Il Credo:
il secondo articolo (I)
Gruppo del venerdì
Febbraio 1996
Ripresa del tema precedente
* Se si ragiona pensando che tutto ciò che è interessante è la nostra esperienza e le sue possibili massimizzazioni, rendiamo di fatto inutile Dio ed è ciò che esattamente sta succedendo; nessuno di noi parla più di Dio, perché non c’è niente di interessante da sapere. Questo è il cosiddetto “cristianesimo sociale”, il meglio che possiamo pensare sono i rapporti di solidarietà, di collaborazione, di costruzione del bene comune, della pace, tutte cose serissime. Ma se è così che bisogno c’è ancora di chiamare in causa Dio? Tutto si capisce da sé; che bisogno c’è di Dio se non per dire che Dio è dalla mia parte, che l’ha detto anche lui, che la pensa come me? Si può pensare l’esperienza concreta da cui dedurre il concetto, ma questo non ha ancora nulla a che fare con la rivelazione di suo Padre che Gesù Cristo ha fatto. Questo è importante solo per capire, attraverso la rivelazione, qual è la paternità di Dio e come si caratterizza.
* Domanda: Cristo doveva parlare alla gente che, come noi, non sa nulla; per dire del suo rapporto particolare con il Padre, fa altri esempi che riguardano i padri, perché la gente ha l’esempio della paternità nel mondo animale e nel mondo umano, in cui ci possono essere delle devianze, ma tali sono interpretate perché il padre è il padre, quella è l’idea di paternità.
Risposta: Questa è una confusione fondamentale. Quando Gesù parla di suo Padre non è una parabola o una metafora o un esempio, come ad esempio il seminatore, una parabola che parte dall’esperienza che la gente ha. Se si prende il vangelo di Giovanni questo è molto chiaro: nei capitoli 14, 15, 16 e 17, lui parla di una paternità che è totalmente incomprensibile, non ha nulla a che fare con l’esperienza di paternità. E’ vero che in Matteo leggiamo “Nessuno che chiede al proprio padre un pane…” ma questo, come il seminatore, fa parte del genere letterario parabolistico dove si dice un padre, e sta nel nostro ragionamento, come le parabole della donna che perde la dracma o del pastore la pecora, e potrebbe anche dire madre, ma qui padre viene usato nel discorso sulla provvidenza per dire come siamo accuditi (le pecore dal loro pastore, un figlio da un padre). Mentre il discorso che Gesù fa su suo Padre, ed è questo il tema rispetto al Credo, dunque sulla paternità di Dio, sul rapporto tra lui e il Padre, è quello del testo classico di Giovanni e di alcuni testi in Matteo come il Padre nostro (non diresti a tuo padre “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno…”).
Il tema della paternità di Dio è centrale perché noi lo usiamo abitualmente, nel nostro ragionare, per dire della sua vicinanza, della sua “coccolosità”; in realtà, almeno nel credo, questo non è così sentimentale e serve per dire la distanza, non la vicinanza. Quello che dice è che solo in Dio il concetto di paternità (un padre come dovrebbe essere) e l’esperienza della paternità, coincidono perfettamente e che, quanto a noi, questa cosa ci è data solo nella misura in cui siamo figli nel Figlio, ci è data per grazia, per adozione (Paolo). Gran parte del credo, la struttura trinitaria del Credo, sta ad indagare questi rapporti tra Gesù e il Padre e poi lo Spirito che, non avendo un analogo umano, non ci consente la trappola, ma nemmeno l’esempio, dell’esperienza umana. Gesù e il Padre, più o meno ci torna, magari in modo confuso, perché la usiamo come una parabola anziché come una analogia, ma sappiamo cosa immaginare; ma, dato che tra Spirito e Figlio non c’è un rapporto che abbia una parabolistica umana possibile, abbiamo una scarsissima immagine del rapporto tra Spirito e Figlio e Spirito e Padre. Il Credo invece lavora su questo.
Il secondo articolo, prima parte
“un solo Signore Gesù Cristo,
Unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli,
Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create”
(Segue la seconda parte, quella sull’Incarnazione “Per noi uomini…”).
