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Il peccato

Gruppo del venerdì
Marzo – Aprile – Maggio 1995

* Credo che la cosa migliore sia partire dalla questione attuale, cioè dalla domanda che è venuta fuori più volte: perchè noi la pensiamo sempre in un altro modo? Quando dico “Il peccato non è la cosa centrale del cristianesimo, il peccato non ha questa rilevanza, non conta, è un problema nostro, non di Dio”, quando faccio questa osservazione, di solito, la questione che viene fuori è: “Ma perchè a noi hanno sempre insegnato in un altro modo?”.

* La questione riguarda un grande capovolgimento che è accaduto ad un certo punto, prima nella teologia e poi nella pratica, e che a noi è arrivato 300 anni dopo, solo nella pratica (le omelie, l’insegnamento ordinario). La cosa è avvenuta tra il ‘500 e il ‘700 in teologia, e poi man mano è stata tradotta normalmente sempre in peggio.

Il capovolgimento è quello che avviene nel ruolo del peccato originale e in quello del peccato attuale.

Normalmente pensiamo al peccato attuale in un certo modo e, alla luce di questo, pensiamo al peccato originale; cioè pensiamo che il termine comune è peccato e pensando a cosa è il peccato, prendiamo questa idea, la spostiamo all’origine e questo sarebbe il peccato originale. Alla fine di questo procedimento non capiamo più niente perchè la nostra idea di peccato è legata a due temi moderni fondamentali, che sono quelli dell’idea di responsabilità (soggetto, soggetto di diritto e dunque di doveri) e dell’idea di norma, che non fanno di per sè parte direttamente della concezione cristiana del peccato.

Noi pensiamo il peccato come trasgressione di una norma in modo responsabile. C’è una legge che dice, ciò che è legale e ciò che è illegale, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Se io responsabilmente, con coscienza, liberamente, vìolo questa norma, ciò è peccato.

Prendendo questo concetto e spostandolo alle origini, domandiamo: “Qual è la norma che è stata violata da Adamo e, se lui è responsabile di questa violazione, io cosa c’entro?” Con questo sistema viviamo fuori da una logica cristiana il rapporto con il peccato attuale e non capiamo più nulla del peccato originale e di tutto ciò che ad esso è legato (ad esempio il Battesimo). Questo è successo perchè tra il ‘500 e il ‘700, si sono introdotti nella cultura i due concetti di responsabilità personale e di norma oggettiva o meglio assoluta, che non erano mai esistiti prima e sono stati mal digeriti dal pensiero cristiano ed hanno incominciato a funzionare tirandosi dietro una serie di contenuti e di parole cristiane, ma anche a funzionare in modo generativo, cioè generando quadri di interpretazioni diverse. Noi siamo al fondo di questo percorso per cui è dominante il concetto di responsabilità e di norma sul concetto di peccato: responsabilità e norma definiscono il peccato e non viceversa.

Quando questi due concetti sono entrati nella cultura cristiana, esisteva un concetto chiaro di peccato che si doveva in qualche modo far funzionare con due concetti nuovi, ma era la definizione di peccato che regolava quelli ed altri concetti nuovi che venivano assorbiti. Noi siamo al fondo del percorso in cui ormai, in modo molto chiaro per noi, responsabilità e norma non sono più concetti nuovi, perchè fanno parte da duecento anni della tradizione, e sono essi che nell’ambito cristiano regolano la comprensione del peccato e lo ribaltano sul peccato originale.

* Nella teologia cristiana corretta, invece, funziona in modo esattamente contrario, cioè alla luce della comprensione del peccato originale, si pensano i peccati attuali e non viceversa e alla luce della comprensione globale del tema del peccato, si ripensa cos’è, per un credente, la norma, la responsabilità, la coscienza, la soggettività, l’autonomia. Il procedimento è esattamente l’opposto. Quando io dico che centralizzare il peccato come tema del cristianesimo è un atteggiamento “ateo”, voglio dire che mettere al centro il tema del peccato significa far dominare tutta la riflessione da due temi di per sè laici, provenienti dall’esterno della rivelazione cristiana che sono appunto il tema della responsabilità e della norma, alla luce dei quali si interpreta il cristianesimo. Uno può decidere di farlo, ma quello non è il procedimento cristiano, è un’altra operazione di cambiamento dell’essenza del cristianesimo.

