L’Apocalisse (XII)
Gruppo del venerdì
Aprile 2000
Nel precedente incontro avevamo visto la differenza tra flagelli e coppe, quando gli angeli escono, avendo in mano i flagelli, e ricevono le coppe. E’ un dato fondamentale per comprendere la questione del giudizio.
La distinzione tra flagelli e coppe è introduttiva a questi capitoli per indicare il duplice aspetto della redenzione e del giudizio. I flagelli, più tipici dell’Antico Testamento, sono in mano agli angeli. Viene qui richiamata l’idea della legge come noi normalmente abbiamo. C’è qui giudizio nel senso che c’è una regola: il raffronto viene fatto tra regola e realtà e questa può essere trovata mancante oppure soddisfacente rispetto alla regola.
Questa sarebbe in qualche modo l’idea che Giovanni attribuisce alla legge, alla prima economia. Poi agli angeli vengono date le coppe. La coppa è sempre il simbolo della morte di Cristo, del sangue versato ed è l’altro aspetto del giudizio, che non misura più come nel caso della legge come regola, bensì è nel senso della giustificazione dei peccatori da parte del Giusto. Il sacrificio ed il sangue di Colui che non ha colpa colmano la coppa, il giudizio è questo sangue ed è per la redenzione. E’ chiaro che anche questo giudizio compie un discernimento, noi diremmo tra buoni e cattivi, tra discepoli di Dio e discepoli di Satana, tra coloro che, nella battaglia, si sono messi dalla parte di Dio e coloro che si sono messi dalla parte di Satana, ma la distinzione è una conseguenza, non il contenuto del giudizio.
E’ un punto decisivo rispetto a tutto il tema dell’Apocalisse che inizia con la questione “rivelazione di Gesù Cristo”. La grande novità ed essenza del cristianesimo è individuata da Giovanni nel fatto che si passa da un giudizio di Dio sulla storia (che può essere giudizio di liberazione o di condanna, ma è giudizio) alla giustificazione in Cristo. Noi definiremmo il giudizio sulla storia oggettivo, cioè esiste una legge e quindi, quando il popolo è povero, grida a Dio che lo salva; quando il popolo si fida degli idoli, Dio lo condanna. Allora il ragionamento è semplicemente su un confronto tra l’ideale ed il comportamento.
Per Giovanni invece la grande innovazione del cristianesimo, quindi la rivelazione di Gesù Cristo, è che nella morte di Gesù siamo giustificati, il contenuto del giudizio non è più quello di giudicare oggettivamente ma quello della giustificazione, cioè dare la possibilità che dalla legge non viene.
L’idea base è: la legge funziona come una valutazione oggettiva ed è più facile capirne il funzionamento; ci si chiede qual è il criterio: fare opere buone, rispettare i dieci comandamenti, rispettare le festività e ciascuno di noi o c’è o non c’è; il giudizio della rivelazione di Cristo è invece la restaurazione delle condizioni soggettive per poter mettersi dalla parte di Dio, per cui ogni volta è un percorso, un processo. Non conta tanto l’adesione oggettiva alla regola quanto il cammino verso la redenzione.
Noi abbiamo tutta la storia ed il tempo per arrivare alla comunione con Dio e quindi, a seconda di dove partiamo, il giudizio è metterci nelle condizioni di “poter”, non è una regola oggettiva, ed è perciò più positivo. Poi è chiaro che, alla fine, quello che ne esce in esito finale è comunque una distinzione tra chi si è messo dalla parte di Dio e chi no, ma la questione sposta l’attenzione dall’esito, che con la legge è determinante su tutto, al processo. Questa è la differenza tra flagelli e coppe.
Come ho già detto molte volte, il problema centrale del cristianesimo non è il peccato, il dire “giusto o sbagliato”, bensì il processo, il percorso, che, pur essendo una storia soggettiva, ha dei criteri. Di un processo fanno parte come elementi la storia soggettiva, i dati di provenienza, ecc., ma un processo ha una sua struttura ricostruibile, comunicabile, perché ha una sua oggettività, anche se diversa, più complessa.
