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Il dolore (III):
il cieco nato

Commento a Gv 9,1-41

Gruppo del venerdì
Febbraio 1995

* Come sempre, nel Vangelo di Giovanni, i testi sono molto costruiti: l’interesse di Giovanni non è raccontarci quello che è accaduto, darci la cronaca, ma darci invece un testo interpretato e costruito per una certa tesi.

Come sempre nello stile di Gv, troviamo cinque righe, il vero cuore del brano, che in genere sono in testa, un lungo “titolo” in cui egli dice tutto e poi stende il resto del testo per rispiegare ciò che ha già detto. Le cinque righe sono il dialogo fra i discepoli e Gesù, prima del miracolo, che è tutta la spiegazione dell’inizio e di cosa succede. Il dialogo è “I suoi discepoli lo interrogarono…” I discepoli, in questa situazione, sono curiosi e intelligenti, vedono la storia intorno a loro, non sono ciechi di fronte a ciò che accade e questa storia li interpella non solo per pura curiosità, ma per un atteggiamento di curiosità intelligente e onesta; però, come al solito, essi sbagliano la domanda, nel senso che si mettono in un quadro in cui non c’è risposta. La loro domanda è esattamente la traduzione antica, cioè corrispondente alla loro cultura, delle nostre domande sul dolore. Noi non ci chiederemmo “chi ha peccato?” solo perché non viviamo più in una cultura della retribuzione, ma ci facciamo domande assolutamente analoghe: come si spiega il male?… quale è il senso?… cosa imparo? Queste sono le domande in cui uno vede una cosa, è intelligente e onesto su ciò che vede, ha cioè una predisposizione positiva, ma si fa una domanda solo a partire dalla cultura, senza alcun distacco dalla propria cultura di appartenenza, dal mondo di spiegazioni già offerte e, anche quando ha un atteggiamento critico, come hanno i discepoli (qualcuno ha peccato se c’è un male) non esce comunque dalla costellazione di pensiero corrente, non riesce a mettere in gioco i presupposti.

I discepoli domandano a Gesù, ma la loro onesta domanda posta dentro un rapporto con Gesù, li sposta a trovare in genere un’altra risposta o, spesso, un’altra domanda. In genere, non sanno di più su quel tema alla fine dell’episodio, ma la risposta di Gesù li sposta. La grande sequela dei discepoli non sta nei singoli temi (chi è il più grande, uno alla destra uno alla sinistra…), ma nel rimanere sempre a porre la domanda a Gesù, perché é la relazione che opera. E questo è il primo dato da tenere presente.

* Risposta di Gesù “nè lui, nè i suoi genitori, ma …”, fa piazza pulita dell’alternativa posta dai discepoli. La prima operazione è: ponete domanda sbagliata. Poi la risposta è in due parti:

a) E’ così perché si manifestassero le opere di Dio.
La tentazione che viene a noi è di dire che da tutta l’eternità Dio aveva pensato che quello doveva essere cieco e star lì su quella strada ad aspettare, ma questa è una concezione strumentale dell’essere umano che Dio farebbe soffrire solo per concedere a Gesù l’occasione di fare il miracolo. Un Dio così strumentale è inaccettabile.

b) Dobbiamo compiere le opere di Colui che mi ha mandato finché è giorno, poi viene la notte quando nessuno può più operare.
Si parla insistentemente delle opere e c’è un tema sul tempo, il giorno e la notte, come se ci fosse un’urgenza (finché è giorno bisogna compiere le opere perché poi non si può più operare). Ripensiamo a tutto il tema sulla salvezza, la salvezza che abbiamo è che abbiamo ancora tempo, ciò che ci compete è il tempo.

La questione dunque è, partendo dal fondo: noi abbiamo solo il giorno per operare, poi viene la notte, cioè un tempo in cui più nessuno può operare. Sappiate che c’è un tempo stabilito per operare che è il giorno, le opere e i giorni. Questo è ciò che dobbiamo fare, che compete a tutti, a Gesù, ai suoi discepoli, a chi ascolta e legge questa parola; operare finché è giorno, cioè trafficare il nostro tempo, la nostra vita, che è l’unica materia della salvezza, non c’è un’altra materia possibile e queste sono le opere di colui che “mi” ha mandato. Operare durante il giorno è l’opera di Dio.