* La prima parte del secondo articolo è quella su Gesù in sé, quanto a sé; la seconda parte è Gesù quanto a noi, ed è la parte che si capisce meglio perché è il racconto di un evento. La prima parte sembra molto ripetitiva, astratta, medioevale, più adatto al tempo delle eresie che affermavano che Gesù non fosse proprio Dio.
Primo dato di partenza: il testo latino e il testo greco sono materialmente uguali perché sono il testo ufficiale, la regula del Concilio Niceno-Costantinopolitano; il problema è che la materialità uguale dà un senso diverso per cui il testo greco del Credo dice: “Credo in un solo Dio Padre, in un solo Signore, il Figlio, nello Spirito” mentre la lettura latina sostanzialmente dice: “Credo in un solo Dio: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo”, che è ben diverso perché quello che viene fuori, al di là della materialità, della lettura latina, è che c’è un solo Dio triforme, mentre dalla lettura greca è “Credo in un solo Dio Padre, in un solo Signore Gesù Cristo e nello Spirito, senza attributi”. Come se l’attribuzione della divinità fosse solo al Padre, al Figlio la Signoria, allo Spirito un’altra cosa. Questo fatto è importante perché dice una soluzione che è stata trovata, e che è assolutamente geniale, l’uguaglianza assoluta materiale del testo che, giustamente, i greci hanno potuto leggere come volevano e altrettanto i latini. Sono riusciti a trovare un testo, materialmente identico, che poteva essere letto nei due modi, nelle due mentalità. Materialmente identico vuol dire grammaticalmente costruito come una perfetta traduzione letterale uscita nelle due lingue: greca e latina. Stavano rischiando una grossa spaccatura e sono riusciti a fare un’astutissima operazione per cui materialmente nessuna delle due versioni era eretica ma entrambe lasciavano spazio interpretativo di comprensione. Questo è uno dei problemi per cui 600 anni dopo, nel 1054, si arriva allo scisma, perché di fatto le due comunità hanno incominciato a percorrere le loro interpretazioni diversamente fino ad essere, alla fine, due chiese diverse, che poi hanno sancito la loro divisione. Questa evoluzione storica ci dovrebbe dire che questa differenza non è così teorica perché è riuscita a creare (anche se non da sola, ovviamente) due chiese diverse che, nei fatti, nelle abitudini, nelle sottolineature, nella liturgia, nello stile, nella mentalità, su questo ampio spazio di interpretazione, hanno costruito due percorsi.
Si può discutere sul fatto che l’unica soluzione della diversità era dividersi: mentre l’idea del Concilio è esattamente il contrario, le due diversità possono coesistere e sono entrambe ortodossia, non è necessario che siano uguali. Questa è la grande intuizione del Concilio e può essere spiegata con un esempio: come nella Scrittura stanno quattro Vangeli che sono diversi e tutti sono parole e storia di Gesù Cristo, così nelle Chiese stanno tante Chiese che, tutte, formano l’unica Chiesa di Cristo; questa è un’idea modernissima. Gli attuali discorsi sull’ecumenismo sono sulle diversità riconciliate, non sull’unità della Chiesa. Giustamente i teologi moderni, attuali, riprendono questa idea dicendo che se il Canone della Scrittura con tutta la diversità, compresi i quattro Vangeli, quindi sullo stesso tema una pluralità, costituisce un’unità, allo stesso modo la Chiesa è un’unità nelle sue diversità possibili. (Käsemann: l’Ortodossia ha custodito la liturgia, la Riforma ha custodito la Parola, la Chiesa romana ha custodito i sacramenti e la struttura di comunità; secondo i filoni della loro interpretazione, costituiscono la triade della grande Chiesa).
* La stessa materialità, dunque, per dire che c’è una unità che tiene coscientemente dentro di sé due diversità. Nel percorso storico questa cosa non è andata così bene: ci sono state liti e separazioni. Anche per noi oggi questa faccenda è molto importante. In termini moderni la questione è: quanto a Dio, il problema è le funzioni o la persona, cioè Dio in ciò che fa per noi, quanto a noi, con noi, o Dio quanto è in sé? Il mondo latino ha privilegiato il problema di Dio in sé, sviluppando il discorso sulla persona, sulla unicità di Dio (poi si è sbizzarrito fino alle aberrazioni dell’800 per cui il Padre è un buon vecchio, sta sulle nuvole, è il pater familias ; il figlio è biondo, bello, lo Spirito è una colomba).
