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Il Dio accolto

Il testo di riferimento è: E. SALMANN,Contro Severino. Incanto e incubo del credere, con un contributo di A. GRILLO, Piemme, 1996, pp. 238-246; 272-281

Gruppo del venerdì
Novembre 1996

Una delle grandi questioni, delle ambiguità del cristianesimo è nella sua configurazione come “generico umano”, in una lettura molto antropologica, riduttiva.

Salmann dice (238, § 277): “In questo modo non lasciamo la sfera ambigua delle riletture e delle proiezioni infinite….. della simbolica naturale”, cioè non si esce da sè, dalla esperienza della nostra stessa vita; certamente siamo più delle bestie, ma detto questo, qui non c’è ancora una via di uscita ulteriore. Dire che siamo più che bestie, non dice altro che questo; e ciò non per dire male degli uomini, ma per dire bene del cristianesimo: esso dice di più e altro, a partire da altrove, da un punto esterno che non emerge da sè dalla rilettura dei segni.

“La maggior parte della nostra vita (anche di quella religiosa) si svolge e si gioca in questo ambito….”: Salmann prosegue individuando che in questa tensione dell’ambiguo e generico quasi tutta la nostra esistenza, nel migliore dei casi (riferendosi cioè a persone non unicamente materialistiche), è solo una lunga gestazione di un minimo di scelta libera e deliberata sulla propria esistenza. E così individua questo minimo di scelta libera e deliberata: “una realizzazione libera e deliberata, conscia e voluta, e tutta la sua biografia è una lunga parabola di concezione, gestazione e parto di un minimo di consapevolezza di ciò che potrei e dovrei essere davanti al mio Dio – e di ciò che Lui potrebbe significare per la mia esistenza”, senza ancora dire il Dio di Gesù Cristo, che è un passo ulteriore.

Il Dio come il mio Dio: la possibilità assoluta che sta di fronte a me e cosa questo significherebbe; “uomo e Dio prendono forma, si con-figurano insieme durante il suo percorso”. Fare questo è l’opera di una vita, partorire un minimo di deliberata e consapevole scelta su questo richiede una intera esistenza. “La vita come ontogenesi della libertà umana e come teogonia in mezzo ad essa”: cioè la vita come nascita sostanziale della mia libertà e insieme la nascita di Dio nel centro di questa libertà.

Salmann prosegue (239, § 278) che, se così non fosse, le realtà fondamentali della nostra vita (morte, vita, felicità, dolore…) dovrebbero essere alla portata della comprensione di un uomo riflessivo, intelligente, onesto e che cerca con sincerità la verità. Non è così, altrimenti queste domande non permarrebbero da secoli. “Hanno bisogno della luce di una rivelazione da fuori e di una decisione, di un abbandono voluto da parte nostro…. Hanno bisogno di un lungo tirocinio…. di una luce, di una parola illuminante”; quello che viene qui individuato come il percorso biografico, esistenziale, dal punto di vista storico, secondo i cristiani, è la vicenda dell’incarnazione: l’incarnazione è questo salto, che viene da fuori e, contemporaneamente, segna in una carne come la nostra un abbandono voluto e totale.

Quello che nella vita di una persona è questo passaggio dal parto della propria libertà all’accettazione di una luce esterna sulla propria stessa libertà, nella storia intera dell’umanità, secondo la Scrittura, è che dopo la gestazione dell’AT, nasce Gesù, libertà umana che viene da fuori. E’ dato esterno che si inserisce per spaccare da dentro. Qui viene letto in chiave personale, della biografia del singolo. E questo perché parlando del singolo si può dire anche senza mai nominare Gesù Cristo, fino ad un certo punto. Nel racconto oggettivo, storicizzato, le cose hanno nomi particolari, AT, Mosè, Davide….. fino a Gesù Cristo che è Verbo, Parola di Dio. Questa “irruzione dall’interno” dischiude tutto, sia il prima che il dopo (= ontogenesi della libertà e teogonia).

