Il dolore (II):
questioni di teologia
Gruppo del venerdì
Gennaio 1995
* Per Theillard de Chardin, la creazione è una storia, un processo, un progresso e questo presuppone una molteplicità, presuppone cioè che questo evolversi abbia una molteplicità che in qualche modo si unifica, ma non si semplifica. Paradossalmente pensiamo sempre che “progresso” voglia dire “semplificazione”, ma l’esperienza che facciamo è esattamente l’opposto. Progresso vuol dire “complessificazione”, cioè tutto ciò che si sviluppa, procede nel tempo e dura, non finisce, in qualche misura diventa più articolato, più specialistico. In questo tipo di processo, dice Theillard de Chardin, necessariamente il conflitto, l’urto, la sconfitta, la perdita, la caduta di alcune parti, è inevitabile e dunque è inevitabile che questo processo di complessificazione, sia del singolo sia dell’umanità, del cosmo, abbia evidentemente degli scarti di produzione, dei tempi dolorosi, di distacco, di perdita, delle parti che vanno rielaborate.
Le due idee interessanti di Theillard de Chardin sono:
a) il mondo è un ordine in divenire. Noi, consciamente o inconsciamente, pensiamo sempre al mondo come ordinato, alla vita come un bene in sè, cioè che ci spetterebbe di vivere felici di per sè; ci si stupisce dei dolori, delle difficoltà o delle fatiche, avendo per principio che il fatto di essere vivi significhi che ci spetta il diritto di essere contenti, dunque che il mondo sia un ordine, che le cose di per sè funzionino e se non funzionano occorre una spiegazione. Theillard de Chardin dice che le cose non funzionano di per sè, funzionano in divenire, alla fine del mondo funzioneranno, per intanto funzionano come possono. Ciò è interessante non tanto per questa prospettiva di evoluzione, ma perché è uno dei punti chiave della riflessione “più pensata”, non tanto esistenziale, che si può fare fuori da un problema, ragionando con calma sul dolore. Chi ha detto che dobbiamo essere felici e che sia necessaria una spiegazione, un senso per il dolore? Perché non ci chiediamo il senso della felicità, da cosa sarebbe stabilito che ci spetta una vita in cui stiamo bene? Noi di per sè non stiamo nè sempre bene nè sempre male, la nostra vita contiene entrambe le cose.
L’idea che l’Eden sia un punto alle nostre spalle da recuperare in qualche modo è radicalmente estranea alla struttura biblica. E’ chiarissimo per i cristiani che il Regno di Dio sta al fondo e questo è assolutamente decisivo per il Cristianesimo. E’ molto chiaro che per il pensiero biblico, ebraico e cristiano, lo star bene, il Paradiso, sta al fondo, non all’inizio; il Paradiso terrestre è una rilettura greca, figlia di S. Tommaso, cioè del pensiero aristotelico che prende il concetto della fine, ci mette un aggettivo limitativo per spiegare qual era lo stato dell’origine (nella testa di Tommaso “terrestre” voleva dire un po’ meno, più basso, del paradiso celeste). Ma quando Tommaso fa questa operazione per loro era molto chiaro, non altrettanto per noi, che paradiso terrestre era ben diverso dallo star bene, perché terrestre, corporeo, materiale, limitava profondamente, era un dato negativo. Questa idea di aspettarci di star bene è assolutamente pagana, dopodiché ognuno è liberissimo di esser pagano, però deve sapere che lo star bene è estraneo al cristianesimo e per un cristiano invece centrale è la seconda venuta, la parusia, quando il Signore tornerà sulla gloria e instaurerà il Suo Regno, è l’attesa messianica per gli ebrei, sta davanti, non dietro.