Il mondo greco invece ha privilegiato le funzioni, il problema del rapporto di Dio con noi. Questo tema attraverserà perennemente la fede cristiana, perché è la grande domanda di tutti gli amori; cioè in un amore uno si domanda sempre fino a che punto ciò che vede dell’altro è ciò che l’altro è o ciò che vede dell’altro è ciò che l’altro è quanto a lui, se è così sempre o se è così con me, perché questo fa parte in qualche modo, della storicità di una relazione e qui sta una delle grandi differenze tra noi e Dio, una delle grandi questioni della Trinità. Il fatto che il Padre abbia un figlio che si chiama Verbo, Parola, dunque l’altro aspetto della relazione, l’in sé, e il quanto a noi (il Padre = l’in sé di Dio, il Figlio = l’in quanto a noi di Dio, data l’incarnazione, la sua espressione comunicativa), e il fatto che il Credo ci dica che il Figlio è Dio da Dio, luce da luce… (sono perfettamente coincidenti l’in sé e il quanto a noi) è un dato che esiste solo per Dio, in noi non c’è mai questa perfetta coincidenza (es.: quando noi parliamo, sentiamo una cosa, la esprimiamo, esprimendoci c’è sempre un minimo di scarto tra quello che sentiamo e quello che esprimiamo; l’altro ci ascolta e ascoltando c’è sempre uno scarto tra ciò che ascolta e quello che noi diciamo). La Trinità funzionerebbe che: Dio Padre sente, parla (la Parola) e lo Spirito, che è lo Spirito dell’ispirazione, della ricezione della Scrittura, ci fa ascoltare, interpretare e queste tre realtà sono tutte Dio, non c’è nessun scarto tra ciò che Dio sente, la parola che dice quanto a noi, lo Spirito che ci dà come garanzia per l’interpretazione. Questa cosa tiene solo a Dio, e, storicamente, le due letture della Chiesa latina e greca, dicono che, addirittura, nell’interpretazione teologica e nel modo in cui una Chiesa intera si orienta nel corso della storia, nemmeno in questo livello così di fondo, così collettivo e così garantito dallo Spirito, noi riusciamo a tenere queste due cose totalmente insieme, perfettamente coincidenti. Tutto ciò che attiene alla storia, non solo a livello individuale, tutto ciò che non è Dio, soffre di questa impossibilità a tenere tutto insieme e dunque l’esperienza storica di queste due letture che Costantinopoli pone sotto lo stesso testo, dice esattamente questa cosa. Tutto questo ha una lunga serie di conseguenze, ad esempio sul modo di pensare su di noi, sull’evoluzione della Chiesa, sul limite nostro di comprensione del Cristianesimo, comprensione che non può che essere parziale non come un dato di ignoranza (non sappiamo abbastanza della Scrittura) ma ontologico.
* Altra questione: questa prima parte del secondo articolo (Dio da Dio…) viene prima della seconda parte cioè dell’evento (per noi uomini…) quando nella nostra conoscenza e esperienza è esattamente il contrario. Ciò che gli uomini hanno sperimentato è l’evento di Gesù; il Credo è la riflessione sul rapporto tra Gesù e suo Padre dopo l’evento.
Perché il Credo non è stato fatto in termini storici, più semplici (è venuto un uomo di nome Gesù, ha fatto, ha spiegato…)? La cosa bella è che il Credo è pensato dalla parte di Dio, allora, come nel Credo della Kronung Messe, dato che noi non abbiamo la contemporaneità c’è una specie di cornice che è questa eternità che c’è prima e dopo, come i due piloni del ponte, e poi c’è questo ponte al contrario, l’abbassamento, che è l’evento, ma il quadro è trinitario, non storico. Questa è una faccenda abbastanza decisiva e densa di conseguenze; i cristiani dunque, per essere ortodossi rispetto al Credo, non dovrebbero mai ragionare in senso “storico”, in senso ontologico, e, comunque, dovrebbero sapere che quando ragionano in senso storico, ragionano di un pezzo che sta in mezzo ad una cornice che è un’altra, parlano cioè della” parte bassa” del Credo. Questo ha un certo tipo di conseguenze, per esempio sulla politica, come sul moralismo (Quando dico che il peccato non è il centro della questione, è perché sta nel pezzo storico, è un’esperienza della storia e solo se noi vediamo come centrale questo pezzo della storia, di cui non sappiamo quello che c’è prima, non sappiamo e temiamo quello che c’è dopo, allora questo diventa decisivo, perché è come la porta di passaggio tra una cosa e l’altra).