* Dunque, il problema primo è capire che cos’è il peccato originale e da lì provare a ricostruire i passaggi successivi. Questo è sempre stato molto chiaro nella teologia perchè nel curriculum teologico la questione del peccato originale si studia in teologia dogmatica mentre la questione dei peccati si studia nella teologia morale che è una teologia ausiliaria. La teologia dogmatica riguarda la comprensione dell’essenza del cristianesimo e del rapporto tra uomo e Dio, di come la rivelazione parla del rapporto tra uomo e Dio, mentre la questione dei peccati attuali è una delle applicazioni nella teologia morale che aiuta la gente a vivere, perchè ciascuno non può ripensare tutto in proprio. Per capire questo bisogna innanzitutto chiarire una questione verbale.

* Noi abbiamo una comprensione linguistica in cui il sostantivo prevale sull’aggettivo. Per noi, nella comprensione immediata di due espressioni con sostantivi uguali, come peccato originale e peccato attuale, prevale per noi l’uguaglianza: sono entrambi peccati e la loro specificazione diversa è per noi secondaria. Questo è esattamente il contrario nella concezione linguistica in cui queste parole sono state formulate. Le definizioni “peccato attuale” e “peccato originale” sono medioevali, di Tommaso, e in quel tempo la percezione linguistica era esattamente l’opposto, cioè tra due sostantivi uguali con due aggettivi diversi era il qualificativo che prevaleva, cioè la differenza, non l’uguaglianza (per esempio quando Tommaso conia l’espressione “paradiso terrestre”, è per distinguerlo dal “paradiso celeste” dove questa espressione non dice che sono tutti e due paradisi, ma che la maggiore esperienza di beatitudine possibile, in terra, è molto diversa da ciò che nei cieli è paradiso). Il pensiero di Tommaso si basa sull’idea dell’analogia. Noi siamo abituati a dire “analogo” per dire “simile”, invece Tommaso definisce l’analogia come “maggiore la differenza che la somiglianza”, perchè altrimenti si direbbe similitudine. Due cose simili sono una similitudine. Con una analogia si dice la differenza fra enti non la loro uguaglianza. Quando io utilizzo una cosa per indicarne un’altra, con coscienza della differenza, faccio un’analogia. Tommaso costruisce tutto il linguaggio tecnico della teologia che noi usiamo ancora oggi (peccato originale, attuale, veniale, mortale) su questo principio: il qualificativo qualifica un ente, è la qualità, dunque, la percepibilità. Per Tommaso si potrebbe usare un unico sostantivo per tutto ciò che è storico e dire, ente e accanto a questo sostantivo dire ente umano (l’uomo), ente animale (tutti gli animali compreso l’uomo), ecc.

* Allora quando si dice peccato originale, peccato attuale, la loro differenza per Tommaso non è che “attuale”, come pensiamo noi, vuol dire “di adesso”, e “originale” vuol dire “di prima, delle origini”; dunque una differenza di tipo temporale dove la sostanza è la stessa cosa, ma una di adesso e l’altra di tanto tempo fa. Tommaso usa invece la terminologia tecnica, cioè peccato attuale, peccato in atto, e peccato originale, all’origine, matrice, l’originale da cui si fanno le copie. Non ha alcuna connotazione temporale perchè gli uni sono copie in atto, senza alcuna originalità, l’altro è l’originale unico, il prototipo.

Tommaso fa questa strutturazione di linguaggio, sulla base del testo di San Paolo che dice che Adamo era il prototipo e Cristo il tipo, il nuovo Adamo. Tommaso dice: “Se Adamo è il prototipo e Cristo è il tipo, allora il peccato di Adamo è il peccato origine e gli altri sono copie”. Copia è più importante di peccato, originale è più importante di peccato.

