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Cristianesimo e modernità (X)

Gruppo del venerdì
Aprile 2005

Continuazione dell’intervista a R. Panikkar

Riprendiamo dalla domanda di pagina 43, che è un po’ il punto centrale della questione di questa intervista a Panikkar.

Gesù sarebbe dunque il nome che i cristiani danno al mistero di Cristo?

La questione di cui si sta parlando è: come si mette insieme l’idea che i cristiani hanno di possedere una verità, un’esperienza significativa e universale, e contemporaneamente non appoggiabile a qualunque cultura e realtà, un’esperienza che si basa su un particolare storico che è Gesù di Nazaret. Questa è la chiave del rapporto tra il cristianesimo e le altre religioni. Se il cristianesimo dicesse semplicemente di avere alcuni contenuti che sono la verità sarebbe meno difficile, si potrebbe discutere e ragionare sui contenuti; se il cristianesimo avesse solo l’esperienza di particolarità di Gesù della storia non potrebbe avere pretese di universalità. Il problema è che il cristianesimo sostiene contemporaneamente entrambe le cose: una pretesa di universalità e una necessità, per l’Incarnazione, di particolarità. Queste due cose hanno creato per secoli l’extra eclesia nulla salus.

Nel momento in cui con il Vaticano II si tenta di spezzare questo automatismo, tra universalità e particolarità, e con il riconoscimento esplicito di questo, per la salvezza, cominciano i problemi.

Panikkar fa un discorso col quale dice che Cristo è un simbolo non identico a Gesù: Gesù è il nome particolare che i cristiani danno al mistero di Cristo che è un mistero irraggiungibile, più grande.

Alla domanda dell’intervistatore Panikkar rigira la questione, perché altrimenti la tesi sarebbe semplicemente, come si dice, spesso senza pensarci troppo, e dando una soluzione facile: “io lo chiamo Allah, tu lo chiami Budda, un altro lo chiama Dio Padre, ma si tratta dello stesso dio”.

Questo, per i cristiani, non è accettabile. Il Dio Padre di Gesù Cristo non è un nome.

Panikkar dunque risponde, con grande acutezza, come abbiamo già visto l’altra volta: “Cristo è il nome che i cristiani danno del mistero che hanno scoperto in Gesù e che chiamano messia, l’Unto

Rovescia la questione. Non è che i cristiani chiamano Gesù il Cristo, è che Cristo è il nome che i cristiani danno a quel mistero che scoprono solo in Gesù.

Non ci sono due elementi: ce ne sono tre. C’è un mistero che resta comunque senza nome, c’è un’esperienza storica che è quella di Gesù, dei Vangeli, della chiesa, ecc., e c’è il nome di messia che attraverso Gesù si scopre per accedere al mistero. Se questa è la questione, allora è ovvio che il rapporto con le religioni ha come centro il sequente ragionamento: nessuna religione ha presa sul mistero, il mistero resta innominabile per tutte; tra noi e il mistero ci sono due livelli: l’esperienza storica particolare e il nome che riesco a dare a ciò che scopro del mistero in questa esperienza storica.

Il nome non è una cosa irrilevante: il problema non è nominalistico. Il problema è: l’esperienza storica di un Gesù di Nazaret che, secondo i Vangeli, tratta le donne in un certo modo e l’esperienza storica di come è prescritto nel Corano che le donne vengano trattate (faccio l’esempio delle donne perché più o meno tutti lo hanno nelle orecchie) e l’esperienza storica della irrilevanza di essere uomini e donne che c’è nel buddismo, cioè l’assoluta negazione di qualcosa che non sia illusione nell’essere sessuati, sono dati, nella loro particolarità, inconciliabili. Poi, inconciliabili gentilmente, o inconciliabili dandoci mazzate in testa, dipende dalla buona educazione. Non c’è un modo di farli andare insieme. Questo vuol dire “il nome”. Questo è un aspetto.

Vediamone un altro: la centralità del sacramento dell’Eucarestia. Che siano esclusi alcuni dall’Eucarestia oppure no e che non si ammettano, ad esempio, i buddisti, all’Eucarestia, o conta o non conta. O l’Eucarestia è una recita che ci consola, ma in realtà non è vero niente, oppure è una cosa seria e allora farà una differenza se qualcuno la fa o non la fa. Secondo me, in questo noi siamo troppo succubi di una mentalità tollerante a tutti i costi in cui ci pare che basti un po’ di buona volontà per metterci tutti d’accordo.