* Domanda: questo discorso sarebbe bellissimo se fosse stato il Cristo a darci la cornice, invece sono gli uomini che, partendo dall’esperienza del Cristo, fanno le due torri e poi la Chiesa pensa di mettersi dal punto di vista di Dio, fa tutta questa operazione e giudica la storia.
Risposta: Se diciamo che tutto questo storicamente è stato usato così, è vero, ma sta dalla parte degli abusi, non dell’idea, nemmeno dell’idea con cui la Chiesa ha scritto il Credo. Se poi con Bonifacio VIII la storia si fa con i metodi, con la spada, che è un certo comportamento, è vero, e non c’è scusante. E’ però anche vero che se il problema è “che cosa è il cristianesimo, davvero”, allora questo che il cristianesimo è, è la totalità di questa faccenda e non è che Gesù non l’ha dato solo perché non ha dato un Credo così. E’ che noi normalmente leggiamo il Vangelo e la Scrittura a pezzi e abbiamo in mente una serie di questioni che vengono affrontate secondo la moda di un certo momento storico. Il problema è mettere insieme i pezzi, compresi quelli impopolari e cercare, per quanto ci è possibile, pur nella nostra parzialità, la totalità. In questa totalità uno dei discorsi centrali di Gesù è il rapporto con suo Padre o uno dei discorsi che non si cita mai è quello dello Spirito, citatissimo nei Vangeli, ma la gente non sa cosa vuol dire e dove metterlo (es.: Nicodemo – Si dice che era un fariseo, abbastanza buono, intellettuale, ma non si arriva mai a spiegare che cosa è “rinascere dallo Spirito”).
Una delle cose che non si dice in questi tempi e che forse varrebbe la pena di dire, è che viene prima il discorso sull’eternità (la stessa cosa detta dal card. Martini, cioè di ripartire da Dio, rimettersi a ragionare e a parlare di Dio, perché se non c’è la cornice il resto non tiene). Tra l’altro parlare solo della storia, anche della storia cristiana, è un moralismo ad uso personale che viene poi regolarmente aggiustato come ci fa comodo, anche se in modo onesto e con una serie di scrupoli, ma che, però, non ci portano da nessuna parte. Per questo prima viene la parte apparentemente teorica, rispetto all’evento e poi viene la parte dello Spirito che, di nuovo, torna su, nell’eternità.
* Che cosa si dice in questa parte apparentemente astratta?
Innanzitutto Gesù: è il suo nome, personale ed è l’unica cosa semplice. Gesù vuol dire: Dio salva, in ebraico (è una famiglia di nomi dello stesso gruppo di Giosuè) ed era un nome relativamente diffuso, ma, nella Scrittura, viene dato come un nome indicato da un angelo, come una elezione precisa: Dio salva. Circa lui si usano alcuni titoli: Gesù, Cristo, e prima ancora, un solo Signore, poi unigenito, Figlio di Dio. L’unicità è molto chiara. In genere, quando Gesù Cristo viene scritto fuori dal Credo, viene scritto Gesù il Cristo, non “uno”. C’è questa unicità che pare essere la questione determinante (“l’originalità dei cristiani non è dunque ciò che essi cercano di fare per gli altri, tanti non cristiani fanno come noi o molto meglio di noi; la loro originalità non è nemmeno credere in Dio e nemmeno credere in un solo Dio, questa fede è condivisa almeno da Ebrei e Mussulmani; la loro originalità, la loro identità, è credere che l’unicità di Dio è tradotta, non tradita, dall’unica Signoria di Gesù Cristo.”. Questa faccenda è centrale rispetto a tutta la nostra questione sull’essenza del cristianesimo, cioè l’unicità di Dio è tradotta, incarnata, nell’unica Signoria di Gesù il Cristo.).