* Cos’è allora il peccato originale? Per affrontare questo problema si possono usare registri diversi:

 Mitologico, come quello di Genesi in cui gli Ebrei, usando la forma culturale del loro tempo, prendendo a prestito gli elementi in circolazione, raccontano, dopo mille anni di storia di rapporti con Dio, un inizio che dia senso a tutto ciò che c’è stato dopo per sistematizzare le origini, reinterpretando il loro percorso.

 Filosofico, più oggettivo, più corretto, più preciso, ma poco comprensibile e non credo utile.

– Il registro più utile è forse quello esistenziale. Per rileggere in qualche modo nella chiave della storia di ciascuno la totalità di una storia possibile, come si trattasse di una biografia, della storia di ciascuno di noi, che in qualche modo ha un percorso, una dinamica in cui si può individuare un tipo di elemento che è il peccato originale.

Non sto però dicendo che il peccato originale è solo la storia esistenziale di ciascuno di noi (questa è un’eresia nel cristianesimo) ma è il modo per raccontarlo più comprensibile. In termini esistenziali, il peccato origine è, in qualche modo, quei punti decisivi della vita, pochi in realtà, su cui uno ha la percezione, non necessariemente razionale, che la sua vita poteva essere diversa; c’è un pezzo della tua vita che si incanala in un certo modo e ti mette diversamente rispetto a te stesso e puoi decidere anche di non farlo. Punti in cui c’era un bivio per cui l’arco delle scelte possibili si è ristretto (tipica è l’opzione di un matrimonio: comunque non sarà mai più come prima). Il peccato originale, tradotto in termini esistenziali, sta dalla parte di questo tipo di momenti. In termini religiosi, significa che in tutti questi punti della nostra vita, che sono pochi, uno può decidere da solo o può decidere con Dio, non pro o contro Dio, perchè uno decide sempre pro o contro se stesso (come in un rapporto amoroso c’è un punto in cui uno sa che il legame è tale per cui non è più da solo a decidere, ma con l’altro dentro e pro o contro se stesso). Il peccato originale è decidere senza Dio dentro, bene o male non fa nessuna differenza, è decidere da soli. Non pro o contro Dio, perchè si può anche decidere a favore di Dio, ma da soli, senza Dio dentro, e dunque in modo radicalmente ateo, idolatrico, facendo della religione un idolo (vado a Messa, perchè è una decisione pia, perchè sono buono, acquisto meriti: ho come idolo la mia correttezza, sono giusto non faccio cose sbagliate).

Questo è originale di cui tutti i peccati sono copia. I nostri peccati sono gli eventuali errori di rotta o di valutazione all’interno di questo margine limitato di scelta e in questo senso sono copie dell’originale: laddove noi abbiamo incominciato a scegliere da soli (come in qualsiasi rapporto se uno incomincia a decidere senza l’altro, inizia ad esserci una serie di conseguenze su cui il rapporto può incrinarsi). Quelli che noi chiamiamo i nostri peccati, sono in genere soltanto il comportamento finale di questo grappolo di decisioni senza Dio. In questo racconto esistenziale non fanno interferenze le questioni della responsabilità e della norma, non ci confondono, non possiamo chiederci cosa c’entro io con me.

* Questo tipo di lettura, però, da solo, come il mito da solo, non basta. Quello che resta fuori da questo tipo di lettura esistenziale è la dimensione che nel mito si chiama cosmogonica. La cultura del soggetto, della responsabilità, del percorso personale, è privata e il cristianesimo non è privato, è personale, non privato. Questo tipo di lettura lascia fuori tutto ciò che privato non è. Che è la dimensione pubblica di questa faccenda. Pubblica vuol dire del peso che la mia decisione sulla mia vita ha rispetto a tutta la storia del mondo e dell’universo, poco o tanto che sia.