Questa premessa è la condizione di comprensione dei capitoli che seguono. Abbiamo visto fino al capitolo 16 con le visioni strane, ma, a questo punto, comprensibili. Questa sera vorrei leggere e ragionare un po’ sui capitoli 17-18.
Capitolo 17.
“Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: “Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione”.
L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione.
Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra”.
E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. Al vederla, fui preso da grande stupore. Ma l’angelo mi disse: “Perché ti meravigli ?. Io ti spiegherò il mistero della donna e della bestia che la porta, con sette teste e dieci corna.
La bestia che hai visto era ma non è più, salirà dall’Abisso, ma per andare in perdizione. E gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era e non è più, ma riapparirà. Qui ci vuole una mente che abbia saggezza. Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna; e sono anche sette re. I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l’altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco. Quanto alla bestia che era e non è più, è ad un tempo l’ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione. Le dieci corna che hai viste sono dieci re, i quali, non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale, per un’ora soltanto insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re e quelli con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli”.
Poi l’angelo mi disse: “Le acque che hai viste, presso le quali siede la prostituta, simboleggiano popoli, moltitudini, genti e lingue. Le dieci corna che hai viste e la bestia odieranno la prostituta, la spoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e la bruceranno col fuoco. Dio infatti ha messo loro in cuore di realizzare il suo disegno e di accordarsi per affidare il loro regno alla bestia, finché si realizzino le parole di Dio. La donna che hai visto simboleggia la città grande, che regna su tutti i re della terra.
Capitolo 18.
Dopo ciò, vidi un altro angelo discendere dal cielo con grande potere e la terra fu illuminata dal suo splendore. Gridò a gran voce:
“E’ caduta, è caduta
Babilonia la grande
ed è diventata covo di demòni,
carcere di ogni spirito immondo,
carcere d’ogni uccello impuro e aborrito
e carcere di ogni bestia immonda e aborrita.
Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino
della sua sfrenata prostituzione,
i re della terra si sono prostituiti con essa
e i mercanti della terra si sono arricchiti
del suo lusso sfrenato”.
Poi udii un’altra voce dal cielo:
“Uscite, popolo mio, da Babilonia
per non associarvi ai suoi peccati
e non ricevere parte dei suoi flagelli.
Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo
e Dio si è ricordato delle sue iniquità.
Pagatela con la sua stessa moneta,
retribuitele il doppio dei suoi misfatti.
Versatele doppia misura nella coppa con cui mesceva.
Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo lusso,
restituiteglielo in tanto tormento e afflizione.
Poiché diceva in cuor suo:
Io seggo regina,
vedova non sono e lutto non vedrò;
per questo, in un solo giorno,
verranno su di lei questi flagelli:
morte, lutto e fame;
sarà bruciata dal fuoco,
poiché potente Signore è Dio
che l’ha condannata”.
I re della terra che si sono prostituiti e han vissuto nel fasto con essa piangeranno e si lamenteranno a causa di lei, quando vedranno il fumo del suo incendio, tenendosi a distanza per paura dei suoi tormenti e diranno:
“Guai, guai, immensa città,
Babilonia, possente città;
in un’ora sola è giunta la tua condanna !”.
Anche i mercanti della terra piangono e gemono su di lei, perché nessuno compera più le loro merci: carichi d’oro, d’argento e di pietre preziose, di perle, di lino, di porpora, di seta e di scarlatto; legni profumati di ogni specie, oggetti d’avorio, di legno, di bronzo, di ferro, di marmo; cinnamòmo, amòmo, profumi, unguento, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestiame, greggi, cavalli, cocchi, schiavi e vite umane.
“I frutti che ti piacevano tanto,
tutto quel lusso e quello splendore
sono perduti per te,
mai più potranno trovarli”.
