L’Apocalisse (X)
Gruppo del venerdì
Febbraio 2000
Riprendiamo il capitolo 13.
Stiamo arrivando al nucleo centrale con il discorso sulla morte di Cristo, discorso che facevamo già l’altra volta quando si parlava della differenza tra i Vangeli e l’Apocalisse.
Cercavo di spiegare che i Vangeli sono una lettura interna di un’esperienza tendenzialmente più immediata, più semplice, meno costruita, ma anche, per alcuni versi, meno comprensibile non tanto nel linguaggio quanto nel fatto che rischia di restare un’astrazione, tipo i proverbi della nonna.
L’Apocalisse, pur essendo più complessa, è un testo inculturato che tratta della storia, della vita e cerca di mostrare la centralità della morte e della risurrezione di Cristo partendo dall’esperienza comune, condivisibile e dicendo: la morte di Cristo, rispetto alla violenza, all’evoluzione della storia, alla fatica di vivere, che cosa dice? Quindi adotta un procedimento inverso rispetto ai Vangeli.
I capitoli dal 12 al 15 sono assolutamente centrali perché Giovanni ha percorso più volte il cerchio dell’esperienza antropologica del male, della violenza, di quella che abbiamo chiamato la componente agonica dell’esistenza, in quanto non tutto funziona automaticamente.
Sostanzialmente è una domanda antica come l’umanità: perché non siamo felici? E non c’è una causa particolare e si giunge alla conclusione: perché la vita è così.
L’altra cosa che Giovanni fa continuamente è quella di spiegare il piano che egli chiama “del cielo”, l’economia degli interventi di Dio, quindi l’antica alleanza, la corruzione della sinagoga e Cristo come compimento delle promesse.
Spiega mano a mano la situazione fenomenologica e la lettura di fede, come diremmo con le nostre parole. Tutto questo lo fa in un crescendo: all’inizio, nelle lettere alle sette chiese, c’è molta più descrizione di ciò che si vede mentre sono solo accennati alcuni temi di fede, poi i rapporti si scambiano per arrivare alla pienezza della simbolica della fede.
Non a caso il tema che Giovanni affronta è ciò che accade nel mondo partendo, anche qui, da una lettura più generica per arrivare ad una più precisa, cioè qual è l’origine del male dal punto di vista storico.
La lettura generica è la guerra, con la conseguente violenza e va sempre più a precisarsi in uno zoom che noi, con linguaggio del novecento, chiamiamo potere o volontà di dominio.
Quindi da una parte la lettura di fede diventa da più generale sempre più precisa e più ampia sulla figura di Cristo, dall’altra la lettura della battaglia che la storia personale e collettiva è, da un generico segno di violenza si concentra sul tema del potere.
Nei capitoli dal 12 al 15 c’è proprio il nucleo di queste due questioni.
Ripartiamo dalla visione della donna in cielo con il discorso del partorire se stessi come figli e come re e la questione del drago.
Giovanni dice che la guerra in cielo è già risolta e la donna viene mandata sulla terra per avere il tempo di partorire se stessa. La storia è data come il tempo per partorire questo figlio ed è chiaro che la battaglia è tra la fatica di partorire se stessi ed il dragone, cioè la volontà di dominio. (Sto traducendo, non commentando!).
Tutto questo spiega, secondo Giovanni, perché la storia, per il cristianesimo, è pensata come una realtà agonica e perché non immaginiamo che, come per la costituzione americana, sia un diritto essere felici. Questa è una delle cose qualificanti che fa la differenza tra essere o no cristiani.
Una delle questioni che individua il cristianesimo è il pensare la storia come un tempo agonico e non come il diritto ad essere felici perché, come ci mostra in questo affresco Giovanni, la storia ha un tempo dato per meritare se stessa, cioè ha una soggettività, non è il giardino incantato, non è Alice nel paese delle meraviglie, bellissimo, ma dentro ad uno specchio, non reale, in quanto romanzo di iniziazione.
Secondo il cristianesimo tutte le mitologie antiche o moderne che pensano la storia come un diritto ad essere felici privano noi e la storia di una soggettività piena perché creano una specie di limbo in cui si viene protetti in quanto non si ha il bisogno di guadagnarsi la verità di sé.