Nessun bivio del percorso evolutivo è senza peso, pur se quel bivio apparentemente non pare così decisivo. Il cristianesimo è una storia, è la storia di un popolo, dunque se moltiplichiamo i quattro o cinque bivi della vita di ciascuno, per un popolo e per quattromilacinquecento anni di storia, abbiamo che la distanza finale possibile è esponenzialmente molto grande. Quello che il mito dà con la dimensione cosmologica, è che ti dice che anche nel nostro singolo bivio, questo ha un valore culturale, cioè fa di stare dentro ad un Eden o fuori da un Eden e fa una catena di conseguenze ontologiche (la morte, il lavoro, il dolore, l’attesa della promessa) che cambiano non solo la nostra vita personale, ma, esponenzialmente, dunque in potenza non in atto (non è il nostro peccato attuale che cambia la storia) ma il nostro peccato originale che mette il bivio per cui alla fine la distanza da Dio può essere gigantesca ed è dimostrata con la cacciata di Adamo ed Eva e con l’angelo con la spada di fuoco, immagine della distanza maggiore possibile.

Cosa vuol dire? In teologia è la questione chiamata “la divinizzazione dell’origine creata dell’uomo e della natura”.

Ciò che ci dice il mito dell’origine è che l’uomo e la natura sono creature, non sono dei decaduti; non c’è un antefatto divino con un decadimento. Sono creature, ma con una dignità di creature nella loro originaria relazione con Dio. La condizione originaria per cui io decido con Dio non è una condizione di decadimento, di limitazione, ma è una condizione di creaturalità, dunque di dipendenza, (io decido con un altro) ma di creaturalità felice, lieta. E poi dice una cosa più grande e cioè che a partire da questa differenza, creatore-creatura, è possibile una relazione perchè per essere in relazione bisogna essere diversi; il percorso è una divinizzazione, cioè noi non eravamo degli dei all’origine, caduti a causa del peccato, ma esattamente il contrario: noi siamo dei dignitosi creati, creature assolutamente liete di essere tali, chiamati a diventare “divine” (in termini esistenziali, noi non siamo vecchi singles che hanno ceduto per solitudine e tristezza a mettersi con qualcuno, ma siamo lietissimi esseri razionali che sono stati molto felici di abitare un amore fino al punto di non essere alla fine più diversi).

* A questo punto, dette queste cose sul peccato originale, cosa succede dei peccati attuali?

I peccati come trasgressione di una norma non hanno nulla a che fare con questo tema. L’idea di peccato come trasgressione di una norma è di derivazione kantiana, totalmente laica come origine di riflessione, è una grande riflessione adulta della laicità migliore.

Una società che incomincia a pensare che esistono delle norme comuni a cui tutti, compresi coloro che governano, sono sottoposti, è una società che ha fatto un decisivo passo in avanti nel suo livello di civiltà decente. Ed è una società che incomincia a pensare che trasgredire o no le norme, non è uguale, che occorre un sistema di valutazione, ed inventa un sistema giudiziario, è ad un buon livello di civiltà. Ma tutto questo non c’entra con il cristianesimo. Detto questo i peccati hanno invece a che fare con l’altro tema, che non è necessariamente connesso nè con il tema della norma, nè con il tema della responsabilità perchè la responsabilità, nel senso moderno, è un tema di oggettivazione. Le leggi sono il tentativo umano, sempre da perfezionare, di stabilire livelli di responsabilità e di questo tentativo, noi tutti sappiamo bene i limiti, ma sappiamo anche la necessità che questo tentativo venga fatto, sempre migliorandolo, ma comunque non si può stare senza.

In questo senso il tema della responsabilità assolutizzato è una forma di idolatria, perchè in un rapporto a due il tema della responsabilità (chi ha ragione e chi ha torto) è una forma di distruzione del rapporto nel senso che una volta che si è stabilito chi aveva ragione, il danno eventuale fatto a un rapporto non si muove di una virgola, compreso se si ha ragione. La questione dei peccati sta sul piano dell’analisi del rapporto, non della questione giuridica del giusto o dello sbagliato; la questione del peccato è la valutazione dell’incisione sulla qualità del rapporto in cui, comunque, si ha responsabilità in due, nel senso che il gioco che accade è sempre il gioco tra me e Dio e in cui Dio gioca sempre bene le sue carte, Dio è ontologicamente buono, non pecca, cioè Dio lavora sempre a favore della vita del rapporto.