Che cosa è la Signoria? Questo è un problema.
(Ci sono passi bellissimi di Bonhöffer il quale sostiene che l’unico vero problema del ‘900 è ricomprendere la Signoria di Gesù.) Signoria è un termine pressappoco chiaro in una struttura, quale è stato mediato dalla cultura latina, che era la struttura feudale del basso Medioevo. La Signoria aveva un certo tipo di significato che per noi oggi ha conservato solo gli aspetti sgradevoli, antilibertari, antidemocratici, contro la responsabilità della persona. Questo è un termine già scritturistico, Signore è la traduzione di Adonai, che è l’altro nome, quello non personale di Dio per l’Antico Testamento. La Bibbia di Gerusalemme, in tutto l’Antico Testamento scrive Dio quando in ebraico c’è JHWH e Signore quando c’è Elohim. In Ebraico JHWH è un nome proprio, è la rivelazione del nome divino sul Sinai; invece El è il singolare dei nostri “dei”, un nome comune che noi scriveremmo con la minuscola. El è rarissimamente usato, la Scrittura usa Elohim come “dei” che è il plurale. Noi scriviamo Dio con la maiuscola, nome proprio; se diciamo “dei” per dire gli idoli, lo scriviamo con la minuscola. La Bibbia di Gerusalemme traduce Dio con JHWH e invece Signore Elohim, ma va in crisi quando deve tradurre Adonai, che, insieme a El Shaddai (Onnipotente, Dio degli eserciti) è un nome attributivo, né proprio, né comune. (Israele è stato politeista per lunghi secoli; il monoteismo è stato una conquista tarda e faticosa). La Bibbia di Gerusalemme traduce Adonai Dio Signore.
* Quello che sta dietro al titolo di Signore, per Gesù, è Adonai e sarebbe interessante per alcuni spunti di riflessione possibile: a) la connotazione è che è il primo, il più grande, il vincitore, l’unico tra una folla di pretendenti; questo è interessante rispetto all’aspetto storico della faccenda. E’ come se l’unico Dio, entrando nella storia, si mettesse in gara, mentre fuori della storia, è l’unico, non ce ne è altro; entra in competizione con altri pretendenti possibili alla Signoria e quello che il Credo dice è che i cristiani credono in un solo Signore; b) questa Signoria, per Gesù, non ha affatto un carattere feudale (Giovanni 13 – lavanda dei piedi: se io che sono il vostro Signore…..); è molto chiaro che la Signoria è intesa come l’unicità di un amore, come una gelosia, una monogamia, non come un potere. E qui sarebbe interessante perché noi abbiamo per secoli letto il rapporto con Dio in termini di potere, in questo senso al maschile, al di là del chiamarlo padre o madre, ma è stato letto con una sottolineatura di tipo maschile, di potere, per cui l’alternativa è tra Dio e il denaro che sono due poteri; raramente è stato letto in termini femminili per motivi storici molto chiari: le donne non avevano accesso alla riflessione teologica, quindi non in alternativa al potere, ma in alternativa agli amori. Il moralismo è il frutto dell’alternativa tra la signoria di Dio e i poteri.
Se l’alternativa che tu metti alla Signoria di Dio sono altri poteri, il risultato è inevitabilmente il moralismo perché devi stabilire una serie di norme, fin dove arriva il potere di uno e quello di un altro. Se la Signoria è nella logica dell’alternativa degli amori e non dei poteri, il problema non sono le norme. Il che non significa che non è importante ciò che fai, perché negli amori non è irrilevante che tu faccia una cosa o un’altra, ma non è una questione di norme. La figlia del potere è la legittimità, il figlio dell’amore è la significanza, la rilevanza, il peso, il senso. La Signoria di Gesù, vista in contrapposizione al potere, è un tema, vista in contrapposizione all’amore è un altro tema. Qui è di nuovo la parzialità di prima, i due aspetti ci sono entrambi; il problema è che non si possono mai tenere insieme tutti allo stesso modo. Negli ultimi tre secoli ci si è occupati soprattutto del rapporto tra la Signoria di Gesù e il potere. Alla domanda cosa vuol dire che Dio è Signore, si è risposto che è padrone. Andrebbe, come nel Cantico, tradotto Amante: Tu sei il mio unico Signore, tu sei signore della mia casa… E’ la Signoria riconosciuta. L’essere padrone dipende da chi ha acquistato una cosa ed ha potere su di essa, la Signoria invece è l’altro che la attribuisce, dalla parte di Gesù la Signoria a Gesù non sta quanto a Lui, ma nel fatto che noi l’attribuiamo a Lui, noi riconosciamo Lui Signore della nostra vita. Questa cosa è densissima di conseguenze. Cosa vuol dire per esempio pensare alla Signoria di Dio sulla nostra vita o sulla vita della Chiesa in questi termini? Cosa vuol dire che io mi muovo, vivo, mi penso, organizzo la mia esistenza per dare questa Signoria a Dio sulla mia vita, non in termini di potere, quindi non è più se mi comporto bene o male, ma che cos’è?