Questo è il quadro ed in tale logica ci sono: la visione della donna, la trasmissione del potere dal drago alle due bestie ed il rapimento del figlio, preservato per salvarlo perché c’è il tempo della storia che è una sospensione tra la prima e la seconda venuta di Cristo, cioè il tempo per meritare se stessi.
Ancora due o tre annotazioni non viste la volta scorsa.
Il figlio della donna è re perché viene partorito con la corona d’oro. Siccome il tema problematico di Giovanni è il potere, il fatto che la verità dell’umanità sia partorita come una regalità stupisce ma, lo vedremo nei capitoli 14 e 15, ciò non è una pennellata di colore buttata a caso, bensì un tema costante perché la questione per l’autore è la doppiezza e l’ambiguità del potere.
Noi normalmente pensiamo che l’ipocrisia significa che se uno è cattivo e vuol farci del male, fa la faccia buona per ingannarci; invece qui il problema per Giovanni è che il potere è doppio ed ambiguo al contrario, cioè in sé è buono, ma può indossare una maschera malvagia.
Il potere è dato all’umanità con la possibilità di dominare sé e gli altri, la storia, la natura perché le è data una corona regale; diventa la bestia quando, pur essendo in sé buono, mostra il suo volto malvagio.
Intervento: Giovanni ha in mente la creazione?
Esattamente, qui ha in mente il racconto di creazione, ma il suo non è un quadro pessimistico per esorcizzare il potere. Egli dice: c’è una funzione originariamente buona che viene traviata in un uso malvagio causato dalla menzogna e dall’assolutizzazione del potere.
Qui si possono fare svariate letture: sul piano personale per esempio che cosa vuol dire avere un tema interiore con il potere, che cosa significa che un potere in sé buono costituisce un’arma di trasformazione della propria e dell’altrui vita e può essere usato con menzogna ed assolutizzazione?
Sul piano collettivo, della politica, ma non solo, della convivenza civile e sociale, si potrebbe aprire un altro capitolo. Mi sembrava interessante come sottolineatura.
L’altra sottolineatura è che sono citate anche le vittime della bestia che torneranno con maggior chiarezza nel capitolo 14 dove non c’è più la proibizione ad uccidere, come nel settenario delle trombe. Qui invece si muore.
Le vittime della violenza sono in realtà i veri vincitori, ma muoiono perché non c’è una lotta non violenta in quanto il potere traviato ha un dato di realtà, colpisce nella storia, non è un’astrazione. Quindi finché esiste un potere usato male, c’è una vittima. Certo nel cielo ci sono i veri vincitori, ma nella terra muoiono perché il potere fa una storia, non è un movimento della coscienza, è una costruzione della realtà. Quindi, come già dicevamo l’altra volta, noi non siamo all’origine del male nella storia, ma possiamo combattere per l’uno o per l’altro esercito.
Altra questione connessa a questa è il versetto 9 del capitolo 13:
“Chi ha orecchi ascolti:
Colui che deve andare in prigionia,
andrà in prigionia;
colui che deve essere ucciso di spada
di spada sia ucciso.
In questo sta la costanza e la fede dei santi”.
Sono versetti problematici perché spezzano l’andamento del racconto: dopo una scena apocalittica con ceneri, fumi, lapilli, draghi, improvvisamente compare una frase di tono sapienziale con un insegnamento. La formulazione è quella della legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente, cioè del principio legale base dell’Antico Testamento, principio di uguaglianza per regolare la vendetta moltiplicatrice: se tu uccidi uno, io uccido due e così via.
La legge del taglione che sembra molto primitiva è in realtà una regolazione minimale a moderazione.
Per la frase: “In questo sta la costanza e la fede dei santi ” personalmente concordo con molti autori i quali dicono che la questione posta dai santi è, traducendo in linguaggio contemporaneo, “come si spezza la coazione a ripetere?”. Cioè nella logica del male uno si schiera in un esercito o nell’altro spezzando la coazione a rifare sempre la stessa cosa che è la nostra struttura psichica fondamentale perché non riusciamo, in fondo, a darci da soli un’altra vita.