E quindi uno gioca tranquillo e può anche fare degli errori. In un rapporto in cui si è matematicamente convinti che l’altro comunque lavora sempre per la vita del rapporto, si ha un margine di errore possibile, senza distruggere il rapporto, un po’ più ampio. Dio gioca sempre per la grandezza, la ricchezza, la fecondità, la continuazione del rapporto. I peccati attuali sono in questo senso nostra responsabilità, ma non nel senso moderno del termine. A questo punto, i peccati attuali possono essere definiti come il restare sotto alla soglia della propria felicità possibile. Ogni volta che restiamo sotto il livello della nostra felicità possibile, in quel momento della nostra storia, noi stiamo peccando, nel senso che restiamo sotto alla pienezza felice di un rapporto.

* In questa percezione e valutazione gioca una cooperazione di elementi:

  • la coscienza dinamica di sè;
  • la comprensione delle norme, non tanto morali, non tanto di galateo;
  • la comprensione della realtà, perchè per comprendere il possibile bisogna sapere a che punto è la storia, a che punto è l’altro, la sua relazione con me, in che punto siamo tutti e due nel grande mondo in cui siamo;
  • individuazione dei possibili percorsi.

Questo è il percorso dal peccato originale ai peccati attuali ricuperando i temi di responsabilità e norma in una chiave diversa, cioè come ordinati al tema del peccato e non viceversa; alla fine di tutto questo ci sono poi le questioni concrete di cui solo da qui in poi si può cominciare a parlare: confessione, peccato veniale, peccato mortale, peccato ricorrente, esame di coscienza, ecc..

Chiarimenti

* Rimanere al di sotto della soglia della propria felicità.

Il problema è di rovesciamento di un modo di pensare. Il fatto di usare perennemente una sorta di paradigma giuridico rispetto al peccato crea una situazione da cui non si esce, si rimane sempre nella stessa logica per cui ci sono dei punti della propria vita, dei propri comportamenti, delle proprie scelte, su cui uno si sente, rispetto al proprio percorso, in qualche modo violentato, non capito, come se inevitabilmente uno dovesse fare dei peccati, ma contemporaneamente si sente molto rassicurato perchè ha questo” letto del fiume” in cui, più o meno, può risparmiarsi un po’ di elaborazione su di sè sapendo che rimane dentro ad alcune norme, sempre prese con buon senso.

In questa logica l’esperienza cristiana non ha niente di nuovo da dire, diventa sempre “concorrente” con altre norme, con un modo meno raffinato, meno libertario, meno tollerante; resta senza via d’uscita perchè è sullo stesso piano della logica comune, umana: amare il prossimo è una norma antica quanto gli esseri umani; amare i nemici è già patrimonio delle discipline stoiche, catartiche. Il problema del cristianesimo è un altro, e cioè il mettere l’uomo, in quanto immagine di Dio, al centro di questo percorso. Perciò scommette che, sul tempo lungo di una intera vita, se uno fa la verità di sè, trova Dio. E fare la verità di sè è una delle cose più complicate dell’universo. Fare la verità di sè, cioè scoprire quali sono i propri desideri veri, come si risponde ad essi e che tipo di collocazione esistenziale, cioè di modo di stare nella vita, uno decide di assumere per sè, che volto di sè adulto gli sta bene, tutto questo è molto complesso.

Quando si dice “rimanere sotto la soglia della propria felicità possibile”, si dice la formula breve di questo; il peccato è, per i credenti, ogni volta che si rimane sotto la propria verità, dove la verità corrisponde anche alla felicità, almeno nell’immagine cristiana; cioè la scoperta faticosa dell’abitare se stessi con piacere, con ciò che di te dipende da te, ma anche con ciò che di te ti è dato dall’educazione, dall’ambiente in cui vivi, dalle scelte precedenti fatte, da quello che sei e che ti porti dietro e che ti costringe ad aggiustamenti continui. La felicità possibile è in relazione al luogo reale dove sei.