Dunque non è uno stato “naturale”. La confusione nel pensiero cristiano, arrivato fino a noi, si fa esattamente quando con Tommaso si sposa il pensiero greco, solo che Tommaso lo fa in modo molto equilibrato, usando una serie di termini che per la sua cultura, per i suoi contemporanei, erano chiarissimi, per noi no. Tutto il discorso di Tommaso sui doni naturali e preternaturali non ha lo stesso significato per noi.
Noi usiamo naturale in due sensi:
1) o nel senso ottocentesco, roussoiano, di istintivo, non socializzato, naturale come primario, primitivo;
2) o nel senso settecentesco che attiene ad un soggetto come diritto naturale, gli compete per sua natura.
Questi significati sono estranei a Tommaso, perché l’uno viene dal pensiero positivista, l’altro dalla rivoluzione francese. Quando Tommaso dice “naturale” dice un termine limitativo, ciò che non attiene allo spirito, ma alla materia, fisico, non metafisico e quindi naturale è sinonimo di limitato, impotente, non completo, non armonico, corruttivo, transeunte. Noi siamo figli di un’altra cultura, dunque abbiamo un’aspettativa sulla realtà e questa cultura è incoraggiata dal ‘700-‘800, dalla logica dei diritti, dalla questione del soggetto. In questo modo non si fanno i conti con il dolore, a partire da questo ci si spacca e non a caso si è inventata la psicanalisi. Se uno parte dal principio del diritto alla felicità, o nega la realtà o la realtà lo smentisce. Culturalmente la nascita della psicanalisi è la dimostrazione di questa cosa, la grande cura su questo male inteso come male sociale, sull’impossibilità a reggere il reale. In questo senso l’idea di Theillard de Chardin è molto utile per noi: il mondo è un ordine in divenire e sarà un ordine alla fine.
Ciò che contraddistingue i cristiani è la certezza che c’è un punto in cui uno è felice, saremo liberati dal peso del dolore ma, detto questo, tra qui e quel punto, il peso della realtà non da alcun diritto nè alla felicità nè all’infelicità che sono i problemi del tempo, accadono, sono portati dalle cose e da noi stessi. Quanto al pensiero cristiano, non si prescinde dalla felicità o dall’infelicità; la profezia messianica è “ci sarà un Regno di giustizia e di pace, verità e misericordia si baceranno…”. La vita avrà un altro equilibrio e questo gioco di gioie e di dolori verrà superato. Come, cosa, quando, è altra questione. La Sapienza è esattamente la psicanalisi del 200 a.C., è il tentativo di fare i conti con l’esistenza del dolore e della felicità, cioè con la vita. Il problema che si pone la Sapienza non è tanto cosa accadrà quando saremo felici, ma cosa facciamo nel “frammezzo” da qui a lì, come si campa al meglio possibile e allora inventa una serie di regole vitali per gestire la vita. E questo mi pare il problema serio (Giobbe).
b) Il ragionamento di Theillard de Chardin ha un senso ad una condizione: che l’uomo sia pensato immortale, che ci sia un futuro oltre la morte. Non a caso la domanda sulla felicità o sulla ribellione va di pari passo con le questioni di confusione sull’aldilà. A seconda di ciò che ci si attende dopo la morte, ciò che accade di qua è determinante o no.
* Dette queste cose rapidamente ci sono una serie di problemi che restano aperti. Innanzitutto due grandi categorie di problemi:
1) in riferimento all’uomo
a) il dolore come problema della vita degli essere umani che, credenti o non credenti, hanno l’esperienza del dolore. Qui si pongono una serie di questioni, per esempio, in riferimento al potere e alla responsabilità dell’uomo di fronte al dolore, ma anche alla possibilità di provocare dolore (è un dato impossibile non provocare dolori, per quanto uno faccia attenzione provoca dolori, ad esempio morendo; questa è l’altra faccia del diritto allo star bene cui facciamo corrispondere il dovere di far star bene ma ciò non è totalmente in nostro potere).
b) il dolore che pone un problema alla ragione, non tanto quello di spiegare il dolore, ma del limite esplicativo della ragione, cioè è l’esperienza di alcune cose della vita, molto serie e assolutamente vere per le quali la ragione non serve e in alcuni casi è addirittura controproducente, nel senso che più capisci e peggio stai. Non solo, ma la ragione ha come caratteristica, corretta, che appartiene al suo campo di indagine, il giudizio oggettivo, generale, generalizzabile il più possibile, che, nel caso del dolore come dell’amore, e di altre cose fondamentali della vita, è di una inutilità radicale.