(239, § 279) “Infatti il mondo simbolico non è soltanto velato, ma anche torbido, ambiguo, disparato…. e non c’è alcuna sicurezza o garanzia in merito”. Simbolico è ciò che rimanda ad un’altra cosa. La coscienza razionale è la coscienza che vede le cose quali sono, la coscienza simbolica è la nostra capacità di vedere la cosa quale è e dire che significa un’altra cosa. Ci sono campi della nostra esperienza vitale in cui ha prevalenza la coscienza simbolica (se chi ci ama ci dona fiori di campo o dodici rose rosse, la differenza non è nel loro prezzo…), e se si usa sola la coscienza razionale hanno valore diverso. Le situazioni di rapporto chiedono la prevalenza di una coscienza simbolica.

La coscienza simbolica è dunque la capacità per cui una cosa ne indica un’altra. Il nostro problema più o meno corrente è che confondiamo i due ambiti, non sappiamo mai con certezza quando dobbiamo usare l’una o l’altra e dunque, in genere, li invertiamo. La coscienza simbolica è strutturalmente quella della comunicazione, la razionale quella della produzione. La coscienza razionale tende all’univocità, per questo si può spesso tradurre in termini di denaro: criterio unico è il prezzo. La coscienza simbolica ha invece una gamma vasta di ambiguità, perché i rimandi e i contesti e gli incroci di queste due cose sono infiniti (regalare fiori in un amore è segno bello, ma se so che è un modo un po’ vigliacco di farsi perdonare qualcosa, allora…..).

(240, § 280) “A questo punto saliente del nostro cammino avremo bisogno di tutta la nostra libertà, della forza della ragione e della fantasia per aprire uno spiraglio verso il compiersi del nostro percorso….. ci vorrà un impegno maggiore della persona, un che di quella   e pietà che il cristianesimo chiama fede…. [La fede] è e significa l’occhio chiaro della ragione che coglie le strutture del campo simbolico e ne accetta senza angoscia nè protervia le premesse e le promesse. Siccome queste non sono mai del tutto ovvie, ci vorrà il coraggio della scommessa, un atteggiamento cavalleresco nei confronti della inesauribilità e incisività del reale…… riassume in sè il meglio della memoria, dell’intelletto e della volontà, il midollo e il senso di una biografia, potrà reggere alle tensioni e alle ampiezze del campo simbolico che il mondo è, alle sue promesse, illusioni e delusioni…”. Che distanza dalle nostre affermazioni originarie, ho deciso di credere/di non credere! “Dobbiamo concedere che un altro abbia la prima e l’ultima parola su di me, che ci sia una legge e una grazia che nessuno potrà procurarmi”. Quando si dice che non si decide di credere o di non credere, la conseguenza che ne traiamo è che allora non abbiamo responsabilità, e il discorso non ci torna. Invece la fede sta in un altro campo di azioni, cedere è decisione della coscienza razionale e la fede ha l’occhio chiaro della ragione come sguardo, non è irrazionale, ma gioca secondo le regole del simbolico.

Funziona come un amore: in un amore c’è un punto in cui so che, passato quello anche di un solo minuto, non potrò mai più tornare indietro, comunque vada a finire, la mia vita non sarà mai più come se quell’amore non ci fosse stato; in quel punto si concede all’altro di avere la prima e ultima parola su di noi. Detto questo, però, uno decide, o, meglio, è uno di quegli atti in cui quando ti chiedi cosa dovresti fare è perché lo hai già fatto. Si formalizza così una cosa che era già vera in noi, ma a cui mancavano le parole. Quando l’occhio della tua ragione capisce che nella simbolica della tua vita il reale è già accaduto e ne riconosci il passato e il futuro, ti sembra di scoprirlo e sceglierlo, ma è già la verità di te, e fare altro sarebbe menzogna. Sarebbe stare sotto al livello della propria felicità possibile, cioè peccato. Peccato non nasce dall’errore rispetto ad una regola, ma dal combattimento perduto con la struttura simbolica della nostra vita, perduto perché non riusciamo a renderla parlante nella oggettività delle cose. I Padri dicono che il figlio del demonio è la menzogna: se, ad esempio, la paura, ci fa andare nella direzione opposta al movimento della nostra vita, il risultato è un castello di menzogne con noi stessi.