Dunque costui è cieco perché si manifestasse l’opera di Dio esattamente come io non sono cieco, perché si manifesti l’opera di Dio: io esisto con ciò che la vita mi dà per esistere (dolore, gioia, infermità, salute, intelligenza, debolezza …) tutto quello che la vita mi dà come bagaglio per un unico scopo che è sempre lo stesso: la manifestazione delle opere di Dio finché è giorno, per tutto il tempo. Traducendo in parole già usate, il dolore non è un segno nè negativo, nè positivo, quanto a Dio, il dolore è una delle cose che succede nella vita di provare e non guarda in faccia nessuno, non è nè giusto nè sbagliato, non capita in rapporto ai meriti o ai difetti, ma fa parte dell’esistenza. C’è una quota-parte, che, comunque, ci accade di avere, è l’altra faccia della vita, fino all’ultima esperienza del dolore che è la morte, che è esattamente non il contrario della vita, ma il fatto che la vita ha un termine, esiste perché ha dei confini. Dunque egli è cieco ma è anche vivo, è anche persona, egli è perché si manifestino le opere di Dio. Come siamo dobbiamo operare finché è giorno, il tempo non è illimitato, la vita non è un bene infinito.

* “Finché sono nel mondo io sono la luce del mondo…” Qui c’è un elemento in più. Riassumendo le tappe del discorso fino a qui:

– la domanda sbagliata dei discepoli
– Gesù che dice “nè l’uno nè l’altro”

+ egli è così … (dunque il discorso sulla vita)
+ la vita ha un termine (un giorno e una notte).

Ultimo elemento aggiunto è una definizione di Gesù che dice di sè qualcosa che riguarda solo lui: “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo”. Nel ragionamento la luce è il giorno; io sono il Redentore del mondo, colui che vi da tutto il tempo necessario, che fa durare il giorno (Giosuè che ferma il sole perché la battaglia possa essere vinta).

1) Nessuno di noi può far durare il proprio giorno un minuto di più di quello che gli viene dato
2) Non a caso l’Apocalisse dice: “Ci sarà un giorno in cui i suoi figli non avranno più bisogno di luce, di lampade o di stelle perché il figlio dell’uomo li illuminerà”; ci sarà un giorno che non avrà fine, in cui ci sarà tempo senza limitazioni (per i credenti l’eternità). Questo è il tema che ai discepoli Gesù pone sulla questione del dolore.

* La spiegazione di Gv, che racconta questo fatto da bravo cantastorie, con un teatrino di personaggi e di dialoghi “Chi ti ha guarito…” è una specie di campionario delle spiegazioni possibili alternative per riuscire a non uscire dal quadro prestabilito all’inizio, è una serie di giochetti su come raccontare delle storie per non entrare nella logica di Gesù.

a) “Detto questo Gesù …”: la prima posizione è del miracolato, che non ha capito niente, non sa, racconta, ma non ha una spiegazione, gli capita nella vita che un dolore sia mutato. La prima reazione che un miracolo provoca non è la fede, ma le domande (è lui, non è lui, dov’è). Il primo effetto della salvezza è sempre confusione, paura, domande. Ma in un contesto di onestà di cuore le confusioni e le domande sono il segno di una salvezza operante, l’unico segno che ci è dato nella storia che la salvezza sta operando, spesso, è che siamo confusi.

b)”Quest’uomo non osserva il sabato …”: l’atteggiamento dei farisei. Il problema qui non è la bigotteria, ma è il fatto che uno deve fare comunque tornare i conti con un sistema, sia pure l’antibigotteria come sistema; il problema non è cosa si mette dentro, ma il fatto di fare raffronto, la pietra di paragone è perennemente un sistema che non si lascia spostare dalla novità. Il parametro è il sabato, cascasse il mondo. C’è poi il dissenso tra i Farisei; il dissenso sull’ideologia fa fare la domanda a chi ha già spiegato tre volte e l’unica cosa che ha detto è non so; è chiaro che ha poco da dire, ma, giustamente, non sapendo che pesci pigliare, gli chiedono che cosa dice di lui.

c) “Sappiamo che è nostro figlio …”: l’atteggiamento dei genitori. Io non c’ero, se c’ero dormivo, comunque non gioco, fate giocare qualcun altro.

d) “Se sia un peccatore non lo so, ma una cosa la so: prima ero cieco e ora ci vedo”: ancora il miracolato, che finalmente dice qualcosa. E’ la quintessenza dell’atteggiamento semplice, ma non beota, sull’esistenza, che impara dalla storia e, non riuscendo a sistemare l’elemento “non so” da qualche parte, non è smosso comunque dall’avere imparato dalla storia. Se sia peccatore o no, non so, ma sta di fatto che questo è il pezzo di storia che mi ha raggiunto e mi va bene così. Il “non so” si articola e non a caso sull’obiezione ideologica (è un peccatore e noi siamo figli di Mosé). “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?”

L’ultimo ricorso è esattamente la domanda di partenza che si richiude sulla spiegazione iniziale; i Farisei alla fine erano più convinti ancora dello schema primitivo di quanto erano all’inizio.

* “Gesù seppe… Tu credi… Io sono venuto”
Questi ultimi versetti sono, come sempre in Gv, il tocco di delicatezza. Prima c’è il ragionamento teologico, poi quello del cuore; Gv non riesce mai a fare solo il primo.