* Questo è un grossissimo tema, è il titolo primo: un solo Signore, ed è l’originalità dei cristiani rispetto a qualsiasi altra esperienza religiosa; è non tanto in un modo di pensare unico Dio, che è Padre, ma che il rapporto con la divinità, si sperimenta nel riconoscimento della Signoria di Cristo su noi, sulla storia, sul tempo con una serie di conseguenze. Questo è il proprium dei cristiani e su questo si gioca ogni cristianesimo possibile anche perché è un tema non pensato negli ultimi 5-6 secoli e, benché sia nato come uno dei temi intorno alla teologia della secolarizzazione, posti ai teologi dalla nascita dei nazionalismi e da una serie di questioni sulla modernità, è subito scappato via perché è stato sovrastato dalla teologia politica, da una serie di ragionamenti che lo hanno messo in secondo piano, hanno proseguito su altri filoni e non sono più andati avanti. Quindi è un tema assolutamente embrionale, in questo senso poco spiegabile, perché ci sono poche riflessioni, pochi ragionamenti, pochi percorsi.
Sarebbe comunque una delle 3 o 4 cose su cui varrebbe la pena di pensare. Questo tema era molto chiaro per i mistici del ‘500 e del ‘600, con un linguaggio non teologico, ma mistico e non solo per le tematiche amorose, ma proprio per la questione della padronanza come consegna di sé, come riconoscimento della padronanza di un altro sulla propria vita e sulla propria interiorità e come esperienza di questa padronanza come libertà, non come schiavitù, come accrescimento del sé. Le conseguenze che questo ha sono molto chiare per i mistici, per i teologi molto meno. Tutto questo non è irrilevante rispetto ai temi della politica, della cultura, dell’economia, cioè dell’applicazione storica di queste cose, perché se la Signoria è in termini di potere, si tratta di occupare degli spazi, bene, educatamente, ma il problema è la spartizione, è avere una politica, un’economia, una cultura cristiane, cioè una serie di cose su cui io possa, attraverso gli strumenti di tutti (le leggi, le scuole, la divisione dei soldi) garantirmi di essere lo strumento d’instaurazione di questa Signoria.
E questo ragionamento, che può essere applicato bene o male, di per sé non è malvagio, perché è un ragionamento onesto, quello che avrebbe da fare un cristiano, ma dato che le ultime conseguenze di questo ragionamento non sono piaciute tanto, non solo nei loro aspetti negativi, anche là dove hanno funzionato bene, si può pensare che l’effetto ultimo di questa cosa è il politeismo di ritorno e che il cristianesimo finisce per essere uno dei tanti possibili ruoli sociali di una commedia dell’arte che alla fine diventa testimonianza di una opinione e non di una verità. Non importa niente se la testimonianza della mia verità è accettata o rifiutata, questa è un’altra questione, ma il cristianesimo, in sé, si propone come la testimonianza di una verità su cui uno può dire che è falsa, che non gli interessa, ma si sa che di quello si sta parlando, mentre la tolleranza sulle opinioni possibili, che è figlia di questa logica, l’ultimo esito è: siccome siamo una società democratica ci deve essere posto per tutti e tra un po’ sorgerà un WWF a protezione dei cristiani che saranno una specie in via di estinzione e si faranno le quote protette in nome di questa tolleranza e sarà un suicidio collettivo.
