sia conoscere la verità ed una volta che la verità è conosciuta, allora la verità si fa, dove il “si” è impersonale; cioè attraverso noi e la nostra vita, bene o male accade. E questo cambia il circuito della storia in tempi lunghissimi e soprattutto cambia se il maggior numero possibile di persone conoscono ed accettano la verità. Il grande nemico del cristianesimo fin dall’antichità è la gnosi.
Domanda: la gnosi è un’eresia?
Non in senso proprio, la gnosi è precedente al cristianesimo, è una delle correnti filosofiche del mondo greco in cui si cercava la conoscenza per un cambiamento, per interpretare e modificare il mondo; era legata a scuole, a maestri che la insegnavano e a discepoli che si accodavano ed aveva un certo successo. Quando compare il cristianesimo, che invece si presenta come annuncio strutturato non istituzionalmente come oggi, si vede subito che queste due percezioni sono fortemente nemiche, con logiche completamente diverse. In seguito a questo ed a molti che erano tanto gnostici quanto cristiani, c’è un’eresia che si chiama gnosi cristiana; cioè un gruppo di cristiani i quali sostengono che la gnosi sia conciliabile con il cristianesimo e che vengono dichiarati eretici dai concili dei primi secoli. È un po’ come dire il cristianesimo e il marxismo: il cristianesimo non ha mai percepito il marxismo come un’altra religione perché è un’altra cosa. La percezione che il cristianesimo ha avuto del marxismo è diversa da quella avuta dell’ebraismo al quale ha sempre riconosciuto di essere un percorso religioso; rispetto alla gnosi il cristianesimo non l’ha mai considerata una religione. Il problema è che, come spesso accade, non è detto che come il cristianesimo veda quelli, quelli vedano se stessi; dunque, la tarda gnosi, quella che nasce dopo la condanna dell’eresia della gnosi cristiana, II – III secolo, alcune correnti si autostruttura come una religione.
Domanda: ma mentre, contro le varie eresie, si definiscono le parole e i concetti, es. vero Dio, vero Uomo, perché la conoscenza per cambiare non andrebbe bene?
Per dirla come l’hanno detto i padri antichi, perché il problema è: o ti salvi da te, o ti salva Dio. Secondo la gnosi tu ti salvi da te, cioè tu fai un percorso di conoscenza e purificazione in cui che ci sia o no un Dio, in termini personali, non fa alcuna differenza; secondo il cristianesimo il tema della salvezza, del cambiamento tuo e del mondo, è segnato dalla grazia, non dalla conquista. Legato a questa questione tra cristianesimo e gnosi, il tema concreto, che tutti i cristiani di tutte le generazioni hanno avuto, è quello dell’ascesi, della rinuncia, dei “fioretti”. Questo tema dell’ascesi era presente nel mondo greco secondo due caratteristiche: quella più gnostica e quella più platonica; per la gnostica l’idea dell’ascesi era legata al tema della conoscenza: l’ascesi è una rinuncia per allargare la conoscenza, per distaccarsi dal materiale (se una cosa ti fa piacere devi rinunciare perché altrimenti metti in moto la passione che è il contrario della conoscenza; le passioni vanno zittite fino a liberarsene). Il tema dell’ascesi platonica era esattamente il contrario: essendo noi anima e corpo, affinché la nostra anima possa migliorare, deve migliorare con lei il nostro corpo; allora occorre un allenamento come per un atleta quando vuole raggiungere un risultato. Il criterio non è: ti piace allora devi rinunciare ma vuoi arrivare lì e ti alleni pere riuscirci. Nel cristianesimo entrambe le idee sono entrate, con grandi oscillazioni perché lo gnosticismo non è un’eresia che si dichiara eretica e se ne taglia via il ramo, ma è un atteggiamento sempre molto intrecciato ed oggi, a mio parere, ha nuovamente una grandissima forza; di oggi si dice che è un tempo neo-gnostico in cui, per tanti motivi e tante forme diverse dall’antichità, c’è di nuovo l’idea di una conoscenza, non necessariamente intellettuale: pensate all’assoluta simbolizzazione del corpo nella nostra cultura; il corpo deve essere perfetto, curato ed ha un grande peso, è come se non avere le rughe ti potesse salvare dal tempo. Qual è la differenza nel fatto di non avere le rughe, da che cosa ti preserva il non averle? Questo tema nel cristianesimo è sempre stato oscillatorio; la gnosi è sempre entrata ed uscita dal cristianesimo ed è veramente il suo pericolo mortale, la sua sorella ombra, il lato oscuro perché o Dio per grazia è l’unico giusto e giustifica e giustifica i molti ingiusti ed allora dentro quello poi ci possono essere molti percorsi (come si reagisce alla grazia ricevuta, come io collaboro, come mi alleno ad essere disponibile alla grazia della salvezza), oppure io, in qualche modo, mi “conquisto” una salvezza. Questi sono temi inconciliabili, non c’è un modo di farli stare insieme.