E la fede e la costanza dei santi sta nello spezzare questa catena, nello spezzare la legge del taglione, ma non in termini teorici come siamo abituati a pensare.
Qui si vede la differenza tra il Vangelo e l’Apocalisse. Il Vangelo lo dice in un modo inattaccabile : “A chi ti chiede di accompagnarlo per un miglio tu accompagnalo per due, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello” e tutti assentiamo sulla giustezza di queste affermazioni, ma detto così è tanto giusto che rimane lì, perché nella vita ordinaria, tranne eroismi volontaristici, questo non si pratica. Non è che ad uno che ci pesta un piede si dica : qui c’è l’altro piede. E pare anche umano e normale il reagire.
L’Apocalisse invece lo spiega dall’altra parte e diventa molto più rilevante perché dice: sì, è vero, l’essere umano pratica la coazione, ma la fede e la costanza dei santi sta nello spezzare questa catena di violenza.
Di fronte alla bestia la parte da cui schierarsi è spezzare questa logica nei modi che la storia ci dà di inventarci, da quello psichico personale a quelli storici. I come, naturalmente, non stanno scritti nell’Apocalisse, ma su di essi vale la pena di ragionare un po’, per esempio rifiutandosi di usare il criterio “ma è umano” perché sì, è umano, ma non cristiano. Ma non significa che, essendo solo umano, vada disprezzato, però il criterio dei santi è lì.
Intervento: noi pensiamo che gli uomini in fondo sono buoni, ma il potere li guasta.
E’ esattamente il contrario. Banalizzando si può dire: è molto umano pensare che in fondo anche Hitler amava i cagnolini però dopo si è trovato in un meccanismo perverso e concludere con la spiegazione che lui era pazzo e tutti gli altri si sono trovati nel meccanismo.
L’Apocalisse dice il contrario: la regalità, l’esigenza del dominio di avere un meccanismo, una convivenza, una storia, è necessaria al tempo per partorire se stessi.
Partorire se stessi è una dura battaglia in cui bisogna spezzare la coazione a ripetere e cercare la verità di sé. Questi sono i problemi. E si deve decidere da quale parte schierarsi.
Intervento: Quindi nessuna demonizzazione del potere, ma semmai del potente, perché c’è una questione individuale nella gestione del potere.
No, non del potente, ma degli esseri umani, potenti ed impotenti. La demonizzazione non è del potente, ma di come si mettono, di fronte e dentro il potere, tutti, sia quelli che hanno il potere sia quelli che non l’hanno, non solo chi lo gestisce.
C’è inoltre il tema grande, accoppiato a quello delle vittime, che il potere crea realtà e quindi strutture di potere corrotto. Però è evidente che la questione posta da Giovanni come rilevante rispetto alla morte di Cristo, cioè al cristianesimo, non concerne la malvagità del potere.
Intervento: tanto è vero che Ponzio Pilato si è lavato le mani nel processo a Gesù.
Anche qui è sempre la stessa differenza tra il Vangelo e l’Apocalisse. Entrambi dicono che il tentativo di Pilato di non usare potere è malvagio come usarlo male perché il problema non è il potere, ma Pilato. In fondo dicono la stessa cosa, ma in modo totalmente diverso. Però, ancora una volta, nel Vangelo si ha l’impressione che sia successo a Pilato mentre a nessuno di noi può capitare di decidere sulla sorte non solo di Gesù, ma di un altro essere umano, a meno che non si faccia il giudice di mestiere.
L’Apocalisse invece mostra come tutti noi abbiamo una regalità e dunque dobbiamo in qualche modo schierarci in questa battaglia. C’è una coazione a ripetere a mille livelli su cui ciascuno deve in qualche modo mettersi.
Capitolo 14: In questo capitolo cambia un po’ il tono letterario. Dalla storia avvincente ed un po’ filmografica si passa di nuovo al linguaggio delle visioni. Giovanni riprende il quadro di sé che guarda il film con i cieli aperti e che nel frattempo ci eravamo perso perché siamo cascati dentro il racconto.
“Poi guardai ed ecco l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo. Udii una voce che veniva dal cielo, come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono. La voce che udii era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe. Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.
Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo. Egli gridava a gran voce:
“Temete Dio e dategli gloria,
perché è giunta l’ora del suo giudizio.
Adorate colui che ha fatto
il cielo e la terra
il mare e le sorgenti delle acque”.
Un secondo angelo lo seguì gridando:
“E’ caduta, è caduta
Babilonia la grande,
quella che ha abbeverato tutte le genti
col vino del furore della sua fornicazione.
Poi, un terzo angelo li seguì gridando a gran voce: “Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano, berrà il vino dell’ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello. Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome”. Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù.
Poi udii una voce dal cielo che diceva: “Scrivi: Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”.
Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d’uomo; aveva sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: “Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura”. Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta.
Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, anch’egli tenendo una falce affilata. Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, uscì dall’altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: “Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le sue uve sono mature”. L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio. Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di duecento miglia”.
Intervento: quando Giovanni scrive l’Apocalisse i Vangeli si chiamavano già Vangeli ?
La parola vangeli qui è scritta giustamente con lettera minuscola perché è un nome comune ed è il termine greco euanghelion che significa “buona notizia”. Più tardi diventa il nome proprio di libri specifici e, per estensione, nome di un genere letterario.
Qui il testo di Giovanni non indica un genere letterario.
Quando noi diciamo vangelo intendiamo sia l’oggetto materiale libro, sia il genere letterario in cui è scritto. Giovanni usa il termine comune euanghelion che significa “buona notizia”, ma il riferimento è un libro perché tre volte, in modo simmetrico, compaiono libri, sempre in connessione con il Figlio dell’uomo: il piccolo libro, il grande libro ed ora il buon libro. Ed è esattamente qui che il termine euanghelion diventa tecnico, comincia a diventare quei libri specifici.
E’ proprio Giovanni a fare quest’operazione e la fa coscientemente nel senso di dirci che la buona notizia di Gesù, nei libri in cui è stata scritta, si sostituisce al libro dell’antica rivelazione. Fa sempre parte della sua operazione di sostituzione della sinagoga per cui l’angelo non ha più il piccolo libro, quello della legge e dei profeti, ma il libro della buona notizia. E da dopo l’Apocalisse Vangelo vuol dire quel libro. E’ esattamente questo il passaggio.
Due parole sullo schema generale di questo capitolo di fatto molto costruito.
Sarebbe bello leggerlo in greco, lingua in cui è composto con una serie di simmetrie linguistiche di parole, di sillabe, di metrica. E’ totalmente pensato, senza una lettera casuale perché questo capitolo ed il 15 sono proprio il centro del libro, dipinti con il pennellino.
La costruzione letteraria del testo è data da due blocchi di visioni in cui ciascuna delle due ha tre angeli; la prima con l’Agnello, la seconda con il Figlio dell’uomo e tre angeli.
Nella prima visione con l’Agnello ritto sul monte Sion, l’ammonimento: “qui sta la costanza dei santi, scrivi beati fin d’ora coloro che sono morti e muoiono in nome del Signore perché troveranno riposo” e poi tre angeli che parlano; il Figlio dell’uomo sulla nube e tre angeli che non parlano, ma fanno.
Questa è la costruzione strutturale. Qui il gioco di Giovanni è quello di usare letterariamente, dal punto di vista verbale e dei simboli, un continuo passaggio tra l’Antico ed il Nuovo Testamento: l’Agnello sta ai centoquarantaquattromila come il Figlio dell’uomo sta agli angeli.
L’immagine dell’Agnello, sgozzato, è usata da Giovanni nel suo Vangelo quando racconta la passione di Cristo ed è chiaro che è un riferimento neotestamentario (l’ha già usata all’inizio dell’Apocalisse: l’Agnello sgozzato e ritto in piedi), ma contemporaneamente l’Agnello sta sul monte Sion, centro del giudaismo (le tavole della legge, la rivelazione antica) con centoquarantaquattromila, il numero dei salvati secondo Daniele.
Lo stesso è per “Figlio dell’uomo”, figlio che compare in Daniele, nei profeti, quindi dell’Antico Testamento, ma contemporaneamente è il Figlio dell’uomo, colui che si è incarnato. E’ la definizione che Giovanni, nel suo Vangelo, mette in bocca a Gesù quando parla di se stesso e si definisce così.