2) In riferimento a Dio
a) il discorso del rapporto tra l’esistenza del dolore e la bontà di Dio resta aperto. Cosa vuol dire stare di fronte ad un Dio che si fa impotente di fronte al dolore, in termini concreti cosa vuol dire stare nell’amore di uno che ci ama e fa l’esperienza di essere impotente di fronte al nostro dolore.
b) il discorso sull’onnipotenza di Dio. Per molti secoli si è pensato all’onnipotenza di Dio come ad un’esperienza produttiva, Dio può tutto; in questa logica l’esistenza delle cose che non funzionano è una smentita alla sua onnipotenza, perché le cose non gli possono sfuggire. L’onnipotenza viene pensata in termini di potere. Questo è assurdo per il Dio cristiano, che non funziona così. Però si dice che il Dio dei cristiani è onnipotente, allora come si pensa questa onnipotenza (un rapporto amoroso di fronte al dolore implica un’impotenza che attiene all’umanità, l’altro che mi sta di fronte è un essere umano, ma Dio non è impotente)?
* Domanda: come farsi una ragione del male e dell’impotenza di Dio rispetto a questo male?
Il versante dei problemi su Dio è anche per me molto interessante ma voi avete:
a) un’idea di Dio che ha poco a che fare con il Dio cristiano o comunque ci mettete dentro una serie di altre cose;
b) un’aspettativa su ciò che legittimamente uno intende come naturale o competente all’uomo sui problemi dell’umanità rispetto al dolore tale che non è compatibile con ciò che si pensa sul Dio cristiano. Mi ripeto: LA SALVEZZA NON E’ UNA RISPOSTA, il pensiero cristiano non pensa alla salvezza in termini di soluzione; il dolore come il peccato non è di per sè un problema cristiano, è irrilevante, fa parte di tutto ciò che è umano. La nostra vita conta infinitamente agli occhi di Dio (gioie, dolori, i nostri giorni) tutto conta, le cose piccole come le grandi, ma contano perché attengono a noi, rispetto al Dio cristiano, perché sono le cose dell’amato di Dio. Il dolore è tema solo in quanto è tema della vita degli uomini, non tema in sè. Il Cristianesimo non è una soluzione, lo è solo se usato come ideologia e se usato in questo senso è molto poco convincente e c’è di meglio.
* Domanda: sul discorso del male, in che modo si può dire una cosa conclusiva, in che rapporto sta, o non c’è alcun rapporto tra Dio e l’esperienza del male?
Non si possono dire delle cose conclusive sui temi dell’umanità. Sul piano pratico esistenziale, personale, uno può trovare delle conclusioni per la propria esistenza che sono in genere dei modi di percorso, con cui, di volta in volta, in un contenitore che hai dentro, affronti nelle situazioni di sofferenza. E sul piano pratico esistenziale, cosa non da poco, una delle questioni da rifare, che non si sta facendo, è fare i conti con il luogo della sofferenza, rispetto alla nostra esistenza, fuori dall’emergenza del dover fare i conti con un male.
Per esempio, incominciare a pensare fuori da quella logica di diritti e cominciare a pensare come il male è parte della vita; è un nostro diritto sulla vita che ci accada di soffrire, perché se no non avremmo una vita piena, anche se questa idea per noi è terrificante. Bisognerebbe ricominciare, lo consiglia anche Freud, per star bene psichicamente, a fare i conti con l’esistenza del dolore. Il problema è capire che senza sofferenza la nostra vita non sarebbe piena, noi saremmo privati di qualcosa se fossimo privati della sofferenza. La nostra vita non sarebbe la totalità di se stessa se noi non morissimo, perché ci mancherebbe un pezzo di vita. Questa è una parola provvisoriamente conclusiva sul piano pratico esistenziale.