I mercanti divenuti ricchi per essa, si terranno a distanza per timore dei suoi tormenti; piangendo e gemendo, diranno:
“Guai, guai, immensa città,
tutta ammantata di bisso,
di porpora e di scarlatto,
adorna d’oro,
di pietre preziose e di perle!.
In un’ora sola
è andata dispersa sì grande ricchezza!”.
Tutti i comandanti di navi e l’intera ciurma, i naviganti e quanti commerciano per mare se ne stanno a distanza, e gridano guardando il fumo del suo incendio: “Quale città fu mai somigliante all’immensa città ?”. Gettandosi sul capo la polvere gridano, piangono e gemono:
“Guai, guai, immensa città,
del cui lusso arricchirono
quanti avevano navi sul mare!
In un’ora sola fu ridotta a un deserto!
Esulta, o cielo, su di essa,
e voi, santi, apostoli, profeti,
perché condannando Babilonia
Dio vi ha reso giustizia!”.
Un angelo possente prese allora una pietra grande come una mola, e la gettò nel mare esclamando:
“Con la stessa violenza sarà precipitata
Babilonia, la grande città
e più non riapparirà.
La voce degli arpisti e dei musici,
dei flautisti e dei suonatori di tromba,
non si udrà più in te;
ed ogni artigiano di qualsiasi mestiere
non si troverà più in te;
e la voce della mola
non si udrà più in te;
e la luce della lampada
non brillerà più in te;
e voce di sposo e di sposa
non si udrà più in te.
Perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra;
perché tutte le nazioni dalle tue malìe furon sedotte.
In essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi
e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra”.
Questi due capitoli della caduta di Babilonia la grande sono bellissimi. Uno dei problemi è che nella liturgia, dopo Vaticano II, si è fatta la scelta di togliere, secondo me comprensibilmente, tutti i testi forti e violenti per contrastare un certo compiacersi nei toni infernali usati precedentemente; anche i salmi di questo tipo sono stati tagliati. L’ottocento era stato talmente carico di toni negativi che si è preferito sfoltire, però lo svantaggio è che non leggiamo più tali testi i quali hanno una loro potenza, magari un po’ impressionante, però non li sentiamo più tutti di fila. Dell’Apocalisse, in particolare, abbiamo in mente immagini, ma raramente testi, perché è un libro che si legge poco.
L’affresco di Babilonia è, per un verso, il grido di protesta di chi si è trovato in mille ambasce ed è anche tutto l’elenco di ciò che era particolarmente urtante per chi tentava, e tenta in ogni tempo della storia, di essere corretto, rispettoso, giusto, ma vede intorno a sé l’apparente ricchezza ed il successo di coloro che hanno meno scrupoli. C’è un tono da rivincita, con l’elencazione del lusso come si intendeva in quei tempi e poi i versi: “E voi santi, apostoli, profeti, perché condannando Babilonia Dio vi ha reso giustizia”, con un sapore di resa dei conti molto umano. Non a caso questo è uno dei libri ispiratori, nel 1500-1600, delle rivolte contadine perché è proprio il testo della follia al potere, dell’ordine costituito rovesciato, del grande carnevale. Uno dei commenti a questi due capitoli si intitola “la festa dei folli”; gli imperi, la grande città, tutto crolla.
Domanda: E’ Roma la città?
Di questo testo si capisce il suono, ma, appena si va più in profondità, iniziano i problemi: chi ha in mente Giovanni? Roma? Avendo studiato a scuola una serie di cose, ci viene da pensare: la bestia sta seduta su sette colli, le sette corna sono sette re, è certamente Roma. A chi pensava Giovanni? Possiamo fare alcune ipotesi e poi qualche ragionamento sulla funzione che ha nel testo, anche se non necessariamente le pensava l’autore.
E’ molto improbabile che avesse in mente Roma, per diversi ordini di motivi: Babilonia la grande ha un ruolo troppo importante nel libro perché nella mente di un giudeo potesse essere Roma. Noi siamo tutti bravi latini: Roma, l’impero, il centro del mondo. Per un giudeo Roma era sicuramente un punto di attrazione politico-sociale-economico fondamentale, ma non esisteva nell’immaginario l’idea dell’impero.