Domanda: comunque fa parte del patrimonio di ogni uomo, è quasi insita nel codice genetico.
Per esempio…… negli occidentali. È già molto diverso negli africani che hanno molti altri problemi, ma non quello della gnosi perché il pensiero magico è il contrario della gnosi. I bambini non sono mai gnostici. La gnosi è un problema tipico del mondo greco ellenistico; per noi è fortissimo.
Domanda: perché è razionale?
Non necessariamente perché la gnosi può anche essere molto irrazionale, ma è un pensiero che esclude le “potenze”. I grandi nemici della gnosi nell’antichità erano i giudeo-cristiani perché l’ebraismo è più vicino ad un pensiero magico. Nella nostra testa i non gnostici sono popoli passivi, gente che sta lì ed aspetta. Gli orientali ad esempio hanno una struttura abbastanza gnostica con l’idea dell’azzeramento della storia. Noi abbiamo un incrocio tra gnosi e storia; l’occidente è costruito su due capisaldi genetici: il dato gnostico ed il dato storico la cui somma, il risultato finale è l’idea di progresso, progresso ottimista ottocentesco, progresso depresso postmoderno, ma sempre di questo trattasi, dai suoi esempi più deliranti (del tipo adesso esportiamo la democrazia) fino ad esempi più nobili. Il mondo orientale invece ha, da un lato un caposaldo gnostico, ma dall’altro ha il tema dell’illusione della storicità in cui il divenire non esiste. La somma di queste due cose è abbastanza micidiale, mentre, ad esempio, il mondo africano ha una connotazione di pensiero magico. Sono configurazioni diverse.
Domanda: questo ultimo periodo di pagina 80 non l’ho capito: “ …. mentre Jung si identificava in fondo con un Cristo migliore di Gesù….”
Jung riconosceva un Cristo migliore di Gesù e in fondo sosteneva che il terapeuta è sempre un Cristo per il paziente. Il primo punto è quello che riguarda la gnosi; il secondo è quello del rapporto tra religione ed atteggiamento terapeutico che è l’altra grande questione. Tutte le religioni, compreso il cristianesimo, hanno una potenzialità di salvezza, si pongono come un annuncio di salvezza, dunque, in misura maggiore o minore, come un dato terapeutico di guarigione, di liberazione da varie cose; il problema è se ci sono due ambiti, uno religioso ed uno terapeutico oppure un solo ambito, cioè se l’unica cosa che la religione fa è di guarire. Il cristianesimo, anche in questo, ha una posizione, discutibile, strana, ma specifica e qualificante; traducendo in termini religiosi, cattolici, il centro del cristianesimo non è il peccato, ma la comunione con Dio; il problema del cristianesimo non è terapeutico, è altrove, non è guarire ma spostarsi su un altro piano. Noi siamo tutti figli di un cristianesimo molto gnostico in cui l’idea di credere è credere nella verità, come se questo di suo risolvesse e la questione fosse credere o non credere; per di più questa operazione è stata fatta mettendovi al centro la questione del peccato, dunque il cristianesimo come luogo di salvezza dal peccato identificando con il peccato tutti i mali possibili, dalla sessuofobia a tutte le fobie immaginabili. Dunque giustamente il popolo cristiano si è fatto venire quelle domande, che tutti si sono posti e si pongono: ma se io sono buono, mi comporto bene e non ho peccati tanto gravi, perché invece di guarire mi ammalo? E’ la domanda giusta rispetto al procedimento ma con il cristianesimo non c’entra, salvo poi che a tale domanda non c’è una risposta perché il cristianesimo non è una garanzia rispetto ai mali possibili dell’universo.
Sì, certamente.
Domanda: Il problema è che alcuni decenni fa, probabilmente dopo il concilio, questa centralità e quindi questa azione terapeutica del cristianesimo è andata leggermente sfumando ed ora sta ritornando alla grande in una maniera pazzesca; giustamente i giovani fuggono da una realtà di questo genere.