Sul piano teorico, una parola provvisoriamente conclusiva è di cominciare a pensare in che connessione stanno Dio e il male e dunque qual è la competenza dell’umano, della vita e qual è la competenza della fede rispetto ad una sofferenza.
E poi sul terzo livello, quello del male come mistero, è lì che la riflessione andrebbe fatta; ci sono tutta una serie di parole da ridire perché, per esempio, all’interno di una riflessione credente, bisogna ricominciare a pensare il peccato per il luogo che ha e all’esistenza di un male personale che è il demonio (non nel senso di uno con le corna e la coda …), ma una realtà in cui il male non è soltanto la privazione di qualcosa a cui avrei diritto per star bene, ma è una realtà con una sua esistenza che mi attraversa.
In un midrash, si spiega che la vita di ogni persona è la lunga gestazione di Giacobbe, il lottatore, ed Esaù, il rosso. Noi siamo “abitati” dal fratello buono e dal fratello cattivo che lottano già nel nostro ventre e il fratello cattivo non vuole far nascere quello buono, lo trattiene per il piede e continuano a lottare sempre perché la primogenitura che spetta al fratello buono, viene rapita nel seno di noi stessi dal fratello cattivo. Esaù è il primogenito, ma in realtà doveva essere Giacobbe. Siamo abitati da una vita doppia, da dei gemelli in lotta tra loro. L’unico problema morale che uno ha nella vita, è PARTORIRE il nostro figlio buono. Questo è un problema serio, l’unico problema da porci di fronte a Dio, perché in noi esiste questa duplicità ed è un problema che nettamente riguarda la fede.
* Nella storia dell’umanità ci sono stati mali che culturalmente non erano sanciti come tali, erano considerati legittimi, ma restano mali nel senso che l’esperienza di dolore provocata è reale (esempio la schiavitù è stata considerata legittima per molto tempo, ma era un’esperienza di dolore per chi la subiva). La definizione di ciò che è eticamente accettabile o no, dipende dal sistema etico di riferimento; non tutto ciò che noi sperimentiamo come male e che viviamo come un dolore quando ci riguarda direttamente, viene considerato eticamente illegittimo, ma ciò non toglie l’esperienza del dolore. Il livello etico, che è certamente un tema strettamente intrecciato con il male, è ancora il passo successivo. L’esperienza del male è primaria e non ha necessariamente a che fare con il bene o il male in senso etico. L’elaborazione del dolore è diversa in rapporto all’apparato culturale, ma non mi pare che ci siano tutte le diversità possibili. Uno dei problemi chiave dell’evoluzione culturale del nostro tempo è il principio per cui, naturalmente, ci spetterebbe di essere felici. Questo tipo di aspettativa sulla pretesa realtà, è una delle questioni decisive per cui non riusciamo più a sistemare il dolore da nessuna parte.