Interpretare questo testo con Roma è stata una lettura molto praticata, ma a posteriori, ed ha avuto inizio con la calata dei barbari. I primi a commentare in questa direzione, dicendo che l’Apocalisse si sta realizzando, sono i grandi papi che difendono la città quando l’impero in sfacelo viene spostato in oriente ed i barbari incominciano a saccheggiare. Essi sì hanno in testa Roma, sono cives romani prima ancora che vescovi e tutto questo porterà al clima apocalittico del mille, alla sensazione di essere arrivati al penultimo capitolo dell’Apocalisse.
E’ improbabile che Giovanni avesse in mente questo pensiero in quanto non poteva sapere che cosa sarebbe successo nel VI secolo, poi perché Roma non aveva un potere di attrazione letteraria così grande ed infine perché, per un buon giudeo, Babilonia è il nome cattivo di Gerusalemme.
In tutta la Scrittura, dalla torre di Babele in poi, la coppia è sempre Gerusalemme-Babilonia. In Genesi noi abbiamo da una parte Melchisedek sacerdote di Salem e dall’altra la torre di Babel che funzionano come Caino e Abele. Poi la città costruita in Sion si chiama Jerusalem, la città e c’è sì l’impero, ma per un ebreo è l’impero assirobabilonese che ha distrutto Gerusalemme. Allora l’impero dei cattivi, degli idolatri, dei culti pagani della fertilità, è Babilonia.
Qui ci sono due capitoli quasi paralleli introdotti nello stesso modo: uno dei sette angeli delle coppe fa vedere questo a Giovanni e poi la coppia dei capitoli finali in cui uno degli angeli delle sette coppe gli fa vedere la Gerusalemme celeste che discende dal cielo.
Babilonia è una città ideale, non reale; nella mente di un buon ebreo è la perversione di Gerusalemme. Come nei salmi si dice: Gerusalemme è la madre di tutte le città, tutti là sono nati, così qui si dice Babilonia è madre di tutte le prostituzioni; quasi alla lettera il salmo, ma al contrario.
Il problema è che la prostituta piglia il primo piano e non ci rendiamo conto che invece i soggetti sono due: la prostituta, Babilonia-Gerusalemme corrotta, e la bestia che lei cavalca; e talmente sono due che ad un certo punto la bestia si rivolta contro la prostituta e la divora.
E’ sempre la coppia: la bestia del mare e la bestia della terra, il potere religioso corrotto e il potere politico. La bestia è la bestia, il potere politico, paradossalmente per Giovanni, è molto pericolosa, ma banale, sempre uguale a se stesso.
Come già dicevamo, la politica di per sé non è cattiva, ma come strumento, asservita a, può diventare cattiva, ma in fondo è banale, mantiene lo stesso volto, non ha una “mascherata del male”. Ciò che per Giovanni è molto più pericoloso è invece il potere religioso corrotto. Noi diremmo la cattiva coscienza, perché quello sì, si maschera: prima la bestia poi la prostituta, cambia continuamente, ha le fattezze di una città, come Gerusalemme, e può confondere.
Secondo me questa tematica è estremamente interessante. Tra l’altro faccio notare che, oltre al parallelismo successivo con la discesa dal cielo di Gerusalemme, la sposa adornata per lo sposo, c’è un parallelismo con il precedente. Abbiamo visto il capitolo centrale con la visione della donna nel cielo che sta per partorire; poi la donna viene mandata nel deserto ed inseguita dalla bestia. Qui l’ambientazione data dall’angelo è che l’angelo conduce nel deserto e quello che Giovanni vede è una prostituta ed una bestia. E’ come la continuazione o meglio l’esito negativo possibile di quella scena; poi l’altro angelo lo condurrà nel deserto ed egli vedrà la Gerusalemme celeste scendere come una sposa e non ci sarà più la bestia.