Nella rappresentazione del libro di Daniele il Figlio dell’uomo veniva accompagnato dalle nubi e, seduto sulla nube, stava il vegliardo. Giovanni invece mette il Figlio dell’uomo seduto sulla nube.
Questi due simboli sono la connessione, l’assunzione di tutta la tradizione antica reinterpretata e attraverso la quale viene estromessa la legge.
Nel capitolo seguente c’è il canto dei redenti che è la parafrasi del canto di Esodo 15, del passaggio dell’esodo. Questo è il grande intervento di salvezza, è il Figlio dell’uomo che sostituisce l’Esodo e l’immagine del sangue che sommerge i cavalli è l’immagine del Mar Rosso che sommerge i cavalli della cavalleria egiziana.
E’ la riscrittura dell’Esodo da cui però Giovanni ha tolto un piccolo particolare: le tavole della legge. Ha escluso il cuore dell’ebraismo che è la legge sostituendola con l’andare dove l’Agnello va.
Se pensate alla conclusione del vangelo di Giovanni, capitolo 21, quando Gesù risorto chiede per tre volte a Pietro: “mi ami tu” e poi aggiunge: “adesso sei giovane e vai dove vuoi ma quando sarai vecchio ti condurranno dove non vuoi andare” è il segno della sequela, non è il rispetto della legge, ma è andare dove va l’Agnello.
Traduzione: non dire più “è umano” perché la misura è l’Agnello, negazione di ogni violenza ma anche, contemporaneamente, effetto della violenza, colui che non si è sottratto alla violenza, anzi ne ha assunto il peso. Allora il problema è andare dove Egli va. Questo è il disegno che spezza la coazione a ripetere.
Alcune questioni interessanti:
* Giovanni fa sempre la differenza tra le cose che accadono in cielo e quelle che accadono in terra: fui rapito al settimo cielo e vidi. All’inizio i due piani sono molto ben distinti: cose che succedono sulla terra e cose che succedono in cielo. Nella visione immediatamente precedente a questa, i piani incominciano a confondersi: la donna e il dragone vengono buttati sulla terra. Appare la soggettività della storia.
Qui i piani sono totalmente confusi. E’ come se Giovanni guardasse in cielo però l’Agnello sta sul monte Sion che sta in terra; il Figlio dell’uomo arriva sulle nubi.
In termini teologici l’incarnazione di Cristo ha portato il cielo sulla terra perché noi potessimo salire al cielo, cioè la battaglia già vinta in cielo viene trasferita sulla terra nelle sembianze dell’Agnello, colui che assume la violenza, spezza la coazione a ripetere, assumendo la regalità della sua natura buona.
Se in cielo le cose sono già decise non significa che sulla terra non ci sia più nulla da fare, ma il problema non è non fare peccati.
Noi siamo abituati a pensare che tutta la responsabilità sia nostra: se non facciamo peccati veniamo messi tra i buoni, se ne facciamo stiamo tra i cattivi. E lassù è tutto fermo.
Giovanni rovescia totalmente i piani dicendo: la battaglia è già stata combattuta in cielo e l’esito è positivo. Non c’è condanna per coloro che credono: “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito non per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv. cap.3). Ma la battaglia che accade in terra non è ininfluente perché è la battaglia per partorire noi stessi e dunque chi è che va in cielo, chi è il soggetto che partecipa di questa vittoria? E’ un soggetto piccolo piccolo se piccolo si è partorito, grande se si è partorito grande.
* L’ultimo blocco di angeli, della falce, della vendemmia e del sangue, colpiscono per la loro truculenza anche perché noi abbiamo in mente, senza mai averla studiata, la storia dell’interpretazione dell’Apocalisse per cui la falce ci richiama la scena del film “Il settimo sigillo” con la morte che cammina sul bordo della collina.
Dovremmo poter azzerare la storia dell’interpretazione del testo perché ciò a cui Giovanni sta facendo riferimento è l’impianto delle tipiche festività ebraiche e qui in particolare è la festa della mietitura in cui la fatica è compiuta. Infatti subito prima dice: perché i santi possano riposare.