Le nostre nonne che, su otto figli riuscivano ad allevarne tre, non elaboravano un dolore come quello che elaborerebbe ora una madre, ma proprio perché la loro attesa sulla realtà non era l’avere un diritto. Non è casuale il cambiamento, non è che sono cambiati i tempi e noi viviamo il dolore in un altro modo. Noi ci siamo persi un pezzo fondamentale della realtà e cioè che il dolore è esattamente parte dell’esperienza umana come la gioia. In modi molto semplici, magari molto poco elaborati, o anche ideologizzati attraverso la religione o certi usi consolatori, la gente affrontava l’esistente, il reale, provando dolore, ma lo elaborava dentro una aspettativa che le garantiva una sanità mentale. La psicanalisi è nata esattamente su questo tassello di realtà mancante. La Chiesa non dice che noi dobbiamo aspettarci la felicità o l’assenza di dolore, parla di valle di lacrime, che è la più antica ortodossia cattolica. Possono esserci interventi straordinari, che la Chiesa chiama miracoli, ma l’idea che la potenza di Dio possa esprimersi anche come soluzione di problemi attiene al miracolo e non al diritto, nella tradizione cristiana. Uno può chiedere miracoli, in alcuni casi deve farlo, ma non stanno dalla parte dei diritti, ma nella bontà gratuita di Dio e questa non è affatto teologia innovativa, ma teologia precedente il Vaticano II. Nella teologia più tradizionale la terra è una valle di lacrime, siamo qui per soffrire, Dio può fare miracoli, così uno fa pellegrinaggi, pratiche di scambio con Dio, buone opere, voti, sacrifici, per “estorcere” un miracolo, a cui non ha diritto, ma impegna cose di sè per ottenerlo.
Il cosiddetto pensiero laico, moderno, progressista, continua, sul discorso di Dio rispetto al dolore, a non affrontare il problema, che è totalmente laico, cioè culturale, umano, di che cosa fa uno con il dolore non riuscendo più per istinto ad accettare la sofferenza in nome di Dio o di un altra cosa. Si continua a riporre il problema in termini religiosi, ma come sta la questione in termini umani, per gente come noi che non è cresciuta, per fortuna o purtroppo, come i nostri nonni, che è senza un’istintiva capacità di accettare? Personalmente non voglio semplicemente tornare indietro, reimparare ad accettare che tutto viene da Dio, perché credo che questi problemi attengano all’umanità, e non direttamente in prima battuta al problema della fede. Però oggi non si trovano adulti con cui fare due ragionamenti seri, rispetto a questi temi come problemi di umanità, cioè come facciamo, senza diventare integralisti e fanatici su un’ideologia qualsiasi, a non barare con noi stessi, a fare i conti.
* Domanda: penso che chi non ha una particolare relazione con Dio, nel momento del dolore, o la cerca, o la stabilisce, ma mi incuriosisce sapere se c’è qualche altro modo di affrontare questo problema perché in effetti mi sembra di capire che l’unico sia quello di cercare Dio anche per quelli che non ci credevano prima.
Come credente sono onestamente disgustata dalla logica che la religione sia una specie d’avvoltoio, che casca sulle situazioni un po’ turpi e vi si infiltra; sono disgustata dalle logiche integralistiche e fanatiche, però sono contemporaneamente stufa della questione posta dai laici “come sta l’onnipotenza di Dio”. Mi chiedo come sta l’onnipotenza dell’uomo. Oltre alla psicanalisi che cosa si propone o che cosa posso fare io? Mi sembra che questo sia, non il tema decisivo, ma sia un tema che, se non si riesce almeno ad enuclearlo come problema, non si può saltare, altrimenti tutti i discorsi su Dio sono falsati. Non si può parlare di Dio saltando questa questione; possiamo dire siamo qua, non sappiamo che pesci pigliare, ognuno con percorsi diversi; possiamo fare riflessioni, un po’ di fatica, detto ciò non è che si arrivi ad una conclusione, ma si sa che comunque c’è questa questione ineludibile. Paradossalmente mi sembra che oggi sia molto più facile giustificare Dio di fronte al dolore del mondo, che non giustificare la nostra esistenza personale, di esseri umani, e la convivenza civile degli esseri umani su questo pianeta.
* Domanda: il discorso iniziale era in relazione a Dio, alla religione; mi rendo conto che non è così unico, può essere uno dei modi ma non il solo, il principale; resta comunque un problema della vita, dell’uomo.