La questione è sempre: l’umanità è chiamata a partorire se stessa nella storia e quando la questione viene posta, il termine usato è donna, cioè il termine neutrale, l’indicazione di genere. Poi si usa prostituta e quindi sposa: le due facce che questo termine neutrale può prendere. Allora l’umanità può partorirsi come prostituta o come sposa. Nel caso in cui la donna si partorisce come prostituta sembra stabilire un accordo con la bestia e la cavalca, ma alla fine viene divorata. Se invece si partorisce come sposa la bestia non c’è più.
Si potrebbero fare considerazioni piuttosto interessanti ed importanti. Una di ordine molto generale è che dovremmo sempre preoccuparci quando abbiamo un problema del “come”, cioè un problema politico rispetto alla nostra vita. E’ sempre una falsa domanda perché significa che stiamo contrattando con la bestia. La Gerusalemme sposa non ha bisogno di concretizzare, è.
C’è sempre una questione tra la nostra interiorità e la nostra materialità (Giovanni non usa questi termini postpsicanalitici!). Le religioni orientali, per esempio, insegnano che tutta la materialità è apparente e bisogna liberare l’interiorità dalla materialità. La lettura moralistica del cristianesimo dice che c’è un legame diretto tra interiorità e materialità per cui occorre avere un’interiorità che poi trova le strade concrete per essere, nella materialità, coerente.
Qui è come se la donna rappresentasse l’interiorità e la bestia politica la materialità, le scelte piccole e grandi dei singoli e delle collettività. Allora la questione è posta in modo che esiste un problema: la donna scappa e la materialità la insegue. Solo quando la donna si prostituisce (quando noi partoriamo il peggio di noi stessi) si pone il problema di contrattare con la materialità. Allora la donna asservisce la bestia, che poi se la mangia. Quando la donna partorisce il meglio di sé e discende dal cielo come una sposa adornata dal suo sposo, come la città nuova, si dirà “non hanno più bisogno di luce di lampada, né di sole”.
Non è un azzeramento della materialità. La città naturalmente ha una sua materialità, viene descritta: come sono le porte, adornate, e tutto il resto. Si potrebbe dire che la materialità incarna l’interiorità con naturalezza; non è più una questione, non c’è più distinzione.
Con una lettura di questo secolo, che ovviamente non appartiene a Giovanni, è la risoluzione per identità non per sublimazione, né per contrapposizione; cioè il rapporto tra ciò che siamo e ciò che facciamo si risolve in un’armonia che non frustra nessuno dei due. Ad esempio, è su quei capitoli che, negli anni mille, in reazione alla lettura apocalittica di Babilonia la grande, si è costruito l’ideale monastico, il quale prende forza sull’idea di ricostruire una città per cui gli si danno orari, abito, lavoro materiale e intellettuale, preghiera, per riproporre una naturalezza del vivere dove l’interiorità sia perfettamente rispecchiata nella esteriorità e viceversa.
Credo che questo sia un problema molto serio perché noi ci ingarbugliamo molto sulla domanda del “come concretamente” e siamo tentati o di moralismo, che conosciamo meglio, di farci mille sensi di colpa o di giudizio sugli altri, oppure di vanificare la materialità affermando che conta solo l’intenzione che in fondo è buona.
Forse uno dei grandi problemi del prossimo secolo sarà quello di inventare una nuova arte cristiana del vivere, una sciolta naturalezza di gesti che dicano semplicemente ciò che hanno da dire. Noi facciamo dire ai nostri gesti troppo e troppo poco per cui investiamo su un gesto, su un sorriso, su una gentilezza, su una sgarberia, su un nervosismo, una responsabilità immensa e poi, paradossalmente, lo svuotiamo di ogni significato reale per cui carichiamo su quel gesto l’intenzione, non la sua oggettività.
Intervento: Quindi nel nuovo millennio sarà il monachesimo che ci aiuterà a trovare l’armonia della totalità?