Dipende, i giovani hanno un atteggiamento molto ambiguo: per un verso fuggono, per un altri versi lo cercano disperatamente, si vedano le giornate mondiali della gioventù. In realtà il problema è che il cristianesimo ha riproposto la sua valenza terapeutica ma, come terapia rischia di funzionare molto male, almeno per come è strutturato per cui se uno va in parrocchia in genere non si sente meglio e quindi non ci va. Se invece a 18 anni partecipa alla giornata della gioventù si sente meglio, “eroico”. Melloni ad esempio dice che non è tanto grave che il cristianesimo sia stato presentato come una religione terapeutica, ma, se così si presenta, o funziona come è avvenuto nel corso dei secoli, oppure non ha futuro. Dunque o si ha il coraggio di dire che il cristianesimo non è una religione terapeutica quindi predichiamo la croce scandalo per i giudei e follia per i greci, oppure se così non è, non si può far funzionare solo “a livello di papa”. Secondo me questa è una delle questioni centrali in questo momento. Detto in modo troppo semplificato: il cristianesimo è una risposta o una domanda? Se è una risposta, è risposta a quale domanda? Nel suo prodursi il cristianesimo si propone come una domanda. Tutti gli incontri evangelici sono persone che hanno un’attesa, stanno cercando qualcosa e normalmente Gesù fa una domanda: dammi da bere, voi chi dite che io sia, cosa dice la gente. Allora è un atto di fede da parte di chi si lascia sedurre dalla domanda, lo segue, e Gesù lo sposta un poco alla volta innescando un gioco di seduzione che è diverso da un gioco terapeutico.
Domanda: quando parlavi del cristianesimo mi veniva in mente il calvinista ed il cattolico: due atteggiamenti radicalmente diversi.
Rispetto a questa questione non tanto diversi. Forse uno è un po’ più radicale dell’altro. Il liquido è sempre lo stesso, cambia solo il bicchiere. Se è sbagliato il liquido la cosa non è importante. Il problema è: se il cristianesimo è un atteggiamento di seduzione o terapeutico. Il cristianesimo, nella sua autocomprensione più profonda, è una dinamica seduttoria.
Domanda: che poi uno possa anche trovare giovamento va bene?
Certamente si spera di provare anche un po’ di piacere, perché Cristo è una “persona”. Ma è proprio la struttura dell’azione che è diversa. Uno non si aspetta da un medico un dialogo uguale a quello con un innamorato. Noi abbiamo tutti in mente, quasi nella nostra struttura genetica, l’idea di una religione terapeutica. Un genitore non ama i figli perché lo fanno star bene, li ama per altri criteri perché i figli a volte danno grandi soddisfazioni, a volte sono emerite rotture o causa di enormi preoccupazioni, ma nonostante ciò si amano comunque, per un criterio che non ha niente a che fare con il fatto che gratifichino.Tutti ci siamo un po’ubriacati sul fatto che la vita serviva a realizzarci, illusione un po’ sessantottarda. Di per sé non è che la vita ci realizza; poi se va bene ci si realizza anche un po’ e ci sono cose che ci fa piacere di aver fatto. Questo atteggiamento terapeutico uccide la croce, la esclude, perché la croce è un paradigma, uno stilema di sofferenza liberamente cercata in cui uno assente, la salvezza del mondo è l’obiettivo che vale questo prezzo. E ciò non è così immediatamente recepibile in una logica di fitness, neppure spirituale.
Domanda: liberamente cercata?
Se il Figlio di Dio se ne stava nel seno della Trinità, era contento. Liberamente la Trinità assume nel Figlio l’incarnazione nella storia per la salvezza e Gesù cammina verso la sua ora, cioè la crocifissione per la salvezza del mondo e sapeva a quale prezzo, dunque era una cosa costosa, faticosa. In questo senso è centrale la differenza tra Cristo e Gesù e il fatto della funzione del terapeuta: secondo Jung il Cristo sarebbe la figura di terapeuta assoluto, non ride, non piange, non soffre della morte di Lazzaro, non mangia, non beve, non muore in croce, è dunque la grande figura affascinativa. É il grande Cristo dei miracoli, il grande taumaturgo. Jung dice che terapeuta è un taumaturgo che costruisce una ritualità di gesti e di parole attraverso i quali cura; ma questo va benissimo per i terapeuti, ma non per Cristo che è Gesù. È una proiezione riduttiva.
“D’altra parte perché non leggere in tale avvicinamento di terapia e fede religiosa, di psicologia e religione, anche il tentativo di inverare psichicamente ed esistenzialmente certi contenuti religiosi che, viceversa, suonerebbero piuttosto come formule vuote, gergo insignificante?”