Il cristianesimo è una buona notizia sulla vita, non c’è un’altra cosa. Quello che il cristianesimo fa è dire una sapiente parola da altrove sulla vita ambigua che ci è data. La buona notizia sulla vita è la possibilità di stare in questo sguardi simbolico della ragione sulla realtà. Questo è un buon motivo per abitare la fede; male che vada hai seguito il fluire della tua esistenza.

  Si può considerare questo come la fede generica in un Dio, prima ancora che cristianesimo?

Questo può essere, ma a a patto che si tratti di un Dio rivelato e personale; non viene dalla profondità di noi, è fuori, rappresenta comunque una frattura, è un altro. Rivelato, tecnicamente, vuol dire che ha dato una comunicazione su se stesso, che in una qualche forma il divino ha detto delle cose su di sè. Ad esempio: tutte le religioni orientali non si pensano come interazione con una rivelazione, ma con una illuminazione; significa che è l’umana ascesi di morte/purificazione di se stessi che ha come frutto la comunicazione con il divino, una sorta di rieducazione alla trascendenza, ricuperando una memoria perduta, che serve a superare una soglia, a vedere con altri occhi, come una crescita progressiva di consapevolezza. La rivelazione riguarda invece le religioni ebraico-cristiane che presuppongono una qualche forma di comunicazione autonoma e gratuita del divino (anche l’animismo, ma questo non è personale, ma impersonale).

Si diceva: “che ci sia una legge e una grazia che nessuno può procurarmi”: questa è una delle grandi questioni per la comprensione contemporanea del cristianesimo. Già accettare che un altro abbia la prima e l’ultima parola su di me è difficile, ma alla fine, con fatica, si accetta la logica dell’amore; ma una legge e una grazia che nessuno può procurarti significano che la vita ha una sua etica e che questa etica comprende anche la sua stessa negazione, ha una grazia, cioè si può sbagliare. Tradotto in termini esistenziali significa che la mia felicità non dipende da quanto sono bravo. Gli uomini di questo secolo vanno cercando regole, per osservarle o per trasgredirle, m con lo stesso meccanismo: struttura regolamentare esterna, fondata su valori, e nessun teorico perdono se non si seguono (o non si trasgrediscono), salvo avere molte giustificazioni. E’ come se cercassimo l’illuminazione dentro e la legge fuori; il cristianesimo dice che è esattamente il contrario: la parola viene da fuori, la legge da dentro, dalla tua vita, ma, per di più, la grazia (nel senso del condannato che viene graziato) è data, semplicemente è. E’ molto difficile per noi accettare che il giudizio non dipenda dalla nostra bravura.

La buona notizia è: da un altro vengono la prima e l’ultima parola su di me, legge e grazia sono dati nella mia esistenza. E’ il contrario del nostro dire: “Chi può conoscermi meglio di me stesso?” e “Ci sono pure dei riferimenti oggettivi”. Per i cristiani c’è chi mi conosce meglio di me e il peccato è rimanere sotto la soglia della mia (autocompresa) felicità possibile.

“Dio come colui che salva-guarda il volto, la memoria, la dignità di ognuno”: la fede è insieme molto più e molto meno che dire: “questo è un elenco di verità e io lo sottoscrivo”. Più perché non è solo l’assenso della ragione (come se si trattasse di un matrimonio combinato), meno perché l’assenso della ragione arriva a poco a poco, non è un dato originario.