E’ molto difficile dire su che cosa puntare e non mi azzarderei. Mi pare che, comunque, la questione sia una nuova arte cristiana del vivere. Credo che, dopo vari scossoni, prima il devozionismo, il manualismo, il moralismo, poi Vaticano II che ridà una drizzata a tutta la questione, siamo, a bocce ferme, dalla crisi del cinquecento. L’armonia creata dal monachesimo ha retto bene duecento anni poi ha incominciato a decadere, ma era poi ancora quella che reggeva fino praticamente al cinquecento che ha segnato una rottura. Non a caso c’è stato Lutero con una serie di questioni che la storia ha posto e che il cristianesimo non è stato in grado di elaborare immediatamente: il rapporto con il potere, la socialità, la storicità.
Vaticano II dà una dritta ma, in qualche modo, più all’indietro che in avanti, cioè chiude con il periodo del cinquecento riconoscendo di aver sbagliato nelle condanne, nei confessionalismi, e stabilendo di rimettere al centro la parola di Dio. Ha fatto veramente una buona piazza pulita: Cristo al centro. Ma quali sono le regole, qual è la profezia culturale, la conformazione d’incarnazione che il cristianesimo ha di fronte a sé per il prossimo millennio, qual è l’arte cristiana del vivere che, facendo tesoro di tutto ciò che è stato, dopo aver chiesto perdono degli errori del passato, non ripeta semplicemente, più o meno aggiustandoli, i modelli già percorsi e sia in grado di dare armonia, facendo tesoro di tutto ciò che la storia ha insegnato?
Cito sempre la psicanalisi per dirne una, ma il marxismo, la lotta dei poveri, una serie di cose che la storia ci ha dato, qual è la configurazione che lanciano in avanti, come il monachesimo ha fatto, come i greci avevano fatto nel IV secolo, che rioffra una struttura di civiltà, cioè qualcosa che abbia un’anima ma anche dei dati concreti?
Credo che la modernità di questo testo stia qui. Non so se riesco a trasmettervi la potenza con cui sento tutto questo. Perciò, fin dall’inizio, ho sostenuto che l’Apocalisse è un libro estremamente moderno, perché fa i conti con la complessità, perché non è un libro di propaganda come, nel senso buono, i Vangeli, non è un libro di principi base e di schieramenti facili, pro o contro. E’ invece un testo che fa i conti con la complessità della storia e pone legami e questioni che ogni 5/600 anni si ripongono in modo drastico.
Ogni 5-600 anni l’Apocalisse gode di un periodo di effervescenza, di interessi, di studi mentre in tempi più quieti, quando il monachesimo si stava assestando, la questione non si poneva e venivano letti molto di più gli Atti degli Apostoli perché era un tempo di costruzione, di modello ben delineato e si trattava di metterci intorno i pezzettini con tutti i rischi e le ambiguità dei tempi nei quali ogni tentativo ha un suo correttivo.
Ora ci sono questi tempi che viviamo noi, in cui non c’è modello perché ne è andata in crisi l’impalcatura. Nessuno di noi può più credere nella restaurazione di una città di Dio perché questo, pur in un sogno potente, di destra o di sinistra, integralista o neomarxista, ha mostrato tutti i suoi limiti.
Sequeri, con un’idea bellissima, dice che troppo a lungo abbiamo ragionato sulle u-topie, cioè sui non luoghi e che sta tornando un tempo in cui è necessario occuparsi di eu-topie, di luoghi buoni per spendere delle cose, di luoghi che esistano. Quando si ha un modello ci si può permettere il lusso di guardare lontano per tenere alto il livello del modello, ma quando il modello non si ha, quello da fare è preparare piccoli luoghi buoni che consentano di costruire. Oppure, a tavolino, secondo un’ideologia, si può costruire un modello e poi spiegarlo a tutti come quello giusto, ma questa modalità già non ha funzionato.
Da questo punto di vista mi pare che il racconto della caduta di Babilonia sia strepitoso perché offre alcuni criteri: prima assume la complessità dicendo con chiarezza una serie di cose; nei due capitoli seguenti la Gerusalemme celeste metterà in luce alcune categorie possibili per una eutopia, un luogo buono; qui invece mette in guardia da una serie di pericoli.