Per vivere la storia è necessaria molta fatica, ma c’è un tempo in cui il grano è maturo, si raccoglie e ci si riposa perché i granai sono pieni, si sta tranquilli e si fa festa. E’ quindi un dato positivo e l’interpretazione apocalittica con la falce, il teschio e la morte vestita di nero è una stratificazione che con il testo ha nulla a che fare.
La dimostrazione è che se si legge il testo non si trova una parola di discriminanza, non si dice, come nel Vangelo, “miete, prende il grano buono e brucia la zizzania”, ma “miete e riempie i granai”.
L’unico dato negativo è il tino dell’ira di Dio. Ciò che tracima non è vino, ma sangue, ma non c’è un elemento di giudizio e senz’altro meno che nei Vangeli in cui si parla di grano e zizzania, di pesci buoni e cattivi.
Qui il tema è che la storia ha un termine, che la battaglia finisce e non c’è bisogno di essere senza speranza: dopo la fatica verrà il riposo.
Poi l’elemento finale spiega perché il tino dell’ira è il sangue: per la logica del racconto è il sangue di Cristo che si spande su tutta la terra ed è simmetrico all’evangelo “per ogni popolo, lingua, tribù e nazione”. Il sangue sommerge i cavalli d’Egitto, ma anche i cavalli del primo racconto di Giovanni con i quattro cavalieri che rappresentano l’orgoglio, la violenza del potere lavati con il sangue di Cristo.
Dopo si dirà che i redenti sono coloro i quali hanno lavato le loro vesti nel sangue della grande tribolazione che è quella di Cristo, non quella degli esseri umani. E’ il suo sangue che lava le vesti dei giusti, annega i cavalli della violenza, dell’orgoglio, della menzogna e si espande per duecento miglia fino all’altezza dei morsi dei cavalli.
E’ il frutto compiuto della vite spremuta, la sovrabbondanza.
Se noi facciamo la nostra parte di portare a maturazione la storia, di far maturare il nostro grano e la nostra uva, quando questa viene spremuta produce il sangue redentore di Cristo.
Intervento: e l’ira di Dio che cosa è ?
L’ira di Dio è l’espressione tecnica del giudizio, della crocifissione. E’ il momento della frattura in cui il Figlio viene crocifisso, cioè del giudizio di Dio sulla storia ed è un giudizio di salvezza.
E’ la potenza, l’azione di Dio sulla storia, ma i destinatari non siamo noi.
Quando nel parlare comune si dice “l’ira di Dio”, per esempio riferita all’attività atmosferica, si intende una cosa che accade sul mondo, non su di noi che abbiamo fatto qualcosa e quindi siamo colpiti da un fulmine.
Intervento: ma per l’immagine di ira che noi abbiamo suona diversamente.
E’ l’ira contro il dragone, le due bestie, i cavalli, contro tutto ciò che rovina il suo disegno e minaccia il figlio partorito dalla donna; è l’ira contro la storia che rischia di abortire se stessa.
Dio è adirato perché ha fatto una cosa bella, le ha dato soggettività e questa combina guai. Dio si infuria non con noi, ma nel senso che il suo giudizio è molto duro.
E’ come l’ira di un genitore di fronte ad un figlio adolescente che, determinatamente, compie una scemata. Il genitore sa bene che non basta dire no perché significa solo dilazionare nel tempo e quindi tanto vale permettergliela altrimenti forse ne farà una più grossa, ma resta ugualmente adirato, non con il figlio, bensì con il fatto che egli deve passare di lì.
Faccio notare ancora un’ultima cosa importante.
Giovanni ha già parlato varie volte dei centoquarantaquattromila ed ogni volta usa aggettivi diversi. Li ha chiamati eletti, logica dell’antica alleanza: alcuni sì, altri no; poi redenti ed ora primizia. Da numero esclusivo diventano indicazione della sorte di tutti e loro solo capiscono il cantico di fronte all’Agnello.
La condizione di beatitudine di tutto il nostro immaginario sul paradiso, con la connotazione musicale degli angeli che suonano l’arpa, nata nel medioevo, deriva dall’Apocalisse, testo in cui si vede bene come, nell’uso corrente, certe immagini della storia dell’interpretazione abbiano avuto un percorso.