Si tratta di una domanda è un po’ cattiva nel senso che l’intervistatore dice: in fondo non è anche questa una funzione terapeutica? La risposta è geniale: non c’è dubbio che l’educazione religiosa deve integrare la saggezza umana. In questo senso occorrerebbe che l’insegnamento propriamente cristiano – la fede in Dio, in Gesù Cristo, la risurrezione, la confessione dei peccati, ecc,- assumesse e valorizzasse, in modo progressivo, anche certe esperienze e concezioni religiose di tipo naturale. Nel cristianesimo ci si è dimenticati di ciò che i monaci hanno invece vissuto, ossia uno stile di vita che non è necessariamente ed esclusivamente cristiano e che tuttavia è molto importante; ad esempio una certa sobrietà, l’accettare il silenzio, ecc. La religione deve inscriversi in un’educazione anzitutto umana, che può essere impartita anche al di fuori della religione stessa. Si potrebbe iniziare dai ragazzi, perché con loro si può ampiamente ricorrere alla ricchezza dell’espressione simbolico-rituale – se ben fatta – in certi momenti particolari, in alcune circostanze privilegiate, senza troppe spiegazioni teoriche. Questo tipo di espressione – il culto, il simbolismo – è già formazione, e di essa occorrerebbe sviluppare progressivamente l’intelligenza, ma senza cominciare troppo presto. È bene imparare a vivere simbolicamente tutto ciò, prima di esprimerlo, senza troppe spiegazioni teorico-dogmatiche. In questo la chiesa è troppo razionalizzante, come del resto tutta la nostra cultura.
Questo è un capolavoro di gesuitismo. L’autore dice che se questa cultura avversa la capacità di vivere in modo simbolico e di riconoscere fenomenologicamente la struttura simbolica, come un esercizio che fa parte della vita, allora va benissimo che siano pure i cristiani ad insegnare alla gente a essere simbolica perché questo non fa male alla salute: esercita la capacità di essere umani, di relazionarsi; ma, detto ciò, non stiamo ancora parlando di ciò che è cristiano, è un’opera di promozione umana.
Forse cinque secoli fa bisognava fare gli ospedali che mancavano e, alla fine dell’800 e nei primi anni del ‘900, si è vissuto come un trauma che le suore andassero via dagli ospedali in quanto si toglieva tutto del cristianesimo; poi si è visto che forse gli ospedali ed anche le scuole funzionano e forse oggi la cura verso la povertà non è più l’istruzione alle fanciulle abbandonate. Forse oggi la priorità di promozione umana è reinsegnare alle persone ad essere persone à 360° ricostruendo territori di espressione ampia di sé, di uscire da una troppo forte razionalizzazione, ma sia chiaro: è promozione umana. Il fatto che oggi, mediamente, i ragazzini abbiano una grande fatica ad un’educazione sentimentale nel senso più serio del termine ed abbiano un linguaggio e dei comportamenti a tredici anni come se ne avessero trenta ed un’educazione emotiva ai sentimenti a trent’anni come se ne avessero tredici, evidenzia la povertà della nostra cultura; se poi le parrocchie, i gruppi, riescono a mettere insieme questi due livelli, ne viene fuori una civiltà meno nevrotica. Ma non c’entra ancora nulla con il cristianesimo.
Allora Vergote dice che anche una serie di temi apparentemente religiosi, con comportamenti e linguaggi religiosi, forse sono semplicemente, pure nel cristianesimo, dei presupposti, un’educazione umana che allarga il cuore e predispone all’incontro con Dio in Gesù Cristo, anche se è insegnare ai ragazzini il segno della croce che non è ancora un atto specificatamente cristiano. Un ragazzino ha bisogno di sapere che ci sono dei segni i quali hanno un significato, che riguardano il suo corpo, fanno parte della nostra cultura senza necessariamente dover cercare segni esotici. Ma il cristianesimo è un’altra cosa, è una cosa seria che riguarda la croce, la risurrezione, riguarda gli adulti, ha una sua durezza e non è un generico, simbolico, discorso rituale.
Questo è il senso della risposta alla domanda in cui l’intervistatore chiede se non possa servire al cristianesimo usare le categorie antropologiche e psicologiche e Vergote dice esattamente il contrario: va bene, forse all’umanità serve usare un po’di cristianesimo, ma l’essenza del cristianesimo è un’altra questione. Nelle nostre lectio, spesso, il modo di leggere la Scrittura aiuta le persone a riconoscere dentro di sé i propri movimenti interiori, alcune dimensioni di sé, alcune fatiche, passaggi che di per sé sono ancora solo un presupposto rispetto all’incontro con Dio nella Parola di Dio; però è un presupposto decisivo; se non c’è una persona, non c’è alcun incontro con Dio. Se non si sono superati i moralismi, i sensi di colpa, non si incontrerà mai Dio perché non si è una persona in piedi.