Prima fa con una spiegazione il ragionamento teologico sul rapporto tra peccato e dolore e sugli atteggiamenti possibili che si possono avere di fronte a questo tipo di percorso. Sul tema particolare del dolore, la sconnessione che Gesù fa tra tema religioso, giustificazione religiosa dell’esistenza di Dio o dell’esistenza morale umana, di tutte e due le parti, è proprio netta: nè Dio deve giustificarsi per il dolore del mondo, nè l’uomo deve colpevolizzarsi.

La cecità o l’essere vedenti (“se foste ciechi non avreste nessun peccato, ma siccome dite noi vediamo…”) è l’atteggiamento di possesso sulla propria vita che sta dalla parte di un eventuale colpevolezza. “Il vostro peccato rimane”, non è che dice “Siccome dite noi vediamo vuol dire che siete ciechi, ma “siccome dite noi vediamo il vostro peccato rimane”. Dalla parte del rapporto con Dio il problema è l’atteggiamento di possesso della propria esistenza (ideologica, religiosa …); dal punto di vista del rapporto con Dio la fatica del mondo è irrilevante, fa parte delle cose del mondo: sono le opere, i giorni, il tempo che ci è dato per trafficare le nostre opere (ciechi, vedenti, malati, sani, fa uguale) perché questo di per sè non ha un segnale in relazione al tema religioso. Il male è la fatica di esistere. Ogni atteggiamento di possesso, compreso sul male, sul dolore, sulla propria vita e di pretesa sulla propria esistenza, questo ha rapporto alla questione della relazione con Dio perché significa idolatria: se io sono padrone della mia casa interiore, del mio percorso interiore, non ho spazio per Dio, Dio diventa, eventualmente se c’è, un soprammobile; io ho come solo Dio me stesso, mi faccio creatore di me.

* Domanda: si potrebbe pensare che Dio è quasi indifferente alla nostra vita, quasi dicesse non è colpa mia se c’è il dolore: Dio ha indifferenza sulla nostra fatica di vivere?

La fatica di vivere non è un problema che riguarda Dio, lui ci dà libertà sulla nostra vita. Le opere e i giorni sono nostri, nel bene e nel male. Lui ci fa compagnia, è compassionevole, è il buon samaritano: si china su colui che andando da Gerusalemme a Gerico e incappa nei briganti. Ma la strada, con le sue salite, discese, fatiche, sassi, è questione del viandante. In caso disperato lo carica, lo porta dall’oste, lo fa curare ma non torna a far la strada al posto suo. Andare fino a Gerico rimane il problema del viandante. La questione della strada della nostra esistenza è la nostra questione e sarebbe atroce se diventasse la questione di Dio, perché noi non saremmo altro che burattini, non avremmo alcuna realtà. Lui non è indifferente perché è compassionevole e perché, come insegna la Scrittura, non permette mai la disfatta finale al di sopra delle nostre forze. Non bastano la fatica e il dolore della vita per distruggerci; ci dà grazia sufficiente per sopportarle, se conserviamo la fede.

Dio cura questo rapporto a meno che uno, liberamente, non voglia uscirne; ma non cura il dolore, cura il rapporto.

Dio sta in questo tipo di atteggiamento e per noi è estremamente difficoltoso perché, forse non per tutti e in assoluto, ma è molto diffuso numericamente il fatto che per noi pensare un rapporto, un amore, ha sempre una connotazione di onnipotenza, ha sempre la tentazione più o meno esplicita di supporre che se un altro mi ama, io sarò felice, le cose delle vita non mi raggiungono più. Poi impariamo a dura fatica, con un bel numero di anni e di sapienza, che non è così ma ci rassegniamo a malincuore, tendiamo a pensare di essere invincibili se amando siamo amati, e proviamo rabbia se l’altro non ce la fa a proteggerci da tutti i mali dell’esistenza. E se riusciamo a tollerare che l’altro non ce la faccia, comunque pensiamo che sarebbe giusto. Ma questo invece è falso.

E’ duro accettare che il vero di un amore, il suo essere pienamente un amore, è che l’altro, comunque, non possa attingere al mistero della mia esistenza che resta cosa mia; però non è affatto radicalmente indifferente che l’altro ci sia oppure no.

Con Dio è uguale.

La questione è che l’essenza di un rapporto reale sta in questo gioco di libertà, se no non è un rapporto.

La potenza su se stessi nasce proprio dal coinvolgere Dio in bene o in male, mentre l’atteggiamento di riconoscere lo spessore delle cose della vita nella loro entità, ben lungi dal farci diventare autosufficienti, ci fa diventare umili.

* Domanda: se Dio non interviene, nonostante sia compassionevole, allora mi devo aggiustare io?