* Desiderio, non bisogno, che sta in relazione ad una struttura di pensiero della necessità; desiderio sta invece in relazione ad una struttura di pensiero della libertà. Nel cristianesimo la teoria dei bisogni è falsa, non accettabile, atea. Sui bisogni noi possiamo non essere totalmente schiavi, possiamo solo governarli; il desiderio è invece relazionato alla libertà ed è la scintilla divina in noi perchè è sempre legato a qualcosa di più di noi stessi, è sempre un pochino più grande, più avanti di quello che è ragionevole pensare, altrimenti parleremmo di progetto.

Noi in media con i nostri desideri facciamo un’operazione di rimozione, perchè abbiamo una difficoltà spaventosa a fare i conti con la frustrazione dei nostri desideri. Il cristianesimo, da questo punto di vista, è una buona notizia per i nostri desideri, c’è ancora tempo, non si va fuori corso.

Il peccato è tutto ciò che lavora contro questo. Un peccato fondamentale, primario, sono le operazioni di menzogna su noi stessi. Questo è in genere il peccato più comune, più diffuso. Questa è una visione di ordine teoretico, è la trasposizione filosoficamente ordinata di meccanismi che nell’ordinario dell’esistenza sono molto comuni. L’esempio sono le scelte fondamentali che uno fa nell’esistenza (sposarsi o stare dentro ad un certo lavoro o no) in cui si ha sempre la sensazione che da una parte sono le cose più grosse della sua vita, dall’altra che sono successe quasi per caso. In realtà il problema è che in genere ciò funziona come per il nostro corpo: non pensiamo ai nostri polmoni quando respiriamo, respiriamo e basta; ci pensiamo quando abbiamo un problema. Così nella vita se non ci sono grossi problemi, dolori, uno va avanti apparentemente tranquillo; il piccolo problema di questo passaggio è che questo modo di andare avanti funziona finchè non ci sono problemi, ma per una serie di situazioni, esempio perchè il mondo in cui viviamo non è più automaticamente e culturalmente cristiano, di fatto nessuno riesce più ad andare avanti senza problemi, e a novant’anni si ha la stessa fede che si aveva a sette e ci si blocca. Se non abbiamo un livello di coscienza, quando ci capita un problema siamo totalmente disarmati e precipitiamo nel baratro. Senza un livello di coscienza su questo non diventiamo mai adulti fino in fondo, cioè autonomi, padroni di noi stessi. Non occorre con ciò fare un ragionamento così filosoficamente articolato tutte le volte che si fa qualcosa, ma questo ragionamento serve per prendere coscienza del tipo di operazione che ognuno ha fatto nella sua vita. Certamente ci sono dei motivi per cui in certi versanti della sua esistenza ha fatto in un modo e non in un altro, anche se forse era più ragionevole fare diversamente. Questo si chiama “seguire il proprio ragionamento” oppure ci sono cose nella vita in cui uno, forse per paura, ha fatto la cosa più logica, più di buon senso e dieci anni dopo sa di aver fatto una stupidaggine, lo sa ancora, perchè c’è qualche pezzo di sè da qualche parte, dove conserva un ricordo dell’altro percorso, che non ha fatto, e che gli fa ancora male. Questo discorso è fare la verità di sè e rimanere all’altezza dei propri desideri e ciascuno dovrebbe acquisire un po’ di esercizio per riuscire a fare questa cosa sulla quotidianità della sua vita, altrimenti che cosa mai può confessare?

* Non si ha nulla da confessare se non si ha una padronanza sul proprio percorso e sull’individuazione delle cause della propria infelicità. Se uno individua le cause, alla fine arriva a dei comportamenti, ma se ci arriva come risultato di un percorso, può costruire una controstoria, andare a riprendere quei pezzi di sè che sono rimasti indietro (come in un rapporto un conto è se lo spicciolo quotidiano è il risultato di un’intimità conquistata e mantenuta, un conto è se è solo spicciolo).

Che cosa significa concretamente acquistare questa capacità su di sè, fare un esame di coscienza, diventa un problema molto serio, non solo moralistico o clericale, ma è fondamentale per sapere da dove incominciare.