I pericoli sono quelli del capitolo 18: le maledizioni, i mercanti, i comandanti di navi, i potenti. C’è un tema sulla ricchezza, sulla transitorietà del possedere, di cui si ripete ossessivamente che in una sola ora se ne va; tutti noi questo, in teoria, lo sappiamo o l’abbiamo sentito dire nelle omelie, tutti l’abbiamo probabilmente detto, però poi chiedersi veramente come funziona è durissimo perché è più forte di noi in quanto, comunque, ci diamo dei luoghi di possesso, di molti generi diversi. E’ davvero una grande tentazione ed è vero che, delimitati intorno ai possessi, i luoghi diventano meno buoni: è meno facile capirsi, incontrarsi, parlarsi quanto più si hanno cose da difendere.
Un altro aspetto molto interessante è il fatto che la prostituta e la bestia si divorano: non occorre che sia Dio a distruggere Babilonia perché si distrugge da sé. Tutti noi facciamo l’esperienza che la malvagità alla fine si arrotola su se stessa. Su questo tema la mia piccola domanda è che tutte le volte in cui ci affanniamo a tenere in piedi qualcosa che in piedi non sta, forse dovremmo farci almeno sfiorare dal dubbio che magari è un male il quale si sta autodistruggendo e dunque bisogna lasciar andare, anche se ci può dispiacere.
Intervento: Fai un esempio, per favore.
Per capirci faccio un esempio di tipo individuale: ci sono dimensioni di noi, attaccamenti a delle cose, che conserviamo con assoluta determinazione, ma se poi siamo un minimo aperti all’esistenza per come essa è e ci distraiamo un attimo, quelle veramente si arrotolano su se stesse e passano in secondo ordine. Ciò naturalmente vale a molti livelli: sociale, istituzionale, ecclesiale.
Credo, ma questa è una considerazione totalmente personale di cui mi assumo la responsabilità, che uno dei grandi problemi del cristianesimo odierno, pubblico e dei singoli, sia la nostra terrificante difficoltà a lasciare che alcune cose vadano per la loro strada, a separarci. Penso alla scomparsa di persone care ed a come ci è difficile lasciar andare via uno spicchio di malinconia che ci rimane dentro e che si rischia di coltivare perché ci sembra quasi di fare un torto e invece come sia giusto accettare che ci sono cose che vanno, non senza prezzo, ma questo non dice niente né sul legame, né sulla bontà. Però è vero che ci si fa l’abitudine ad un pezzo di malinconia dentro di noi ed esso diventa il luogo in cui ci si accuccia ogni tanto.
Nel testo il male che distrugge se stesso ha molte facce.
Noi abbiamo sempre la preoccupazione di essere noi a correggerlo, combatterlo, spiegare agli altri dov’è. Il cardinale Pellegrino diceva spesso che un vescovo avrebbe dovuto sempre dire di sì di fronte alle richieste, perché se la richiesta veniva dallo Spirito Santo, che il vescovo dicesse di no non serviva fermarla; se non veniva dalla Spirito Santo che egli dicesse di sì non serviva a farla vivere in quanto sarebbe morta da sola. Quindi tanto valeva che mantenesse buoni rapporti con le persone e dicesse sempre di sì.
Credo che noi mettiamo un sacco di energia a contrastare delle cose mentre potremmo attendere che Babilonia la grande distrugga se stessa. Non significa che non si debba far niente; si fa ciò che si deve fare in base alla responsabilità ricevuta o assunta, dopodiché si lasciano andare le cose come devono.