Il problema è reale: se c’è una particolarità storica del nome di Gesù e di tutto ciò che da questo consegue, si possono ad esempio togliere cose non fondamentali come certe devozioni, o certe aggiunte, ecc., si può fare un po’ di repulisti su alcuni comportamenti, come ad esempio il predicare bene e il razzolare male, ecc., ma al di là di tutto ciò resta un nucleo non irrilevante di particolarità precise del cristianesimo, altrimenti l’occidente non sarebbe quello che è. Si è configurato in un modo storico preciso che discende dalla particolarità storica del cristianesimo, che come ogni grande religione, ha una pretesa di universalità.

Per fare una sintesi del cristianesimo, le particolarità sono: Trinità, incarnazione e salvezza per il sacrificio del Cristo. Trinità vuol dire: unità e differenza sono interni al concetto di Dio e non esterni; incarnazione: rapporto tra particolarità e universalità nell’assunzione di un corpo rendendo quindi la storia non irrilevante, ma luogo teologico; la salvezza per mezzo del sacrificio del Cristo: morte e risurrezione, c’è una struttura agonica che necessita il sacrificio. Minimo su queste tre questioni non siamo tutti uguali. Come si pensa questo rapporto tra diversi è una grande sfida: come facciamo a restare diversi, a rispettare la nostra e l’altrui diversità, e riuscire a pensare contemporaneamente l’universale salvezza, che Dio vuole per tutti, senza scomunicarci a vicenda.

Questa è la questione seria. Su questo sta ragionando Panikkar. Non prende nemmeno in considerazione l’idea di chi ha ragione e di chi ha torto; la soluzione che dice che il problema è solo dal nostro versante: noi diamo nomi diversi a una realtà che è unica, non soddisfa. Per il cristianesimo il nome, cioè il corpo, la particolarità storica, non è un optional, è l’Incarnazione.

Quindi non posso dire: fa niente se io lo chiamo Gesù e tu lo chiami Allah, perché per il cristianesimo Gesù “fa conto”, non fa “niente”. Panikkar trova tre livelli: c’è una particolarità storica, poi c’è un nome riflesso di ciò che noi cogliamo, attraverso quella particolarità, del mistero, e poi c’è un mistero. Il mistero rimane inattingibile per qualsiasi religione: non ha nome, è il mistero, è il totalmente altro, la cosa che nessuno ha, il “comune” che nessuno ha.

Per dirla con un’immagine poetica, ci fermiamo tutti sulla stessa soglia.

“Ciò apre la strada a una miriade di considerazioni circa la presenza del mistero di Cristo nelle altre religioni, come pure riguardo al rapporto tra cristianesimo e religioni, inclusa la cosiddetta pretesa alla verità assoluta avanzata dal cristianesimo.”

La verità assoluta è, a mio giudizio, una contraddizione filosofica: la verità è relazione, come sosteneva anche Tommaso d’Aquino. Siamo di nuovo nella “concettolatria”. Circa il rapporto con le altre religioni, osserverei in primo luogo che queste hanno un diverso linguaggio: perché allora utilizzare il linguaggio cristiano? Non mi riferisco qui tanto alla lingua, bensì alle forme di intelligibilità che ogni linguaggio usa per esprimere l’apertura al mistero.

“Negli attuali orientamenti circa il dialogo interreligioso che il magistero della chiesa cattolica sta disegnando, quali sono a suo parere i punti di forza, le intuizioni valide, e, viceversa, gli atteggiamenti retrodatati o comunque sterili?”