Se non si esce da questo inghippo, non si esce da una serie di questioni su cui puoi discutere sull’ultimo esito, ma non se ne esce se non si interrompe la spirale di partenza. Per uscire dalla logica degli spazi, occorre spezzare questo punto di partenza, perché quello che succede dopo non è più la divisione degli spazi con tutti i problemi che ne derivano.
* Gesù il Cristo, cioè il Messia, l’eletto, l’unto, l’investito, il segno della messianicità, colui che instaura i tempi messianici. Cosa vuol dire Messia? Messia è l’altro nome della Signoria, cioè se la Signoria è il nome quanto a lui, la messianicità è il nome quanto a noi, se la Signoria è il nome che dobbiamo riconoscere a lui, la messianicità è l’operazione che lui fa verso di noi. L’instaurazione dei tempi messianici è il risultato del riconoscimento della Signoria di Dio; nella misura in cui la Signoria di Dio è riconosciuta instaura questo regno, cioè è Dio che opera questa mutazione di rapporti, di realtà, di storia, è dove gli amanti si amano (riconoscere la Signoria di Dio è ad esempio che se uno fa politica, fa l’insegnante, lo fa partire dalla Signoria di Dio: chiunque riconoscerà che Cristo è il Signore è salvato, dice Paolo). In termini amorosi e non di potere, riconoscere la Signoria di Dio vuol dire provare a pensare come funziona un amore nella nostra esperienza, avere un alto livello di coscienza, di come funzionano gli amori e vedere se le cose con Dio funzionano così o no. Cosa vuol dire, ad esempio, gestire il tempo riconoscendo la Signoria di Dio?
Noi in genere siamo assolutamente autocratici nel rapporto con Dio rispetto al tempo, siamo dei padri padroni; quando siamo dei buoni cristiani gli dedichiamo del tempo e ogni tanto ci sentiamo in colpa perché non abbiamo tempo di pregare, come se fosse una faccenda tutta nostra in cui lui non ha alcuna soggettività, in cui trovo scuse perché non gli do tempo o sono buono se gliene do, che non è una gestione amorosa e non parte mai dal presupposto che, comunque, abitiamo insieme.
La dimensione del tempo anche concretamente nel quotidiano, fa la nostra vita, il 90% di come ci troviamo a vivere dipende dalla nostra gestione del nostro tempo, e su questo abbiamo una scarsissima riflessione circa il rapporto con Dio. Cosa vuol dire che Dio è il Signore del tempo nella storia, cosa vuol dire pensare, rispetto alla dimensione pubblica dell’esistenza, che c’è una Signoria di Dio sul tempo, che c’è una gestione del nostro tempo con Dio che va pensata.
Un’altra dimensione sono i processi decisionali. Come si decide in un amore: è una delle cose più difficili su cui si fatica da morire. Già decidere da soli è un problema, ma decidere in una relazione reale con l’altro, in cui la sua opinione conta, è ben arduo. Con Dio come funziona? In genere, anche nelle cose buone, noi decidiamo assolutamente senza Dio. Praticamente il 90% degli adulti credenti non si è mai posto questo problema, cioè che un processo decisionale con Dio significa una cosa diversa dal confronto con una norma. In genere uno decide da solo, poi prende il risultato, lo mette sulla norma per vedere se è in peccato o no e se lo è si fa venire un senso di colpa o cerca di riesaminare la propria decisione, ma non c’è un processo decisionale comune in cui l’altro sia una realtà esistente. Cosa vuol dire pensare alla Signoria di Dio sui processi decisionali circa il bene comune, ad esempio? Se il confronto è solo sui risultati, per un cristiano non si può fare altro che così, rispetto ad una serie di valori morali, ma se l’altro pensa che il bene comune è un’altra cosa, non c’è che lo scontro. Noi di Dio abbiamo la rivelazione che per un credente è ispirata dallo Spirito e letta nello Spirito, perciò nessuno può, nella sostanza, modellarsi un suo Dio. Per un credente esistono due questioni:
a) lo Spirito è il grande ermeneuta, l’interprete, colui che conduce la verità tutta intera;
b) esiste la coscienza ecclesiale, cioè il giudizio non è mai del singolo.