Un altro aspetto che volevo sottolineare era quello del nome di Babilonia che è misterioso. Il termine greco è lo stesso che Paolo e Giovanni usano in altri testi, cioè: mysterion, ma non significa mistero nel senso di nascosto. Bisognerebbe tradurlo “progetto””, il disegno, il sogno di Dio sull’umanità e sulla storia. Il nome misterioso di Babilonia fa parte del progetto; il nome, non lei. E’ interessante questo perché il riconoscimento del male nella pienezza della sua identità, il nome, (stiamo parlando tra ebrei ed il nome per un ebreo significa una serie di cose) di Babilonia sta nel progetto di Dio. E’ veramente l’inizio in cui si dice fin da subito: “Attenzione, il giudizio definitivo, l’identificazione precisa, il sapere chi è, sta nel disegno di Dio, non è a disposizione”.
Da lì in poi è invece tutta una storia storica, tutta dentro le vicende della nostra vita, le cose che accadono. Ma il nome di Babilonia è altrove. Noi non abbiamo possesso nemmeno sulla determinazione del male, cosa che dimentichiamo abbastanza frequentemente.
L’altra questione che mi ha alquanto interessata e su cui ho cercato materiale, senza trovarne molto, é: era ma non è più, è ma ancora per poco. “La bestia che hai visto era ma non è più, salirà dall’Abisso, ma per andare in perdizione. (……..). Dei sette re questo è il sesto…….”
Da un lato c’è un filone che legge la questione con il verbo essere connessa alla rivelazione del nome divino: “Io sono Colui che è”, in Esodo 3. Giovanni è costretto a fare un gioco sul greco perché l’ebraico, a differenza del greco, non ha i tempi dei verbi, ma solo i modi, motivo per cui c’è grande incertezza su come si traduce “Io sono Colui che è”: Io sono Colui che sarà, Io sono Colui che è con te. Per esempio i monaci hanno risolto con: Colui che è, che era e che viene. L’attribuzione in termini filosofici e ontologici non è un problema della Bibbia, dell’essenza nella permanenza, cioè dell’Essere che rimane nel passato, nel presente e nel futuro, è connessa invece all’attribuzione del nome di Dio. La bestia era, ma non è, è, ma non era, è ma non sarà. Giovanni fa un gioco con il greco che dice l’esclusione, mentre il nome di Dio è un nome di inclusione, contiene tutti e tre i tempi. La bestia se era non è, se è non sarà.
Traduzione: è come se Giovanni ci dicesse che in ogni tempo della storia voi vedete il male e vi sembra che il male ci sia sempre stato e ci sarà sempre; non confondetevi, non è così. Solo Dio c’è sempre stato e ci sarà sempre. Il male si consuma e quindi non ha la stessa permanenza, anche se in ogni tempo della storia ce lo troviamo tra i piedi. Però i tre tempi non sono mai insieme, non c’è simultaneità.
Intervento: Quando parla di santi e martiri intende quello che noi intendiamo adesso, non era presto ancora per i martiri delle persecuzioni?
Giovanni dice: “Il sangue dei martiri di Gesù”. Il problema non è i martiri della persecuzione romana, non in questo senso. La connessione è che egli ha parlato dei centoquarantaquattromila martiri che hanno lavato la veste nel sangue dell’Agnello, cioè i giusti dell’Antico Testamento che vengono recuperati nel sangue di Gesù e stanno sotto l’altare. Qui diventano invece i martiri di Gesù. La stessa figura di giusto fino alla morte come il Cristo, non necessariamente per le persecuzioni romane che Giovanni non conosceva ancora, obbediente fino alla effusione del sangue, il giusto dell’Antico Testamento, diventa il martire di Gesù. Viene in qualche modo traghettata l’idea dall’antica alla nuova alleanza.
Come per la vicenda precedente di Roma, noi leggiamo questi testi dopo una storia di cui abbiamo immagini che ci scattano automaticamente. Giovanni scrive probabilmente tra il settanta ed il novanta. Di metà delle persecuzioni romane non si aveva notizia al di là di quel mondo perché erano persecuzioni locali. Comunque non è l’idea standardizzata di martire come nel film “Quo vadis”, ma l’idea di colui che segue il Signore Gesù fino all’effusione del sangue. Ed il concetto è della testimonianza e dell’obbedienza.