L’idea di Giovanni è che il cantico dei redenti, nel capitolo 15, sarà la possibilità di dire in verità, la propria verità. Ed ognuno di noi, superata l’adolescenza, sa che pagherebbe una cifra per poter dire, totalmente in modo armonioso e praticamente musicale come qui, la propria verità.
Ognuno di noi ha provato più volte nella vita la disperazione di non riuscire innanzitutto a capire e poi a dire chi era, che cosa voleva, che cosa sentiva per spiegarlo ad altri. Già è difficile capirlo, ma poi riuscire a fare in modo che sia comunicabile ed addirittura bello, poetico e musicale, è un’impresa.
Per Giovanni la sorte dei redenti è la comunicabilità della propria verità. E da questa immagine originaria scaturiscono gli angeli con la tunica e l’arpa.
Intervento: quando il bambino viene rapito è scritto in corsivo: sarà destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro. Cosa significa?
Le parole in corsivo sono le parole di attestazione incerta, cioè dove il testo italiano è ricostruito rispetto ai manoscritti, magari perché manca una parola, oppure dove cita esattamente l’Antico Testamento, la Bibbia di Gerusalemme usa il corsivo. In questo caso è una citazione letterale di Isaia.
Questo figlio dominerà con scettro di ferro perché quello d’oro attiene a Dio. E’ il potere sulla terra, della creatura, in sé buono, riconosciuto e dato come una soggettività all’umanità partorita.
Intervento: soffermati ancora sul partorire se stessi
Per la Scrittura è ritrovare la pienezza dell’immagine di Dio posta in noi nella creazione. Questo è il dato dogmatico astratto dalla storia. Dopodiché quando tu passi nelle storie, nelle biografie delle persone, non accade mai così linearmente perché quella è appunto una formulazione dogmatica cioè concettuale, non storica.
Nelle biografie quello che succede è che a ciascuno, attraverso la vita che ha e fa, può avere o scegliere, con vari mescolamenti di tanti elementi, come discriminante fondamentale la verità e non la menzogna di sé e diventa una discriminante di individuazione radicale tra gli esseri umani. Tutti sbagliano, ma sbagliare cercando la verità di sé fa diversi che sbagliare a partire dalla menzogna di sé; tutti possono essere aggressivi, scorbutici, isterici, maleducati, ma chiunque di noi ha fatto l’esperienza che in una persona percepita come sostanzialmente vera pure la volta in cui perde la pazienza ha un senso mentre nella persona percepita come falsa ne ha un altro.
La verità di sé ha un percorso di questo genere: la costanza e la fede dei santi riconosce la faticosa conquista dell’immagine di Dio che ha in sé.
Intervento: é un’immagine che viene riflessa in uno specchio ma lo specchio potrebbe essere rotto.
Personalmente non amo molto questo tipo di metafora. Secondo me il problema è un altro.
Quando il Vangelo dice: Gesù cresceva in età sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini, afferma che il piano dogmatico ed il piano storico in Gesù coincidono, quindi tutti i suoi pezzi crescono bene contemporaneamente sia nel versante divino sia in quello umano.
Tutti gli altri quando crescono in grazia dimenticano l’età o si confondono sulla sapienza, perdono pezzi e devono recuperarli, si occupano di crescere davanti a Dio e scordano gli uomini. Quindi nelle biografie degli esseri umani la coincidenza tra il dogmatico e lo storico non è così immediata e c’è tutto quello che il credente chiama percorso della coscienza, non dato dal sentimento, ma dalla fatica, dal monitoraggio sul proprio crescere nel tentativo di sistemare un po’ i piani e fare ogni volta un pezzo di verità il più integrale possibile.
Intervento: tu dici che comunque il potere è positivo di per se stesso però è rappresentato da due bestie e perché una viene dal mare e l’altra dalla terra?.
Il potere corrotto è rappresentato da due bestie che vengono dal mare e dalla terra perché l’idea è l’universalità: la bestia è dappertutto. Non vengono dall’aria che è luogo di Dio mentre la terra ed il mare sono luogo degli uomini.