Come credente, continuo a pensare che qualsiasi modo di avvicinarsi a Dio saltando dei pezzi di umanità, se può essere biograficamente una strada di salvezza possibile (uno non ce la fa e Dio gli fa un miracolo perché le vie del Signore sono infinite) non va teorizzato; bisogna assolutamente evitare qualsiasi uso del discorso religioso come un anche possibile sospetto alibi per saltare dei pezzi di questioni umane. Qualsiasi uso di Dio come un alibi rispetto a un senso tragico, “teodrammatico”, dell’esistenza, fa inorridire e violenta il Dio dei cristiani che non ha saltato alcun pezzo, mai, della storia degli uomini (4000 anni dalla creazione a Gesù Cristo). Dovremmo giustificare Dio di che, di qualcosa che pensiamo non essere un problema?
Se Dio fosse un onnipotente nel senso di iperproduttivo, se Dio non fosse impotente, sarebbe intollerabile. Un tema su cui lavorare è che l’esperienza del dolore, man mano che si allontana da una comprensione sociale di naturalità come cento anni fa, giusta o sbagliata che fosse, perde ogni socializzazione, diventa sempre più muta. Noi siamo sempre più muti nel dolore; in esso la nostra esperienza di comunicazione è sempre più formalizzata, più rituale. Questo è un aggravamento dell’esperienza soggettiva di dolore allucinante: ciò che vivo come dolore, appesantito dal mutismo, lo vivo due volte. La nostra civiltà occidentale, contemporanea, è l’unica che ha un’elaborazione di lutto assolutamente minima e tendente all’invisibile, il segno esteriore della disperazione è vissuto con vergogna. Tutte le società hanno elaborazioni sui lutti visibilissime, molto esteriori e molto socializzate (uso ebraico delle comunità ortodosse). Una spiegazione può essere data dal fatto che se uno non ha più un posto per il dolore, deve dichiararlo invisibile anche socialmente. Il mito moderno, totalmente nuovo, che nel dolore uno preferisca stare solo, è un’idea che nasce dal romanticismo, ma è un’immagine totalmente letteraria. E’ vero che se uno sta male preferisce non aver da badare ai doveri sociali (sorridere, essere gentile, ospitale) ma non che vuole stare solo: preferisce non dover reggere un ruolo e preferisce essere consolato da qualcuno che magari sta zitto ma gira per casa, è presente, senza chiedere alcunché.
Tutto questo dice che non sappiamo più dove mettere il dolore e che il dolore è il segno di un fallimento. Se la vita è una serie di problemi da risolvere, un lutto è comunque un segno vergognoso perché è un problema non risolto e si sente dire: “ma come non hai ancora reagito?” Ma a che cosa si dovrebbe reagire? Non c’è niente a cui reagire, come se qualcuno ci avesse attaccati con un’azione contro di noi. C’è invece un evento non irrilevante da percorrere, abitare, conservare. C’è un ritmo biologico sul dolore che tutti scoprono e nessuno dice mai, ci sono alcune cose che non si riesce a fare per tot tempo, nè fuori di noi, nè dentro di noi, poi c’è una svolta. Ma perché non c’è una socializzazione sul come affrontare questi momenti. Nessuno apre un dialogo, l’unica cosa da fare. Ci sarà un modo, nella nostra cultura, in cui si può percorrere questo evento, in cui c’è un posto interiore e dunque anche esteriore per questo. Il ragionamento teorico che si fa: avere espulso il dolore come componente della vita e considerare l’esistenza come una successione di problemi che devono avere una soluzione, altrimenti è un fallimento, è un dato notevolmente nevrotico. Da questa partenza o si rimuove il dolore, o ci si assesta. Entrambe esperienze in cui il dolore diventa totalizzante, anche quando lo si rimuove, perché si deve riorganizzare l’esistenza in funzione di tutto ciò che è rimosso. Cosa vuol dire percorrere un dolore, averlo come un pezzo della propria vita; come si riorganizza una vita intorno a un dolore: queste mi paiono domande interessanti che non: come si spiega che senso ha il dolore?