Ho già scritto molto sul rapporto del cristianesimo con le altre religioni. Per quanto riguarda il Vaticano, non credo di avere l’autorità per esprimere un giudizio globale; inoltre, se non siamo idolatri del presente, non vedo perché le affermazioni del Vaticano di un secolo fa debbano avere meno peso di quelle di oggi, quando già allora erano proclamate “verità” urbi et orbi. Comunque, mi adeguo alla mentalità e alla domanda “modernistica” (modernità viene da “moda”) e direi che sospetto che il Vaticano abbia timore di perdere l’identitài e paventi esagerazioni in senso fideistico à la New Age. Da questo punto di vista concordo e condivido – non la paura, beninteso, ma la prudenza. Come al solito, si va da un estremo all’altro, sicchè occorre pure qualcuno che dica: “adagio, lentamente…” e che altri invece spingano per un rinnovamento. Non tutti i carismi sono uguali. Chi invece perde la speranza o la pazienza, mostra di non dimorare nell’ambito del vero tema e problema.”

Panikkar sostiene che, qui, il problema non è entrare nelle singole affermazioni: non lo sappiamo ancora, e forse non sapremo mai, come si mettono insieme queste cose. La cosa più importante è che si mantenga una tensione tra chi spinge in avanti e chi tira indietro. Da qui viene fuori l’idea di fondo che lui ha di chiesa. In un altro testo Panikkar afferma che la chiesa deve essere “plenaria” e “plurale”. Cioè un luogo in cui ci sono tutti, ma i tutti sono diversi. E dunque è un campo tensionale, non è un luogo fisso. Lui riprende la risposta di prima dicendo che la verità non può essere assoluta perché la verità è una relazione. Io credo che in questo sta il grosso contributo positivo e innovativo di Panikkar. Funziona come in una relazione di coppia in cui, al di là del fatto che, giorno per giorno, uno considera acquisite delle cose e prende decisioni sulla vita quotidiana, in realtà il rapporto di coppia funziona se rimane perennemente in una tensione, cioè in una situazione in cui nulla è mai dato per radicalmente acquisito e nulla è mai dato per radicalmente perduto. Tutto viene considerato dentro, ma anche da riconquistare giorno per giorno. Questo è un grande modello rispetto all’esperienza dell’essere cristiani. Troppo spesso leggiamo l’essere cristiani in modo ottocentesco come un dato di appartenenza. L’importante è avere una storia; il cristianesimo non è un luogo di equilibri stabili. A proposito c’è un bellissimo passo di un padre della Chiesa, il quale dice che camminare è la figura del cristianesimo: ogni volta che si alza un piede e lo si lancia in avanti spostando il baricentro si è in equilibrio instabile finchè non lo si appoggia di nuovo e si alza l’altro piede ritornando in equilibrio instabile. Niente distingue un passo dall’inizio di una caduta; solo quando il piede è appoggiato si sa che si sta camminando. Camminare è una figura del cristianesimo perché è una successione di sbilanciamenti in ciascuno dei quali il rischio possibile è una caduta. Ma se non si sposta ogni volta il baricentro non si va da nessuna parte. Questo è un altro dei grandi temi sui quali noi abbiamo un grosso problema. Siamo anche disposti a contrattare di appartenere o no al cristianesimo, a porci delle questioni religiose, a farci delle domande, però noi siamo noi, un soggetto che sta piantato sulle sue gambe ed ha una sua strutturazione. La domanda interessante di Panikkar è appunto incentrata sul come si fa ad uscire fuori da sé. E’ molto chiaro che non sta parlando di egoismo, in quanto nella sua riflessione non c’è moralismo: giudica il narcisismo non come negativo, ma come noioso. E’ una questione seria culturalmente, non solo per il cristianesimo. Come siamo strutturati, per noi è veramente una questione radicale.

Panikkar condivide comunque la prudenza rispetto alla paura di esagerazione. La chiave sta nelle ultime tre righe: è fuori chi perde la speranza o la pazienza. Non sono due parole scelte a caso: tutto si può pensare, si può essere conservatori o progressisti, preoccupati della prudenza o dell’innovazione, ma non bisogna perdere la speranza e la pazienza.

Secondo me questo sposta il criterio rispetto al discorso del plenario e del plurale.

Nella chiesa non ha senso parlare di progressisti e tradizionalisti: sono tutti tradizionalisti perché legati a una tradizione e tutti progressisti perché vanno verso il regno di Dio. Il problema è: chi ha un’idea di chiesa dotata di speranza e pazienza e dunque plenaria e plurale e chi ha un’idea senza speranza o senza pazienza, o senza entrambe.