Il problema qualificante è se dentro o fuori un rapporto, la questione discriminante è me la devo aggiustare io, dentro un rapporto non in qualsiasi modo, se sto dentro; se sto fuori, diventa autosufficienza. Molto spesso il discorso religioso, come per i Farisei, diventa il modo per star fuori dal rapporto, il vero discorso di autosufficienza. Stare dentro ad un rapporto conservando la propria autonomia è il problema.

In questo caso non ci si annulla nell’altro, ognuno mantiene la sua individualità, la sua autonomia di vita, di decisione, di azione però non prescindendo dall’altro. Jung, riferito alla coppia, non a Dio, dice che l’autonomia in un rapporto è quando io decido le cose della mia vita con l’altro dentro e non con l’altro fuori; decido interloquendo con l’altro che è dentro di me, che è talmente con me da essere dentro di me. Quando decido con l’altro fuori di me, quando discuto tutto con l’altro e anzi mi aspetto da lui le risposte, lo faccio diventare il mio superego per cui (banalizzando) se sbaglio è colpa sua (tu mi hai detto di fare così, io l’ho fatto per te). Questo è esattamente il discorso idolatrico: decidere con l’altro fuori; apparentemente, avendo discusso tutto, uno dice “io sto in questa relazione” ma in realtà è molto più escludente l’altro. La difficoltà di un rapporto è quando ci si prende la responsabilità delle proprie decisioni consapevolmente; è l’unica esperienza di rapporto reale, pieno, ma al tempo stesso, è molto più responsabilizzante perché non si può dire che si è fatta una cosa per sacrificarsi per l’altro, ma perché andava bene a noi di farla, a noi che ci pensiamo con l’altro dentro, ma sono cavoli nostri se gli abbiamo concesso di entrare dentro di noi, non possiamo fargliene una colpa.

Questo discorso, rispetto a Dio, sui dolori della mia vita, significa che un conto è che io di fronte ad una disgrazia che succede mi assumo il dolore, la fatica di fare i conti, la tristezza che mi dà la ristrutturazione della mia vita concreta, con Dio dentro, un conto è che metto Dio fuori chiedendogli il perché.

Nel primo caso apparentemente non tematizzo la domanda su Dio.

In realtà anche se non tematizzo esternamente la questione su Dio, ma faccio i conti con tutto il dolore e la responsabilità della mia vita con Dio dentro, ho un atteggiamento profondamente di fede e qualificatamente diverso. Il discorso del cieco nato sta da questa parte (Giobbe: prima ti conoscevo per sentito dire, ora ti vedo faccia a faccia. Mi sei entrato dentro).

* Domanda: e la volontà di Dio?
Noi prendiamo il nostro concetto di volontà, attuale, voglio questo, non voglio questo, lo spostiamo in alto e diventa la volontà di Dio e ci chiediamo che cosa Dio vuole o non vuole. Non si può fare questa operazione.

La volontà di Dio è una sola ed è il beneplacito, la volontà benedicente, che dice bene, di fare che ogni cosa sia riassunta in Cristo e che tutto ciò che è riassunto in Cristo sia restituito a Lui, cioè la volontà di Dio è introdurci nella dinamica della Trinità: sia fatta la tua volontà; ad un certo punto, con questa fatica di conoscersi, ci sarà un giorno in cui saremo felici insieme. I racconti di sogni e visioni nella scrittura sono modi mitologici di dire che a volte accade che, siccome non ce la facciamo più, Dio mostra, su dati concreti, la sua volontà. Tutti questi racconti stanno sotto un segno di magia, sono un po’ eccezionali, miracolistici, perché questo di per sè non è l’ordinario (questi sono tempi di grazia particolare, in cui il piano generale di Dio, essendo noi in grave difficoltà, si chiarisce).

Non a caso nella forma letteraria della Scrittura, l’ultimo che ha sognato è S. Giuseppe. Poi ci sono i rapimenti celesti, altra categoria letteraria (altro modo di raccontare). Poi, con i padri del deserto, ci sono le visioni demoniache, non vedono mai Dio, ma il demonio e dunque, per differenza, sapevano ciò che dovevamo fare; poi c’è la fase dei mistici con le visioni mistiche.

Adesso un credente dice: dopo riflessioni, preghiere e domande su di me ho capito che… perché il nostro genere letterario è la ragione, noi capiamo, non vediamo. Ma in tutta la vita dei credenti c’è l’esperienza di una intuizione sul desiderio profondo della propria esistenza.

Dio è compassionevole verso la nostra fatica di vivere e ci sono situazioni in cui interviene, ma questo non è il problema chiave. Se interviene o no, è nella gratuita libertà del suo amore benevolente, ma non solo perché fa quello che gli pare; perché l’economia di questo equilibrio tra autonomia e relazione ci è oscura.